Ma ciò di cui il filosofo si meraviglia
non è lo straordinario, bensì l’abituale.
(R. Ferber)
Periodicamente occorre tornare alle radici della filosofia. Per lo meno, io sento questa esigenza. Ma credo si tratti di una necessità teoretica, più che di un vezzo soggettivo. A rigore, bisognerebbe farlo ogni volta che si filosofa, ma anche filosofare segue un suo trantran (parola detestabile, che però rende bene l’idea), e pure l’attività noetica più rarefatta può precipitare nella piatta routine della quotidianità e delle sue abitudinarie ricorrenze. E in effetti non è che tutte le volte che si apre un testo, o si scrive o pensa qualcosa, oppure si critica, si discute, si fa lezione e quant’altro, ci si può permettere il lusso di fermarsi, quasi bloccarsi di colpo e chiedersi – ma perché lo sto facendo? che cosa sta alla base di questa mia attività? Sarebbe un po’ come voler arrestare la vita che fluisce chiedendosi di continuo che cosa essa sia e perché fluisca: che vita sarebbe in tal caso?
Eppure la filosofia, sempre a rigore, funziona esattamente così e, contrariamente alla vita, si arresta e chiede conto di ciò che essa è. Il problema, non piccolo, è che l’interlocutore a cui chieder conto non sta da nessuna parte, o meglio, non può essere altri che se stessa: insomma è il medesimo soggetto che fa le domande e che si dà le risposte, voce nella notte cui solo la sua eco può rispondere. Se lo si potesse chiedere a qualcun altro, questo dovrebbe mettersi a filosofare, e chiedersi perché lo fa, e così via all’infinito.