Filosofie della storia – 4. Da Rousseau a Marx

[traccia dell’incontro del gruppo di discussione filosofica del 13.02.2023]

È a partire dal ‘700, il secolo dei Lumi, che in Europa si viene formando una coscienza storica (e filosofica) che mette insieme quei salti temporali e spaziali che avevano preparato l’epoca moderna: l’idea, cioè, di un tempo lineare e progressivo e di uno spazio geografico globale, insieme al problema crescente della relazione tra le diversità culturali ed antropologiche, trovano una prima grande sistemazione concettuale nei filosofi a cavallo tra XVIII e XIX secolo, in un arco che va da Rousseau a Marx. Già Vico, poco prima, aveva chiamato non a caso “scienza nuova” la storia – l’unica scienza rigorosa possibile: se è vero che verum e factum corrispondono, e che la natura è fatta da Dio e solo Dio può conoscerne le leggi interne, allora ciò deve valere per la storia in relazione agli uomini, che proprio perché la fanno possono conoscerla dall’interno. Manca ancora un passo, che verrà fatto solo nel secolo successivo: poiché gli uomini fanno la storia, possono eventualmente anche disfarla e deviarne il corso.
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Selvaggi e degenerati

La spocchia liberale e il supposto primato dell’Occidente hanno una lunga storia e sedimentazione nella mentalità, sia intellettuale che corrente.
Francis Bacon, che vedeva nelle vele e nei cannoni un simbolo di progresso, sostiene ad esempio in Ad Advertisement Touching an Holy War che così come esistono persone da mettere al bando, esistono nazioni da mettere al bando, ovviamente per legge di natura o volere divino. Questi paesi riottosi sono piuttosto «orde e branchi, dal momento che sono genti del tutto degenerate rispetto alle leggi di natura», ed è dunque legittimo se non doveroso «eliminarli dalla faccia della terra».
Alla fine del ‘700 il giurista Emer de Vattel, uno dei codificatori del diritto internazionale, scrive senza peli sulla lingua che «le nazioni sono giustificate nell’unirsi come unico corpo allo scopo di punire, e perfino sterminare, genti così selvagge».
Se ne ricava che paesi “civili e ordinati” possono legittimamente distruggere paesi “canaglia” degenerati e indegni di vivere nel consesso delle nazioni.

[fonte: Amitav Gosh, La maledizione della noce moscata]

 

Filosofie della storia – 3. Nuovi mondi: le Americhe, l’Oriente. “Selvaggi” e civilizzati

[traccia dell’incontro del gruppo di discussione filosofica del 16.01.2023]

Questo e il prossimo si possono considerare un unico incontro da suddividere in due puntate: tratteremo dell’istituirsi, con la modernità occidentale a partire dalla fine del XV secolo, di quella visione geostorica che via via si allargherà all’intero globo terracqueo, e che darà luogo ad una vera e propria filosofia della storia occidentale, tra Illuminismo ed epoca dell’ascesa della borghesia industriale. L’arco che ci interessa va dunque dalla “scoperta” dell’America di Colombo fino al Manifesto del partito comunista di Marx ed Engels, un arco di 350 anni il cui processo condurrà fino alla globalizzazione del tardo Novecento – e alla sua crisi negli anni ‘20 del XXI secolo.
Se nello scorso incontro ci siamo concentrati su alcuni elementi fondativi della visione storica occidentale, in particolare per quel che riguarda la temporalità e la visione “progressiva” e diveniente, ci concentreremo ora sullo spazio, ovvero sugli aspetti geografici, geostorici ed antropologici – elementi che confluiranno, tra l’altro, nella visione geopolitica contemporanea.
L’annuncio di quest0 nuovo mondo è ben testimoniato dal filosofo inglese Bacone, che vede con acume visionario nelle vele e nei cannoni – e più in generale nella tecnica – i soggetti principali di una epoca di grande trasformazione: vele e cannoni viaggiano su mari e oceani, ed è proprio questa la chiave di volta di un’accelerazione temporale della storia e di un suo allargamento spaziale come mai prima nella storia umana.

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Sulla sostituzione etnica

Si va sempre più diffondendo una narrazione falsa, artatamente costruita (così come questa fake-cover della rivista National geographic) a proposito di una fantomatica quanto pianificata sostituzione etnica (degli italiani, degli europei, dei bianchi, dei cristiani, ecc.). In realtà, più che di un presunto piano della plutocrazia (o dei “poteri forti” o della solita cricca ebraica) per la sostituzione etnica, occorre parlare di un processo in corso per la sostituzione sociale (se si vuole, della dignità sociale, visto il ritorno di moda di questo termine, senza però specificare cosa sia degno, quale lavoro, quali consumi e, soprattutto, quale vita).
Fin dagli anni ’80, ovvero dal chiudersi del ciclo di lotte operaie seguite al boom economico, si è aperta una fase di sostituzione dei processi produttivi e di integrale asservimento della forza lavoro (e del tempo sociale) alle logiche del profitto. Vi è stato, cioè, il compiersi di quella sostituzione antropologica profetizzata da Pasolini – da popolano a consumatore, da lavoratore-soggetto a sottomesso-assoggettato, flessibile e precarizzato, da uomo (e donna) nuovi, sociali, politicizzati a cliente privato di servizi privati, da attore a spettatore dei processi, e così via.
Anche lo stato sociale (largo e universale nei ’70) è stato sostituito da un welfare sempre più dimagrito e minimo e via via privatizzato: l’accesso alla sanità, alla scuola, all’università, alla mobilità, alla cultura viene facilitato per chi ha più reddito – qui le tutele sono decrescenti.
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Il volto e il corpo dell’altro – 6. Altre filosofie: l’Oriente

Chi è l’Oriente?
È l’uomo in giallo
che vestirebbe in rosso se potesse
e porta in scena il sole

Chi è l’Occidente?
È l’uomo in rosso
che se potesse vestirebbe in giallo
e che di nuovo lo conduce via.
[E. Dickinson]

Ovviamente quando parliamo di Oriente indichiamo un termine o un concetto che ha il suo proprio reciproco in Occidente, senza il quale non starebbe nemmeno in piedi – con tutte le difficoltà che ciò comporta: chi designa cos’è Oriente e cos’è Occidente? In teoria dovrebbe esserci un terzo soggetto a dire cos’è l’uno e cos’è l’altro, altrimenti si corre il rischio di una inevitabile relatività della definizione (Oriente è ciò che Occidente considera Oriente – e viceversa, ma per come storicamente è andata è un viceversa debole).
Qui tratteremo Oriente – un po’ come fa l’intellettuale palestinese Edwad Said in Orientalismo, che ne critica il carattere “essenzialistico”, naturale e geografico-culturale – come frutto di una proiezione e di una mentalità: che cosa c’è dietro la categoria (occidentale) di Oriente? Non è forse quella parte di mondo che l’Occidente reputa Oriente, ma che è soprattutto marcata da una presa di distanza, da una negazione e, insieme, dall’attribuzione unilaterale di connotati immaginari?
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Il volto e il corpo dell’altro – 2. Stranieri, xenìa e homo migrans

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“Straniero” è parola che viene dal latino extraneus, che sta per esterno, esteriore, di altri. Medesima origine ha l’aggettivo “strano” (che invece in latino era reso dalla parola novus, nel significato di insolito) – convergenza ed assonanza che dovrebbe far riflettere.
Lo straniero è così ciò che sta fuori dei confini (familiari, nazionali, etnici, culturali, linguistici, ecc.) e che è affetto da stranezza, diversità, non familiarità. È l’estraneo che provoca turbamento.
I greci avevano invece coniato una parola – “barbaro” – che definiva lo straniero come colui che non parla la lingua greca, che letteralmente “balbetta” (bàrbaros è parola onomatopeica).
Molto diverso – e altrettanto interessante – il significato della parola greca xénos, che sta sì a designare l’altro-straniero (addirittura il nemico, come in Omero), ma con sfumature molto ampie che ricomprendono anche la figura dell’ospite: xenìa indica infatti il vincolo di reciproca ospitalità. Quasi che in questa parola si accenni alla condizione universale di estraneità che può colpire in qualsiasi momento gli umani costretti a lasciare, per qualsiasi ragione, la loro casa, la loro terra, il loro paese, e che trovano confortante l’idea che da qualche parte ci sia uno straniero-ospite pronto ad accoglierlo (molto interessante a tal proposito l’ambivalenza della parola “ospite”, che indica sia il soggetto che ospita che quello ospitato).

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