Filosofie della storia – 6. Il principio speranza di Bloch

1. Una filosofia della storia futura: quasi una contraddizione in termini.
La storia, il passato, la memoria, insieme alle condizioni materiali date, sono il complesso di elementi che pesa sulla vita degli umani, che sembra condizionarli, pre-determinarli, obbligarli su strade necessitate. Evocare quindi una filosofia della storia futura appare quantomai problematico, se si pensa alla forza di quei condizionamenti. Nello stesso tempo – basti pensare alla vita dei singoli – esiste pur sempre una controforza, una pulsione che spinge in direzione del nuovo, dell’inusitato, del non-ancora. Se c’è nell’individuo deve esserci anche in quell’individuo più in grande che è la collettività – fino probabilmente a spingersi all’intera umanità. Questa pulsione viene individuata dal filosofo tedesco Ernst Bloch nel principio speranza (Prinzip Hoffnung).
Principio, non solo affetto: Bloch pensa che la speranza non sia da restringere al campo sentimentale o soggettivo, ma che piuttosto costituisca una forza evolutiva presente a monte, ontologicamente, nell’essere, nella materia, nella vita stessa. Non solo: la speranza ha anche un significato cognitivo, è docta spes, una sorta di scienza utopica.

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Filosofie della storia – 5. Post-moderno, fine della storia e messianismo

L’ultimo scorcio del Novecento sembra chiudersi filosoficamente con una sorta di resa della ragione che ha fondato la modernità: il filosofo francese Lyotard pubblica nel 1979 La condizione postmoderna, lo scritto con il quale si apre l’epoca della fine delle grandi narrazioni (le ideologie totalizzanti e unificanti, l’universale, l’assoluto, ecc.) – e però entra in crisi lo stesso asse portante del “moderno”, la moda e il modo dell’ora, del recente, del nuovo, l’ideologia del progresso infinito.
La medesima idea di filosofia della storia, di storia universale, di un’evoluzione storica unitaria entra in crisi: potremmo dire che si apre l’epoca della crisi per antonomasia interna al mondo occidentale (krisis è parola greca che indica un apice di forza e di tensione che occorrerà risolvere in un senso o nell’altro, ma che nella lotta che lo contraddistingue resta incerto nel suo esito).

A partire allora da questa irreversibile consapevolezza critica – e di disincanto – proveremo a mettere in scena alcune tesi di filosofia della storia elaborate nel corso del ‘900, secolo quantomai storico se non storiolatrico, le cui certezze però vanno in crisi proprio al suo volgere: il secolo forse più denso di storia che si sia mai dato, se non altro per le tragedie storiche che vi si sono svolte, e che non hanno precedenti, si chiude con un senso di totale irresolutezza riguardo al futuro.

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La piccola porta da cui può entrare il messia

Tra la fine del 1939 e il 1940, Walter Benjamin scrive le tesi Sul concetto di storia, quello che può essere considerato il suo testamento filosofico, un vero e proprio Manifesto di un partito rivoluzionario a venire, conficcato nel mezzo del Novecento, mentre infuria la più terribile delle bufere. Il filo conduttore delle tesi sta nella confluenza di materialismo storico e messianismo teologico ebraico secolarizzato, e dunque in una rilettura della teoria marxiana della storia e della rivoluzione: la vittoria della lotta di classe non è affatto un automatismo della storia, la quale si trova piuttosto senz’anima e senza speranza se affidata alle magnifiche sorti del progresso, sia borghese che socialdemocratico (del tutto incapaci di fermare l’avvento del fascismo tecnocratico).
Il tempo della rivoluzione non può essere lineare, né provenire da un vuoto futuro, quanto semmai Jetztzeit – presentificazione dirompente della spettralità dei vinti della storia. Se l’angelo non può arrestare il corso degli eventi, né piegarsi pietosamente a “ricomporre l’infranto”, è compito dei rivoluzionari “organizzare il pessimismo” senza cedere all’acèdia, ovvero al fatalismo malinconico.
È, quella di Benjamin, una scrittura densa ed allusiva, che fa uso di allegorie e metafore, e che va quindi collocata nel suo contesto storico e filosofico. Ma, allo stesso tempo, è un pensiero quantomai utopico e dirompente, un atto di amore universale per la rivoluzione e gli oppressi scritto sull’orlo dell’abisso – sia personale che storico. Quello che segue è un tentativo di sintesi, a sottolineare i punti e gli snodi essenziali.

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Filosofia della leggerezza

magritte

Colui che un giorno insegnerà il volo agli uomini,
avrà spostato tutte le pietre di confine;
esse tutte voleranno in aria per lui,
ed egli darà un nuovo nome alla terra, battezzandola
– “la leggera”.
(F. Nietzsche)

PRIMA PARTE – IL PENSIERO DELLA LEGGEREZZA

«Se volessi scegliere un simbolo augurale per l’affacciarsi al nuovo millennio, sceglierei questo: l’agile salto improvviso del poeta-filosofo che si solleva sulla pesantezza del mondo, dimostrando che la sua gravità contiene il segreto della leggerezza, mentre quella che molti credono essere la vitalità dei tempi, rumorosa, aggressiva, scalpitante e rombante, appartiene al regno della morte, come un cimitero d’automobili arrugginite».

Italo Calvino scrive queste parole durante l’estate del 1985, poco prima di morire – parole che si possono ritenere un lascito, un vero e proprio testamento culturale.
Si trovano nella prima delle sei Lezioni americane, quella dedicata alla “Leggerezza”, e ritengo possano ispirare il discorso che vorrei articolare a proposito del passaggio (o se si preferisce della dialettica) tra gravità e leggerezza. Calvino sembra qui alludere ad una visione millenarista, uno snodo epocale, augurandosi che la ruggine materiale e spirituale del Novecento venga abbandonata al suo destino, e auspicando un salto nella dimensione di una categoria – la leggerezza – che va meglio chiarita.

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Crescere in leggerezza

Il ciclo di incontri che – covid permettendo – darà vita quest’anno al Gruppo di discussione filosofica, giocherà sull’opposizione gravità/leggerezza. Lo spunto viene dalla prima delle Lezioni americane di Italo Calvino (l’espressione “crescere in leggerezza” che dà il titolo al ciclo, si trova nelle Città invisibili). Ma non sono in grado di anticipare molto, prima di tutto perché non c’è alcuna tesi precostituita, bensì solo un insieme di spunti da cui partire, una direzione possibile da prendere, e alcuni testi che ci potranno aiutare; in secondo luogo perché di leggerezza parlerò più specificamente nel secondo incontro, quello dedicato al testo di Calvino e alle suggestioni (letterarie, ma non solo) intorno ai concetti di leggerezza e di invisibilità.
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Progresso impersonale

Aldo Schiavone apre il suo ultimo saggio Progresso con quella che definisce giustamente un’icona del pensiero del Novecento, ovvero il testo con cui Walter Benjamin interpreta il dipinto di Klee Angelus Novus. Direi che è il caso di riportarlo per intero:

«C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta».

Ho sempre trovato il passo di Benjamin infinitamente più bello del quadro di Klee – opera che il filosofo aveva acquistato a Monaco nel 1921, e per il quale nutriva una smisurata adorazione. Schiavone utilizza l’icona-simbolo di una filosofia antiprogressiva e pessimista della storia, per affermare non tanto l’ideologia delle magnifiche sorti e progressive irrise da Leopardi, quanto un fatto incontrovertibile: gli umani non sono mai stati così potenti, longevi, sicuri, dominanti sulla Terra come in questo momento della loro storia.
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La piazza dell’intimità

[ricevo e volentieri pubblico questo testo di Giovanni Capurso, docente di Filosofia e storia nei licei baresi e scrittore, quale contributo a quel filone di riflessione che da tempo questo blog affronta, ovvero la trasformazione socioantropologica, il narcisimo e la “pornografia emotiva” indotti dai social media]

Gli stoici dicevano che ci si deve applicare a se stessi, “ritirare in se stessi e lì dimorare”. In tal senso lo scrivere assume un ruolo quasi terapeutico: annotare riflessioni su se stessi da tenere per sé e rileggere in seguito, scrivere trattati e lettere agli amici per aiutarli, tenere taccuini allo scopo di riattivare nel tempo la verità di cui si aveva bisogno erano tutti strumenti fondamentali per tenere viva la propria interiorità. Tra questi gli stoici Seneca e Marco Aurelio ne sono una dimostrazione lampante.
Lo scrivere a mano, cancellare e rivedere è lento, e quella lentezza inevitabilmente favorisce il fluire dei pensieri, li accompagna, li plasma meglio. Più che farci evadere, esso ci rende più profondi. Nel tempo ci ha permesso di avere un’immagine più chiara di noi: che siamo esseri stratificati, che la nostra prerogativa è il mutamento pur mantenendo sempre qualcosa di immutato. E la solitudine ne era un ingrediente indispensabile.
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Ricomporre l’infranto

Non lo avevo mai letto finora, e un po’ me ne vergogno.
Ma è bene che resti sempre qualcosa di importante da leggere, altrimenti a che scopo vivere?
In questi vent’anni devo averlo prestato migliaia di volte, ma io non lo avevo ancora letto.
A 14-15-16 anni ho letto tutto Dostoevskij. Ma non quel libro.
E allora lo scorso 27 gennaio, non potendone più, ho cominciato a leggerlo.
Due tre pagine al giorno. Una due lettere al giorno.
E stamattina è arrivata l’ultima pagina, l’ultima lettera, datata 1° agosto 1944.
Anna – perché è di lei che sto parlando – esordisce scrivendo di un “fastello di contraddizioni”. E prosegue, per l’ultima volta nella sua vita, con una capacità di analisi interiore davvero invidiabile.
Per quasi 4 mesi Anna Frank è stata qui, nel mio soggiorno, allegra e vitale come solo i fantasmi sanno esserlo. Preoccupata, ma mai disperata.
Un’adolescente che girava per casa, canzonandomi, che mi dava da pensare, che mi faceva ridere e commuovere, e stupire per quella precoce capacità di scrivere, di analizzare sé e gli altri, di prospettarsi, nonostante tutto, il mondo a venire. Un’adolescente con l’ansia di crescere e di trovare un posto nel mondo. E che un po’ ho sentito come una figlia. Talvolta la lettura m’imbarazzava, come se stessi violando uno spazio intimo, che doveva essere protetto.
E così, giorno dopo giorno, confessione dopo confessione, giravo le pagine, che via via si assottigliavano, col terrore di giungere alla fine. Perché a quel punto le mie stanze sarebbero rimaste vuote e Anna se ne sarebbe andata via per sempre.
Ora quel momento è arrivato. Il momento del congedo. Con le sue definitive pagine bianche. E sono più che mai sgomento. E svuotato.
Perché nell’aria rimane la sensazione che quella vita spezzata – insieme a milioni di altre – sia rimasta irredenta. Peggio ancora: che sia irredimibile. Poiché l’angelo della storia evocato da Benjamin non è in grado di “destare i morti e ricomporre l’infranto”.

Retrotopie

«Oggi, pare, non è più tempo di utopia.
Marx è lontano.
Nel futuro.
Oggi è tempo di streghe».
[L. Parinetto, Faust e Marx]

«La tradizione di tutte le generazioni scomparse pesa come un incubo sul cervello dei viventi e proprio quando sembra ch’essi lavorino a trasformare se stessi e le cose, a creare ciò che non è mai esistito, proprio in tali epoche di crisi rivoluzionaria essi evocano con angoscia gli spiriti del passato per prenderli al loro servizio».
[K. Marx, Il diciotto brumaio di Luigi Bonaparte]

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«L’angelo della storia ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui nel cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta».
[W. Benjamin, Tesi di filosofia della storia]

Un corto circuito tra categorie – temporali, storiche, filosofico-politiche – pare spiegare molti degli attuali fenomeni retrotopici (per usare il termine di uno degli ultimi scritti di Bauman): ci si rivolge a un passato di (presunte) certezze a fronte di un futuro più che incerto, si assiste ad una “epidemia globale di nostalgia” dopo la sbornia di (presunto) progresso, ci si rinchiude, rintana, sigilla nei luoghi nelle radici nelle identità (più che mai fittizie) poiché la superficie liscia ed omogenea del globo atterrisce.
Le utopie si rovesciano una dopo l’altra in narrazioni distopiche.
L’angelo della storia non sa più dove guardare.
La storia si configura sempre di più come una parata di spettri.

Il flâneur

flaneurIl mio primo impatto serio con la filosofia – ne ho già narrato qui – avvenne esattamente 30 anni fa. Ed è indissolubilmente legato ad una persona – Franco Crespi – che da 3 anni non calca più questa terra. Non è un caso che utilizzi questa metafora (una delle tante perifrasi per non nominare la morte), dato che la sua figura è indissolubilmente legata a quella di un tipico flâneur cittadino. Un flâneur in verità un po’ ammaccato negli ultimi tempi, per ragioni di salute e di trascuratezza. Ma mi piace tornare col pensiero a quel 1984, l’anno in cui lo conobbi e in cui mi innamorai follemente della filosofia: lui fu uno dei tramiti seducenti e fascinosi di questo innamoramento che, tra alti e bassi, perdura tuttora, anche se è ormai più un amore consunto e abitudinario, con dei ritorni di fiamma sempre più rari (non è vero che è così, ma mi piace scriverne così, è letterariamente più interessante e romantico).
Ma torniamo alla flânerie crespiana: incedeva per le vie della città col suo metro e ottanta e la sua chioma argentea e svolazzante, gli occhi celesti (che talvolta guardavano chissà dove) e bisognava a tutti i costi percorrere chilometri e chilometri con lui, discutendo di ogni cosa, dato che pensare e camminare erano intimamente legati. Ma non parlo di un camminatore qualsiasi (camminare è anche l’andare ciondolante e svagato in campagna o quello ascendente e da marcia delle montagne – esistono molti camminatori, molti modi di camminare, così come molti modi di pensare), parlo proprio di un flâneur profondamente cittadino e radicato nella metropoli, allo stesso tempo antagonista, incazzoso ma anche sognante ed in perenne movimento.
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