La “leggerezza” di cui parla il nostro primo concittadino ammesso ad usufruire del diritto – sancito dalla Corte costituzionale, ma non da un pavido Parlamento – di suicidio assisitito, non è certo una forma di leggerezza “leggera” o frivola. Ed anche la leggerezza che sento io, insieme a molte altre persone – e che in teoria dovrebbero sentire tutti – è una leggerezza pensosa. Come quella di cui parlava Calvino.
È piuttosto la liberazione da un vicolo cieco nel quale la società ipertecnologica e medicalizzata, che pure ci allunga la vita, ci fa talvolta finire. Perché occorrerà pur decidere qual è il confine tra corpi e macchine – o tra coscienza e tecnica. E se ciò che un tempo si diceva “naturale” sia definitivamente sussunto sotto la specie “culturale”.
So anche che esistono cose e casi indecidibili in etica – com’è possibile decidere una buona morte per qualcuno che non può nemmeno comunicarci la sua intenzione? La stessa autodeterminazione e sacrosanta indisponibilità a delegare ad altri (medici, stato, preti) il proprio destino biologico, non può non tener conto della rete sociale, amicale, affettiva nel quale si è da sempre implicati. La vita è appiccicosa, ma la morte è quanto di più solitario ci sia.
Ma per tornare alla leggerezza: c’è nella morte una sorta di “leggiadria del disfacimento”, per usare una modalità espressiva tipica di Lucrezio, che dovrebbe stornare dai nostri occhi il terrore, e lasciarci sereni e sazi di giorni. Pietosi verso l’altro che muore, che anticipa la nostra stessa morte.
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Filosofia della leggerezza
Colui che un giorno insegnerà il volo agli uomini,
avrà spostato tutte le pietre di confine;
esse tutte voleranno in aria per lui,
ed egli darà un nuovo nome alla terra, battezzandola
– “la leggera”.
(F. Nietzsche)
PRIMA PARTE – IL PENSIERO DELLA LEGGEREZZA
«Se volessi scegliere un simbolo augurale per l’affacciarsi al nuovo millennio, sceglierei questo: l’agile salto improvviso del poeta-filosofo che si solleva sulla pesantezza del mondo, dimostrando che la sua gravità contiene il segreto della leggerezza, mentre quella che molti credono essere la vitalità dei tempi, rumorosa, aggressiva, scalpitante e rombante, appartiene al regno della morte, come un cimitero d’automobili arrugginite».
Italo Calvino scrive queste parole durante l’estate del 1985, poco prima di morire – parole che si possono ritenere un lascito, un vero e proprio testamento culturale.
Si trovano nella prima delle sei Lezioni americane, quella dedicata alla “Leggerezza”, e ritengo possano ispirare il discorso che vorrei articolare a proposito del passaggio (o se si preferisce della dialettica) tra gravità e leggerezza. Calvino sembra qui alludere ad una visione millenarista, uno snodo epocale, augurandosi che la ruggine materiale e spirituale del Novecento venga abbandonata al suo destino, e auspicando un salto nella dimensione di una categoria – la leggerezza – che va meglio chiarita.
Il rarefatto e lieve mondo dei quanti
Non mi pare che Carlo Rovelli citi mai Calvino in questo suo ultimo saggio, Helgoland, sulla fisica quantistica (un piccolo capolavoro di divulgazione scientifica), ma credo che all’autore delle Lezioni americane sarebbe piaciuto non poco.
Se nella prima parte del libro viene ricostruita la genesi della teoria, a partire dall’assurda idea che venne in mente a un giovanissimo Heisenberg abbarbicato alle rocce di una ventosa isola del mare del Nord, con i successivi contributi del gruppo di fisici geniali raccoltisi attorno a Bohr negli anni ‘20 del ‘900 (Pauli, Jordan, Dirac), e poi Born, Schrödinger e altri, per giungere alla straordinaria conclusione della “granularità” del mondo, della sua indeterminatezza ed infine al concetto-chiave di relazione – mi pare che l’avvio della seconda parte (quella più filosofica) ha proprio a che fare con la levità e leggerezza della materia, con l’invisibilità spesso evocata dalla scienza, che tanto avevano colpito Calvino sul finire del secolo. “Il rarefatto e lieve mondo dei quanti”, intitola Rovelli uno dei paragrafi, dove spiega: «il mondo dei quanti è quindi più tenue di quello immaginato dalla vecchia fisica, è fatto solo di interazioni, accadimenti, eventi discontinui, senza permanenza. È un mondo con una trama rada, come un merletto di Burano» (92).
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Crescere in leggerezza

Il ciclo di incontri che – covid permettendo – darà vita quest’anno al Gruppo di discussione filosofica, giocherà sull’opposizione gravità/leggerezza. Lo spunto viene dalla prima delle Lezioni americane di Italo Calvino (l’espressione “crescere in leggerezza” che dà il titolo al ciclo, si trova nelle Città invisibili). Ma non sono in grado di anticipare molto, prima di tutto perché non c’è alcuna tesi precostituita, bensì solo un insieme di spunti da cui partire, una direzione possibile da prendere, e alcuni testi che ci potranno aiutare; in secondo luogo perché di leggerezza parlerò più specificamente nel secondo incontro, quello dedicato al testo di Calvino e alle suggestioni (letterarie, ma non solo) intorno ai concetti di leggerezza e di invisibilità.
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Breve critica della società pandemica
L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà;
se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno
che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando
insieme. Due modi ci sono per non soffrirne.
Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno
e diventarne parte fino al punto di non vederlo più.
Il secondo è rischioso ed esige attenzione e
apprendimento continui: cercare e saper riconoscere
chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno,
e farlo durare, e dargli spazio.
(I. Calvino, Le città invisibili)
[Potrà sembrare estremista quel che scrivo qui – e l’estremismo, a parere di Lenin, è una malattia infantile (non solo del comunismo, direi). A parte che estremista sarebbe semmai praticare le parole che scrivo (di scritture radicali e sovversive son pieni i cieli e la terra, e spesso non sappiamo che farcene) – in realtà l’estremista non sono io, ma la realtà nella quale siamo immersi – o, ad essere più precisi, dalla quale siamo sommersi: una realtà estrema e stremata dalla follia, che corre all’impazzata verso l’abisso. Un vero e proprio iperoggetto, invisibile, viscoso, inafferrabile. Un inferno invisibile].
Il re nudo: una nota a proposito dell’invisibilità
Secondo me non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo,
Ciechi che vedono, Ciechi che, pur vedendo, non vedono.
[J. Saramago]
Se è vero, come argomentato da Sergio Givone, che esiste una metafisica della peste, cioè il manifestarsi nel corso delle epidemie di qualcosa che eccede la mera fisicità biologica del male, e che addirittura evoca la domanda sul senso dell’essere (o sulla sua insensatezza) – allora non dovrebbe apparirci strano il paradosso che si genera a proposito dell’invisibilità: un morbo invisibile che rende visibile l’invisibile, ciò che per lo più non si vede – o perché è l’orizzonte (la struttura sottile) nel quale ci troviamo a vivere, o per una nostra pregressa e consolidata cecità o – più radicalmente – perché ha a che fare con il sottosuolo mistico e inafferrabile delle cose (quel che un tempo si chiamava verità).
Avevo un po’ fumosamente attribuito alla figura dello straniamento – la prima tra le parole del contagio ad essermi venuta in mente – la situazione ai limiti dell’assurdo che si va producendo nel corso di una pandemia: il mondo di prima viene sospeso e messo tra parentesi e nel corso di questa sorta di epoché fenomenologica, qualcosa di apparentemente nuovo, inedito, strano – perturbante – ci si mostra all’improvviso. Molti, anche sui social, hanno ad esempio parlato di ritorno all’essenziale o di uscita dal superfluo; lo hanno fatto magari solo in modo superficiale o sull’onda di facili slogan, ma è il caso di andare a vedere cosa sta dietro a queste reazioni, emotive prima ancora che razionali. Credo che proprio la dialettica tra visibile e invisibile cui alludevo sopra, renda più chiare queste sensazioni di straniamento o cortocircuiti della cosiddetta normalità.
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Sapersi tenere su corde leggere
Proprio mentre mi accingo a scrivere un saggio che vorrei immodestamente intitolare Il principio-straniamento, o qualcosa del genere, una graziosissima fanciulla che sta per dare la maturità mi chiede aiuto a proposito della cosiddetta “tesina” che mi dice di voler fare sulla leggerezza. Magnifico argomento, penso io, anche se di primo acchito non so proprio che consigli darle (ma anche dopo averci pensato un po’, non son mica certo di averle dato indicazioni utili). L’idea originaria viene dalla prima delle Lezioni americane di Calvino – “leggerezza intesa quindi come lucido distacco dalla realtà per non venirne assorbiti inconsapevolmente, ma non rifiuto della realtà” – così mi scrive la cara maturanda, che incrocia anche il concetto di ironia, concetto quant’altri mai filosofico, per lo meno da Socrate in poi. Non dovrebbe essere difficile, quindi, trovare un filo, un discorso, un pensatore adatti all’uopo.
Eppure, da Kant in poi, non è che mi sia venuto in mente granché: anzi, diciamocela tutta, e cioè che la filosofia contemporanea è parecchio pesante, e che ‘sti filosofi la leggerezza (ben intesa, s’intende) manco sanno dove stia di casa.
Anche se… a pensarci bene… per un altro verso… forse addirittura l’intera filosofia contemporanea (senza voler scomodare Severino), potrebbe essere spiegata proprio con alcune delle espressioni utilizzate da Calvino commentatore di Lucrezio e apologeta del suo tentativo di alleggerire la gravità materiale: “dissoluzione della compattezza del mondo”, “polverizzazione della realtà”, “la poesia dell’invisibile, la poesia delle infinite potenzialità imprevedibili, cosi come la poesia del nulla”…
E di fatti, qualche filo qua e là – specie tra i filosofi irrazionalisti e spiritualisti, ovvero i distruttori della ragione, secondo l’epiteto lukacsiano – l’ho trovato, anche se non so cosa possa mai uscirne.
Quarto lunedì: la specie dimezzata
Parleremo questa sera del problema del male, partendo dalla sua formulazione teologico-filosofica in termini di teodicea: come mai esiste il male se (posto o ammesso che) esiste Dio? Al termine “dio” può essere sostituito anche “ordine razionale”, la sostanza non cambia: se si pensa che esiste una ragione, uno scopo, una logica, un senso che ordinano il mondo – e che magari ne finalizzano gli avvenimenti – il male, il caos, l’orrore rimangono un problema che esige spiegazione. Affronteremo la questione in due mosse: nella prima daremo conto del termine teodicea in ambito storico-filosofico, mentre in un secondo momento proveremo a trattare la questione da un particolare punto di vista della contemporaneità, utilizzando alcuni testi di Primo Levi e del filosofo gallese Mark Rowlands.
1) Inquadramento storico
Teodicea (dal greco theos=dio e dike=diritto, giustizia) è termine coniato da Leibniz all’inizio del ‘700, e si riferisce al suo poderoso tentativo di “giustificare Dio”, cioè di scagionare Dio dall’accusa di avere voluto che ci fosse il male nel mondo.
È questa una vecchia questione della filosofia, di cui già si erano occupati gli antichi (gli stoici, ad esempio, o filosofi del calibro di Plotino o di Sant’Agostino), e che dal grande avversario filosofico di Leibniz, e cioè Spinoza, era stata liquidata attraverso una radicale critica ad ogni forma di antropocentrismo: in verità il male e il bene non esistono, se non all’interno di un’ottica tutta umana, ma nel momento in cui si allarga lo sguardo al vasto mondo – alla natura o al cosmo – concetti come bene e male tendono a sparire e a perdere di significato.
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