Apolidia

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Scrive Simone Weil nel 1943: «Le ‘radici’ dell’essere umano stanno nella sua partecipazione attiva e naturale all’esistenza di una comunità capace di conservare i tesori del passato accanto a una qualche visione del futuro» – e lo scrive in piena epoca di sradicamento.
Quasi 80 anni dopo, la domanda rimane identica: c’è una qualche forma di comunità – e di ‘tesori’ – cui il singolo sente di appartenere insieme ad una visione futura?
Io fatico a vederle.

Si mettono in campo di continuo i concetti, che appaiono opposti e sempre più divaricati, di individuo e comunità, libertà e regole comuni: in una situazione di emergenza sanitaria, si dice, o in quelle a venire climatiche, ecosistemiche ed ambientali, l’individuo non può essere libero di decidere, è la comunità a dover decidere innanzitutto, perché qualunque atto del singolo genera a catena conseguenze che riguardano tutti i componenti della comunità.
Il problema è che già prima non esisteva (o meglio, era in profonda crisi) una comunità, laddove lo stato sociale recedeva per mantenere esclusivamente la governamentalità, il potere coercitivo, la garanzia degli interessi economici di una parte.
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Il biopunto in 11 punti: il virus come iper-oggetto

[Sommario: Il peso dell’incompreso – La forma del virus – Iperoggetti – Le tesi biopolitiche di Foucault – Masse biologiche e masse psichiche – Corpi sani, corpi potenziati – Homme-machine – Riduzionismo: ta stoicheia – Limite, Hybris, Aidos – Meccanizzazione  e addomesticamento – Pesantezza della tecnica – Bioetica ristretta e Bioetica generale – In bilico]

1. Non avrei voluto scrivere più nulla sul virus e sulla pandemia, almeno per qualche tempo, dato che già lo sento come un peso che grava quotidianamente, ma l’impulso a riflettere, pensare, scrivere, e così facendo liberarsi dei pesi dell’incompreso (o almeno provarci) non è controllabile, viene e basta, e occorre obbedirgli. E poi il primo anniversario poteva anche essere un’occasione buona per fare il punto sulla situazione. Cosa che risulta non meno problematica oggi di un anno fa, quando marciavamo verso l’ignoto, mentre ora ci viene detto che si sta per uscire dal tunnel e che l’immunizzazione arrecata dai vaccini sarà la luce che ci salverà.
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Altrove (o dell’essenzialismo capitalista)

«L’essenza della realtà è la somma di Capitale più Natura. Entrambi esistono in un etereo altrove. Qui, invece, nel mondo in cui viviamo, siamo rimasti con una macchia di petrolio. Ma non preoccupatevi: l’Altrove se ne prenderà cura. Nel frattempo, a dispetto della Natura, a dispetto di tutte le poltiglie grigie, le cose reali si scontrano e si dimenano. Alcune di esse sbucano all’improvviso perché la fabbrica funziona male o funziona fin troppo bene: il petrolio fuoriesce dalla sua voragine originaria e si sversa nel Golfo del Messico; i raggi gamma emettono plutonio per ventriquattromila anni; gli uragani si formano a partire da enormi sistemi temporaleschi nutriti dal calore dei combustibili fossili; l’oceano di tasti telefonici si estende sempre di più. Paradossalmente, il capitalismo ha scatenato miriadi di oggetti contro di noi, in tutto il loro multiforme orrore e sfavillante splendore. Duecento anni di idealismo, duecento anni in cui gli esseri umani si sono collocati al centro dell’esistente, e ora gli oggetti si prendono la loro rivincita. Una rivincita terribilmente potente, antica, duratura e pericolosamente precisa, invade ogni cellula nel nostro corpo. Quando scarichiamo l’acqua del WC, immaginiamo che il sifone porti via i rifiuti in un regno ontologicamente alieno. L’ecologia ci parla di qualcosa di molto diverso: e cioè di un mondo ontologicamente piatto privo di qualsiasi tubo di scarico, un mondo in cui non c’è nessun “altrove”».

(T. Morton, Iperoggetti)

Breve critica della società pandemica

L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà;
se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno
che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando
insieme. Due modi ci sono per non soffrirne.
Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno
e diventarne parte fino al punto di non vederlo più.
Il secondo è rischioso ed esige attenzione e
apprendimento continui: cercare e saper riconoscere
chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno,
e farlo durare, e dargli spazio.
(I. Calvino, Le città invisibili)

[Potrà sembrare estremista quel che scrivo qui – e l’estremismo, a parere di Lenin, è una malattia infantile (non solo del comunismo, direi). A parte che estremista sarebbe semmai praticare le parole che scrivo (di scritture radicali e sovversive son pieni i cieli e la terra, e spesso non sappiamo che farcene) – in realtà l’estremista non sono io, ma la realtà nella quale siamo immersi – o, ad essere più precisi, dalla quale siamo sommersi: una realtà estrema e stremata dalla follia, che corre all’impazzata verso l’abisso. Un vero e proprio iperoggetto, invisibile, viscoso, inafferrabile. Un inferno invisibile].

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I rami secchi del marxismo

La metafora utilizzata da Carlo Formenti e da Onofrio Romano in un dialogo serrato sulla “attualità” del marxismo non dà scampo: esiste una serie di dogmi del marxismo che urge archiviare. Sarebbe anzi un grave errore, piuttosto lontano dallo spirito marxiano, deificare o ingessare il pensiero dell’autore del Capitale, rendendolo di fatto inservibile per la critica (e l’eventuale trasformazione) del tempo presente. Poco utile anche l’antica distinzione marxiano/marxista: ciò che è di Marx e ciò che è dei suoi interpreti (che in ultima analisi ci condurrebbe in uno dei tanti circoli viziosi ermeneutici, molto utili a fare la rivoluzione, no?).
La metafora ha però un altro risvolto: la potatura di un albero rende possibile un suo ulteriore sviluppo e rigoglio. Nella fattispecie, trovo che avere sottolineato la carenza del politico (in favore di una provvidenziale necessità storica), la non-uscita dal paradigma antropologico orizzontale-individuale e l’insufficienza critica nei confronti della categoria di valore d’uso – siano i maggiori pregi di questo testo. Che provo a sintetizzare brevemente per punti. Continua a leggere “I rami secchi del marxismo”

Succedanei delle patrie

1. Comunità
“Uscire dal ghénos” era un programma pratico-teorico che, ormai 15 anni fa, mi era parso convincente (e che oggi appare pretenzioso), in risposta alle spinte e alle forze militariste e di destra che si andavano riorganizzando contro il cosiddetto movimento no-global. Un movimento che, a sua volta, era l’abbozzo di una visione collettiva e comunitaria (ma insieme moltitudinaria, e dunque più libertaria che comunista) alternativa al liberismo con cui il secolo breve si chiudeva trionfante dopo le grandi cadute a Est.
Uscire dal ghénos – cioè da tutte le tribù e le gabbie identitarie dei secoli e millenni precedenti, mettendo in discussione ogni visione essenzialistica della natura umana – andava in direzione globalista ed universalista, esattamente la medesima direzione di marcia di quel liberismo trionfante. Primo paradosso.
Nel contempo, al di fuori del campo occidentale, si andavano articolando altri progetti – di cui l’11 settembre è stata una prima drammatica tappa – volti a disarticolare non tanto il campo capitalista-liberista, quanto la supremazia imperiale occidentale (anglo-americana e francese, in particolare, dopo che l’Urss era crollata e si stava leccando le ferite di una crisi di lungo corso). Di tutto questo sommovimento, che smentiva plasticamente la tesi della “fine della storia”, quel che più ha fatto le spese, oltre alle ideologie tradizionali, sono state le antiche forme politiche, in particolare gli stati-nazione (o meglio, gli stati sociali che su quegli agglomerati parabiologici della modernità avevano istituito le forme più avanzate di compromesso della lotta di classe del secondo dopoguerra – from the cradle to the grave, come recitava il welfare inglese prima dell’avvento del thatcherismo).
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Sulla sostituzione etnica

Si va sempre più diffondendo una narrazione falsa, artatamente costruita (così come questa fake-cover della rivista National geographic) a proposito di una fantomatica quanto pianificata sostituzione etnica (degli italiani, degli europei, dei bianchi, dei cristiani, ecc.). In realtà, più che di un presunto piano della plutocrazia (o dei “poteri forti” o della solita cricca ebraica) per la sostituzione etnica, occorre parlare di un processo in corso per la sostituzione sociale (se si vuole, della dignità sociale, visto il ritorno di moda di questo termine, senza però specificare cosa sia degno, quale lavoro, quali consumi e, soprattutto, quale vita).
Fin dagli anni ’80, ovvero dal chiudersi del ciclo di lotte operaie seguite al boom economico, si è aperta una fase di sostituzione dei processi produttivi e di integrale asservimento della forza lavoro (e del tempo sociale) alle logiche del profitto. Vi è stato, cioè, il compiersi di quella sostituzione antropologica profetizzata da Pasolini – da popolano a consumatore, da lavoratore-soggetto a sottomesso-assoggettato, flessibile e precarizzato, da uomo (e donna) nuovi, sociali, politicizzati a cliente privato di servizi privati, da attore a spettatore dei processi, e così via.
Anche lo stato sociale (largo e universale nei ’70) è stato sostituito da un welfare sempre più dimagrito e minimo e via via privatizzato: l’accesso alla sanità, alla scuola, all’università, alla mobilità, alla cultura viene facilitato per chi ha più reddito – qui le tutele sono decrescenti.
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#200Marx – Il capitale

15. A prima vista, una merce sembra una cosa triviale, ovvia. Dalla sua analisi risulta che è una cosa imbrogliatissima, piena di sottigliezza metafisica e di capricci teologici… appena si presenta come merce, il tavolo si trasforma in una cosa sensibilmente sovrasensibile.
(Il Capitale)

16. Alla singola macchina subentra un mostro meccanico, che riempie del suo corpo interi edifici di fabbriche, e la cui forza demoniaca, dapprima nascosta dal movimento quasi solennemente misurato delle sue membra gigantesche, esplode poi nella folle e febbrile danza turbinosa dei suoi innumerevoli organi di lavoro.
(Il Capitale)

17. Le sfere dell’artigianato e del lavoro domestico assumono in tempo relativamente e mirabilmente breve l’aspetto di antri di dolore dove le più folli mostruosità dello sfruttamento capitalistico si sfogano a loro agio.
(Il Capitale)

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Monadi digitali

[note a margine della lettura di questo recente testo del sociofilosofo Byung-Chul Han sul neoliberalismo e le nuove tecniche del potere]

1. La libertà come autoproduzione e autosfruttamento illimitati: la dialettica servo/padrone di hegeliana memoria è ora interna, del tutto interiorizzata: ciascuno è insieme servo e padrone di se stesso [ma cos’è “se stesso”?].
Dall’assenza conseguente di un noi politico Han ricava l’impossibilità di una rivoluzione sociale secondo lo schema marxiano.

2. Il capitale è il nuovo dio e orizzonte trascendente [questo era chiaro da tempo)]. La società digitale e i suoi dispositivi sono i luoghi di una neoreligiosità: facebook è la chiesa, il like l’amen, lo smartphone il nuovo rosario.

3. Il capitalismo emotivo: oggi non consumiamo cose, oggetti, merci, ma emozioni, illimitate emozioni. La psicopolitica neoliberale [nuova tecnica di governo globale, successiva alla società disciplinare, perché si fonda essenzialmente sulla positività dell’autosfruttamento] s’impossessa dell’emozione, penetra a livello limbico, istintuale, così da condizionare le azioni (motiv-azioni) sul piano pre-riflessivo.

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La mafia è una montagna di merda, il capitale pure

Giovanni Impastato è passato qualche sera fa da Rescaldina, fortemente voluto dall’amministrazione comunale che della legalità e della battaglia contro le infiltrazioni mafiose ha fatto una delle sue bandiere e priorità.
È stato generoso e rigoroso, di fronte ad una sala piena e attentissima. Indicherei nei seguenti quattro punti la sostanza della sua visione delle cose italiane, in relazione alla mafia e alla vicenda del fratello Peppino – eroe civile di questo paese:

1. La storia di Peppino Impastato va inquadrata all’interno della storia italiana, per lo meno a partire dagli anni ’40, in particolare dalla prima strage di stato, avvenuta a Portella della Ginestra il 1° maggio 1947: fu quello il primo atto di guerra (preferirei chiamarlo così, più che strategia della tensione) contro le battaglie sociali dei contadini che dal basso dei movimenti chiedevano terre, diritti, partecipazione concreta alla vita nazionale.
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