La piazza dell’intimità

[ricevo e volentieri pubblico questo testo di Giovanni Capurso, docente di Filosofia e storia nei licei baresi e scrittore, quale contributo a quel filone di riflessione che da tempo questo blog affronta, ovvero la trasformazione socioantropologica, il narcisimo e la “pornografia emotiva” indotti dai social media]

Gli stoici dicevano che ci si deve applicare a se stessi, “ritirare in se stessi e lì dimorare”. In tal senso lo scrivere assume un ruolo quasi terapeutico: annotare riflessioni su se stessi da tenere per sé e rileggere in seguito, scrivere trattati e lettere agli amici per aiutarli, tenere taccuini allo scopo di riattivare nel tempo la verità di cui si aveva bisogno erano tutti strumenti fondamentali per tenere viva la propria interiorità. Tra questi gli stoici Seneca e Marco Aurelio ne sono una dimostrazione lampante.
Lo scrivere a mano, cancellare e rivedere è lento, e quella lentezza inevitabilmente favorisce il fluire dei pensieri, li accompagna, li plasma meglio. Più che farci evadere, esso ci rende più profondi. Nel tempo ci ha permesso di avere un’immagine più chiara di noi: che siamo esseri stratificati, che la nostra prerogativa è il mutamento pur mantenendo sempre qualcosa di immutato. E la solitudine ne era un ingrediente indispensabile.
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Retrotopie

«Oggi, pare, non è più tempo di utopia.
Marx è lontano.
Nel futuro.
Oggi è tempo di streghe».
[L. Parinetto, Faust e Marx]

«La tradizione di tutte le generazioni scomparse pesa come un incubo sul cervello dei viventi e proprio quando sembra ch’essi lavorino a trasformare se stessi e le cose, a creare ciò che non è mai esistito, proprio in tali epoche di crisi rivoluzionaria essi evocano con angoscia gli spiriti del passato per prenderli al loro servizio».
[K. Marx, Il diciotto brumaio di Luigi Bonaparte]

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«L’angelo della storia ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui nel cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta».
[W. Benjamin, Tesi di filosofia della storia]

Un corto circuito tra categorie – temporali, storiche, filosofico-politiche – pare spiegare molti degli attuali fenomeni retrotopici (per usare il termine di uno degli ultimi scritti di Bauman): ci si rivolge a un passato di (presunte) certezze a fronte di un futuro più che incerto, si assiste ad una “epidemia globale di nostalgia” dopo la sbornia di (presunto) progresso, ci si rinchiude, rintana, sigilla nei luoghi nelle radici nelle identità (più che mai fittizie) poiché la superficie liscia ed omogenea del globo atterrisce.
Le utopie si rovesciano una dopo l’altra in narrazioni distopiche.
L’angelo della storia non sa più dove guardare.
La storia si configura sempre di più come una parata di spettri.