Mahler, i fili d’erba, la cura

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Poiché settembre, com’è noto e come dice il cantastorie, è il mese del ripensamento, e subito dopo l’estate “porta il dono usato della perplessità”, che induce a giocare con le identità e con le possibilità – mi sono dato, proprio in questo mese, più tempo del solito per le mie passeggiate quotidiane. Non solo: ho anche approfittato della lunga coda estiva per riascoltarmi le 10 sinfonie di Mahler, en plein air. E l’ho fatto a rovescio, partendo dall’ultima e risalendo alla prima. Dieci, nove, otto, sette… una per ogni passeggiata, qualcuna di quasi due ore, come saprà chi conosce Mahler e le sue interminabili opere.
E solo poco fa, al compimento del ciclo, durante l’ultimo movimento del Titano, con la complicità dei fili d’erba mossi dal vento, mi si è rivelato un ulteriore significato di questa mia quasi trentennale frequentazione (quasi ossessione) mahleriana.
La musica di Mahler è stata la mia cura. Non solo e non tanto per l’incredibile ricchezza di significati, un vero e proprio attraversamento di tutte le fasi, i drammi, la bellezza, i chiaroscuri della vita – il titanismo, la tragicità, l’amore, la natura, lo struggimento, la morte, la caducità, una trasognata eternità, l’irraggiungibile sentimento di pienezza e di totalità… e potrei andare avanti a lungo, in un gioco (forse stucchevole) di riconoscimento e identificazione.
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Ottava parola: filosofo

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(con questo incontro si conclude il ciclo del Gruppo di discussione filosofica della Biblioteca di Rescaldina, edizione 2014/2015. Queste, nell’ordine, le altre parole discusse: guerra, lavoro, felicità, perdono, libertà, reale, bene)

Esiste subito un problema nel riferirsi ad una figura specifica del filosofo in un’epoca piuttosto che in un’altra: l’invarianza delle questioni filosofiche (dopotutto che cosa è cambiato nella sostanza delle domande filosofiche da Eraclito, Socrate, Diogene, Epicuro fino ad oggi?).
Il punto sarà quindi capire come le medesime questioni vengono ogni volta declinate entro situazione specifiche (“storicamente determinate”), al di là dell’invarianza filosofica.
Ciò non toglie che il ruolo del filosofo, il suo peso sociale, varia nel tempo e nelle diverse società (anche se rimane costante la sua “pericolosità” agli occhi del potere: basti pensare a figure come quelle di Socrate, Giordano Bruno, Spinoza, Rousseau o Diderot, Marx, Gramsci…).

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La sostanza di Stoner

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L’ho letto quasi d’un fiato, come non mi capitava da tempo. Non ricordo chi me l’ha consigliato (se una persona in carne ed ossa, una qualche citazione fortuita e collaterale o semplicemente il mio lavoro di bibliotecario), ma sono davvero contento di averlo letto. È probabile che abbia sbirciato una frase della postfazione di Peter Cameron, scrittore che stimo e di cui ho letto con molto interesse Un giorno questo dolore ti sarà utile – quando dice: «la verità è che si possono scrivere dei pessimi romanzi su delle vite emozionanti e che la vita più silenziosa, se esaminata con affetto, compassione e grande cura, può fruttare una straordinaria messe letteraria».
E in effetti è questo il primo aspetto notevole del romanzo di John Williams, che è forse ciò che più eleva e nobilita la letteratura e la scrittura: lo sguardo compassionevole e la sintonia affettiva con il destino degli umani (e non solo, poiché anche di animali, vegetali, pietre, oggetti ed altro si può scrivere in tal modo) – che è davvero un “prendersi cura” (l’inviare “ambasciate d’affetto”, di cui parlava Vitaliano Brancati nel Bell’Antonio).
Vi è poi la straordinaria capacità di rappresentare “una vita” nei suoi snodi essenziali, sia interni che esterni (ammesso che tale distinzione possa essere fatta): Stoner – il nome del protagonista del romanzo, da cui prende il titolo – è totalmente dentro il suo tempo (ma, come vedremo tra poco, ne è al contempo totalmente fuori).
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(In)utilità della filosofia

[Riporto la traccia del mio intervento all’ultimo incontro del Gruppo di discussione filosofica, presso la biblioteca di Rescaldina. I Lunedì filosofici riprenderanno in autunno]

 

“La filosofia è quella cosa con la quale o senza la quale tutto rimane tale e quale”.
“La nottola di Minerva inizia il suo volo soltanto sul far del crepuscolo”.
Due frasi – una dal sapore popolaresco e canzonatorio, l’altra corrucciata dalla serietà hegeliana – che giungono ad una medesima conclusione: la filosofia come qualcosa di inutile, cioè privo di uno scopo determinato (non ha importanza qui il contenuto dello scopo; ciò che importa è che vi sia una finalizzazione dell’attività: faccio questo per ottenere quest’altro, purché mi sia utile, cioè vantaggioso, che mi apporti dei benefici – anche se poi esistono scopi reconditi, eterogenesi dei fini, beni che si rivelano mali, insomma una casistica esageratamente varia).
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L’insostenibile gravità dell’esistere

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Pochissimo s’è parlato in questo blog di Søren Kierkegaard. Solo fugaci citazioni, in 4 o 5 occasioni, nulla di più. Il 5 maggio scorso ricorreva tra l’altro, nel più assordante dei silenzi, il bicentenario della sua nascita.
Del resto il filosofo danese non è di sicuro nelle mie corde – ed anzi, ricordo che all’università, io e un mio compagno con il quale ho avuto il piacere di condividere anni di forsennata passione filosofica (e di grandi bevute), eravamo soliti sbeffeggiare il povero Søren, in particolare per quella sequela di titoli angosciosi e funesti – Timore e tremore, Briciole filosofiche, Il concetto dell’angoscia, La malattia mortale… – a nostro avviso ben poco filosofici, e comunque lontani dal nostro stile irruento e vitale (io poi ero all’epoca un temibile estremista hegeliano!).

[En passant, Briciole di filosofia fu, se non erro, il primo blog filosofico che incontrai sul web, subito dopo aver aperto La Botte. Quasi una nemesi].

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L’allodola di Richard Strauss e le ceneri di Hitler

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Quattro anni sono probabilmente pochi per fare i conti con il nazismo – laddove Heidegger, ad esempio, ne ebbe a disposizione una trentina, senza peraltro farli mai davvero. Un mio docente sosteneva che l’opposizione antinazista di Heidegger stesse tra le righe delle sue lezioni su Nietzsche dei tardi anni ’30, al che mi verrebbe da rispondere: bah! Heidegger era e rimane un nazista.
Richard Strauss (che morì nel 1949) era oltretutto un musicista, non un pensatore – per quanto fosse stato probabilmente, almeno negli anni ’20 e ’30 del secolo scorso, il più grande musicista vivente – ma non si era particolarmente compromesso col regime, ed anzi si era persino impuntato e aveva ottenuto una sorta di dispensa direttamente dal Führer, a proposito della sua collaborazione con lo scrittore ebreo Stephan Zweig, il suo librettista preferito. Salvo poi comunque dovervi rinunciare e diventare un artista del Reich, volente o nolente (ad un certo punto venne nominato presidente della Reichsmusikkamer nazista).
Ecco perché in questi casi provo un certo imbarazzo (ne avevo parlato a suo tempo, a proposito di alcuni fascistissimi poeti), anche se in verità l’imbarazzo (o meglio, la vergogna) dovrebbero essere dell’artista – ma chi è morto non può più provare alcunché. Di solito se ne esce distogliendo lo sguardo dall’autore e dalla sua accidentata biografia, fatta (come per tutti) di luci e di ombre, e ci si concentra solo sull’opera, come se si fosse fatta da sola e come se si stagliasse limpida, al netto delle scorie e delle sozzure della storia (sia individuale che collettiva). Ma si può fare davvero?
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Sazio di giorni: visione

Prefigurare la sazietà. Immaginarmi vecchio, ma non cadente.
Sotto un ulivo, l’amaca a dondolare l’ultima fertile lettura.
La collezione di grasse sculture vegetali,
decenni di cura di cui andar fieri.
La collezione di memorie con pochi rimpianti.
I chiaroscuri inevitabili, le ferite che bruciano
– lasciarle bruciare, che è giusto.
La vasta collezione di volti e di gesti e di affetti.
Una musica diversa ad ogni tramonto
eco di tutte le canzoni cantate, di tutte le sinfonie ascoltate.
Un bagno all’alba sotto la torre Saracena, per lavar via la malinconia.
E camminare risalendo il torrente, anche se le gambe dolorano.
E pensare, pensare il più possibile, pure se la mente brucia.
Lasciarla bruciare, male non fa.
Poco cibo, l’essenziale, senza scorticare troppi viventi.
Lasciare il mondo su binari più diritti di un tempo.
Con qualche seme e qualche giovane mente in più in circolazione.
Lasciare alcuni scritti (pochi ed essenziali)
parole che scavano e che s’innalzano (poche ma essenziali)
incise su pietre che il vento e la pioggia scalfiranno
– ma solo tra un po’.
Ed un corpo scolpito da bellezza e avversità
esposto al lavorìo del tempo, senza coprire cicatrice alcuna.
Avere amato altri corpi altre anime,
ma alla fine aver lasciato indietro tutti.
Perché di fronte al gorgo si è soli.
Sazi e soddisfatti, sereni ma non felici,
oh! sarebbe così bello!
Il gorgo non sarebbe poi così male.
Vi si scivolerebbe piano fino in fondo
come fosse un antro fresco e odoroso.
E io, sazio di giorni.

Sazio di giorni

(endiadi mortuaria, ma per nulla necrofila ed anzi vitalissima)

L’amica filosofa Nicoletta Poidimani, durante la presentazione all’ex-Cuem autogestita della Statale di Milano del libro Corpo e rivoluzione – raccolta di contributi sul pensiero di Luciano Parinetto – dice innanzitutto che gli manca. Cosa ovvia, potrebbe rispondere chi abbia conosciuto il loro rapporto, non solo filosofico ma anche “umano” (così si suol dire, come se la filosofia fosse disumana).
Ma il senso di questa mancanza va meglio indagato. Lei dice che le manca soprattutto l’intreccio con i pensieri, le parole e i giudizi della persona che è assente e, ora, muta. E fa alcuni esempi: “mi chiedo che cosa direbbe su questo, che battuta farebbe su quell’altro”, e così via. Eppure, paradossalmente, è proprio quel che meno dovrebbe o potrebbe mancare, questo lato di un’alterità assente. Ciò che manca una volta per tutte è il suo corpo – la configurazione di parti che con la morte semplicemente si decompone, lasciando che ogni atomo o parte segua altre strade e dia vita ad altri corpi o composizioni.
Certo, noi sappiamo spinozianamente che quella configurazione è eterna (non immortale) – la sua comparsa sulla scena dei modi della sostanza è per sempre, e non potrà mai più recedere dal cerchio dell’apparire (ma qui non vorrei impelagarmi nel linguaggio severiniano, oltre al fatto che tale certezza appaga forse la ragione, ma per nulla il cuore).
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Mezzo secolo

“Chi corre, chi s’appiatta
per ingannare il Tempo, belva attenta e funesta…”
(C. Baudelaire)

È così bello, esserci!
Anche perché così casuale…

È da qualche giorno che sto cercando di scrivere qualcosa di sensato su quell’insensatezza assoluta che è lo scorrere del tempo, il passare degli anni, il consumarsi del (mio) bìos. Che di per sé (o meglio in sé) sono fenomeni del tutto indifferenti, parte di una megamacchina cosmica che segue imperturbabilmente il suo corso, glaciale, muta e misteriosa come un cielo d’inverno trafitto di stelle. Ma che per me devono pur significare qualcosa. E tutto sommato se ne potrebbe concludere che altro senso non ha la vita (vista da una parzialissima e finitissima mente umana) se non quello di essere narrata (dalla medesima mente) attribuendole un senso, un verso, un capo e una coda – quali essi siano. Che è poi una autoattribuzione. Ma veniamo al dettaglio, scendendo dall’algido in sé al bruciante per me

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Melancholìa per Mahler

(Congedo. Frantumi. Struggimento. Gelassenheit. Ahi, me lasso! Abbandono. Dissolvimento. Fato. Morte. Dissoluzione. Danza macabra. Silenzio. Melancholìa…
Parole associate all’ascolto della Nona Sinfonia di Mahler, di cui oggi 18 maggio ricorre il centenario della morte).

Antica disputa quella sul rapporto tra arte (o pensiero o azione) e vita: quanto la biografia di un artista (o pensatore o figura storica) è determinante per la sua opera? Che lo sia almeno un po’, anche i più oggettivisti e neutralisti non possono negarlo. In che misura lo sia, quanto debba essere considerata e soppesata – questo è forse oggetto perenne (e forse irrisolvibile) di disputa. Ma è lana caprina, dato che il bios di un individuo è a sua volta una struttura complessa e immersa nella storia, nei contesti oggettivi, nella temperie e negli “stili di vita” di un’epoca. Certo, il naso di Cleopatra resta un elemento contingente e va messo nella giusta gerarchia della causalità storica; mentre nella vita di un artista la contingenza o la casualità possono ben avere un’incidenza maggiore, anche se a conti fatti la questione di fondo rimane identica: qual è il peso di quella singolarità sulla totalità?
Esemplare, da questo punto di vista, il destino di Gustav Mahler. Continua a leggere “Melancholìa per Mahler”