Lo stregone

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«Resta in piedi invece la sua geniale intuizione: che il capitalismo è quel titanico stregone il quale, unificando il pianeta nel nome e nel segno del profitto, ha suscitato e scatenato forze che non sa e non può più dominare. Ma queste forze non sono le ribellioni delle classi oppresse, le quali sono ormai abbagliate soprattutto da follie palingenetiche a base religiosa, sono le ferite irreparabili inflitte al pianeta, avviato al disastro bioambientale perché lo “stregone” non intende arretrare rispetto alle sue scelte miopi e devastanti».
Così scrive sulla pagina culturale del Corriere della sera di oggi Luciano Canfora, a proposito della trilogia edita da Carocci sulla Storia del marxismo, che poi conclude il suo ragionamento con un apparente paradosso: il capitalismo – direbbe oggi Marx nell’intervista immaginaria di Donald Sassoon – non può essere globale; se lo fosse davvero, quattro miliardi e seicento milioni di ascelle che ricorrono allo spray deodorante produrrebbero il suono assordante dello strato di ozono che si spacca!
Non solo: la macchina infernale non può autocorreggersi, essendo il suo primum movens l’autovalorizzazione, a costo di vendere armi e di fare profitti anche con chi si mette a sparargli contro nelle sue ricche metropoli.

Migranti di tutti i paesi, unitevi!

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La “questione migranti” (e/o profughi) revoca in dubbio in maniera radicale il senso stesso della comunità politica (sia essa europea, nazionale o transnazionale). Non solo: revoca ognuna delle questioni – politiche, sociali, economiche, antropologiche, etiche, simboliche.
Proverò ad allinearle per sommi capi, in un quadro sintetico e non certo esaustivo. Una sorta di promemoria, di memorandum (o meglio, di contromemorandum).
È però necessaria una premessa volta a sgombrare il campo da un equivoco linguistico (la lingua, com’è noto, non è mai neutra). Distinguere tra profughi e migranti, come se solo i primi fossero investiti da un’emergenza umanitaria, è del tutto insensato: ogni migrante è un pro-fugo, un umano, cioè, che cerca scampo, in fuga da una situazione che percepisce come pericolosa se non mortale per sé e i propri cari – siano esse guerra, scarsità di cibo, avversità climatiche, mancanza di libertà/possibilità. Gli umani sono animali costituenti la propria possibilità di vita – è questo il senso profondo del concetto aristotelico di zôon politikòn – e ogni qualvolta tale possibilità viene chiusa o negata, essi hanno necessità vitale di riappropriarsene – in qualunque altro luogo e modo.
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Marxionne

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Leggevo qualche giorno fa un articolo di Lucio Villari a proposito del Marx artista incompreso, dove lo storico rilevava ad un certo punto come le opere di Marx, su tutte Il Capitale, avessero in verità completamente mancato il bersaglio (non so come direbbero gli esperti di marketing editoriale oggi, parlerebbero forse di un errore di target): il filosofo e rivoluzionario tedesco finisce cioè per rivolgersi, suo malgrado, a coloro di cui veniva auspicata la dissoluzione – i quali, sottolinea Villari, fanno ovviamente orecchie da mercante. La prima edizione del primo libro del Capitale, uscita nel 1867, venne infatti accolta da un fragoroso silenzio – sia negli ambienti borghesi (gli unici che avrebbero potuto comprenderlo) sia in quelli proletari (per manifesta incapacità intellettuale).
È questa una vecchia storia, che la scuola di massa e la diffusione della cultura (facilitata oggi virtualmente dalla rete) non hanno ancora potuto risolvere: de te fabula narratur – proprio te di cui stiamo parlando sei l’ultimo a saperlo (quando va bene, perché spesso, invece, manco vieni a saperlo).

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Cupiditas: l’orcio, il piviere e la scabbia

[Quella che segue è una sintesi dell’introduzione con cui lo scorso lunedì ho aperto il Gruppo di discussione filosofica che si tiene mensilmente presso la Biblioteca di Rescaldina. Ho cercato di mantenere, per quanto mi è stato possibile nel passaggio alla stesura scritta, il tono colloquiale e il carattere divulgativo. Il tema in discussione era: (Iper)consumi: necessità, bisogni, desideri]

Partiamo dal titolo del nostro incontro: già il prefisso “iper” comporta un giudizio di valore (che è però tutto da argomentare). A tal proposito appare ovvio come ogni società umana (e dunque ogni singolo umano) non possa non consumare per sopravvivere. Senonché – anche questa è un’ovvietà – si sono date storicamente forme sociali diverse con modi diversi di consumare, uno dei quali è l’attuale, il tardo sistema capitalistico globale. Un sistema che non è eterno e che potrà in futuro essere modificato o sostituito. Questo modello viene da più parti denominato e caratterizzato come “consumistico” – ad indicare genericamente un eccesso di consumi, o un’eccessiva concentrazione sulla logica del consumo (senza magari farsi domande su motivazioni, radici, cause, effetti, ecc.). È comunque evidente che non ci sono mai state società in passato che abbiano consumato così tanto, così diffusamente ed intensivamente.
Ma la mia attenzione si volgerà piuttosto all’altra parte del titolo: necessità – bisogni – desideri, e verterà sul lato “soggettivo” più che oggettivo. Ci chiederemo cioè quali sono le spinte interne all’individuo che determinano la logica del consumo. E per far ciò partiremo dall’analisi di un celebre filosofo olandese del ‘600, autore di una interessante teoria della natura umana, ed in particolare delle “passioni” umane: Baruch Spinoza (1632-1677).
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Feroce equità

Chiamiamo le cose con il loro nome. Questo governo cosiddetto “tecnico” è in realtà un feroce governo di destra (molto più di destra della macchietta berlusconiana): è un governo che fa dell’ideologia liberista la sua bandiera, in rappresentanza di un vero e proprio comitato d’affari della borghesia interna ed internazionale. Il fatto che le borghesie, gli interessi economici costituiti (o costituendi), le vecchie e nuove agenzie globali e transnazionali siano (o appaiano) in conflitto tra loro, non deve ingannare: il nocciolo duro del programma economico è di sottomettere il lavoro al capitale, possibilmente in maniera definitiva, sotto la pietra tombale del profitto. È il linguaggio che accomuna i vari Rajoy, Merkel, Sarkozy, Monti, insieme alla cricca di banchieri, monetaristi e speculatori globali.
Secondo la logica di questa cupola, non solo non devono esistere diritti indisponibili, ma i diritti dei lavoratori sono soltanto variabili del tutto dipendenti dal sistema finanziario, bancario e produttivo. E non inganni nemmeno l’apparente divario interno a tale sistema (tra finanza e produzione, tra speculazione ed economia reale): esso piuttosto si tiene e fa lega laddove l’obiettivo comune è quello di sottomettere il lavoro.
Il profitto è il dio indiscutibile, la fede indiscussa cui ogni entità politica (stati, società, classi, partiti, sindacati) deve piegarsi. È questa una forma di monoteismo (e di credenza al limite della superstizione) ben più potente e diffusa delle tradizionali forme religiose.
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Catalogo delle passioni: elefantiaca avidità

Bombardato dalle quantità tabellari e dal serioso chiacchiericcio economico che imperversa per ogni dove da qualche tempo, ho provato a domandarmi se tutto ciò non corrisponda forse ad una qualche fondamentale tendenza della natura umana. Se cioè la dittatura del quantitativo e i relativi miti che lo accompagnano, non siano da ricondurre ad una qualche inveterata ed insopprimibile passione, e se dunque la loro maschera iperrazionale (fatta appunto di numeri, tabelle e ragione calcolante e strumentale) non sia in realtà il camuffamento di una qualche banalissima pulsione biologica e paraanimale. Insomma, scimmioni implumi (e non sempre) incravattati e impomatati, che compilano i loro grafici e giocano con i loro rating. Ho allora deciso di rivolgere la domanda direttamente ad uno dei miei analisti preferiti delle passioni, che con poche parole e con geometrica precisione ha provato a disegnarle in alcune celebri pagine del suo testo più importante – sto naturalmente parlando del maestro Baruch Spinoza e della sua Etica.

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Il tallone del Kapitale

(note a margine di questo 15 ottobre, giornata di lotta globale – tra Barletta, Steve Jobs e un bel po’ di indignados)

1. Mi capita spesso di pensare alla celebre metafora hegeliana della nottola di Minerva, che cala a sera, come la filosofia, quando ormai tutto è accaduto. Un po’ meno spesso – e ciò è grave, forse un segno dell’età – al rovesciamento di questa sorta di schematismo, tentato da Marx, il quale pensa, al contrario, che il pensiero, rimesso sui suoi piedi, può essere l’avanguardia dell’accadere.
Mi pare che in questa fase di sommovimenti locali e globali, manchino però entrambi questi aspetti: sia la ferrea pensosità hegeliana, sia soprattutto lo spazio marxiano (ma anche roussoiano e spinoziano) dell’agire politico, della prassi – della convinzione profonda, cioè, che il mondo può essere modificato per davvero.
E dio solo sa quanto il mondo ne avrebbe bisogno (in verità avrebbe bisogno soprattutto di essere risparmiato, e già questa sarebbe una gran bella rivoluzione).

2. La tragedia di Barletta di qualche giorno fa (peraltro già metabolizzata e rimossa dalla scena), è una rappresentazione emblematica ed angosciosa di questo girare a vuoto della storia e della vita sociale ed individuale. Come se si fosse persa la bussola di quel che si è, e perché – e soprattutto perché non si può essere e vivere altrimenti.
Già Marx aveva evocato nel Capitale l’anima nera dello sfruttamento, Continua a leggere “Il tallone del Kapitale”

Spinoza in Sicilia

Ho fatto una piccola ricerca etimologica sulla parola “ricreazione”, che può naturalmente essere letta come ri-creazione, nuova creazione. Viene dal latino recreationem (da recreatus), e significa in prima battuta “rifare, produrre di nuovo”; mentre in seconda istanza “ristorare, riconfortare, rianimare”: animum o mentem  recreare, oppure recreare tenuatum corpus, cioè dare ristoro al corpo indebolito.
Tale corpo indebolito è quello che il capitale ad un certo punto mette al lavoro, ed al quale concede il tempo strettamente necessario per ricaricarsi e per poter essere ancora efficiente carne (o mente) da valorizzare: la ri-creazione (come a scuola) diventa l’intervallo per ri-creare le energie consumate, al solo scopo di farsele risucchiare di nuovo dal lupo mannaro e insaziabile vampiro capitalista (le metafore sono marxiane).
Ma tornando all’etimologia, ho scoperto che ricrearsi può essere anche detto ricriarsi – molto simile al termine siciliano che sentivo fin da bambino, e che alle mie orecchie suonava all’incirca “arrichiarsi” (la erre di mezzo spariva), che è in realtà arricriàrisi, e che vuol dire in senso lato provare piacere, od anche essere sazio, satollo, del tutto rifocillato.
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Bioepoca – seconda parte

Diamo ora uno sguardo alla scienza e alla tecnoscienza.
La rivoluzione scientifica in epoca moderna – attraverso la riappropriazione della natura da parte della sfera umana, sottratta alla precedente ipoteca teologica – costituisce l’avvio di un processo di teorie e di conoscenze che oggi possiamo definire apparato tecnoscientifico, e che si sostanzia in una precisa mentalità nei confronti del mondo naturale.
La scienza si presenta apparentemente in forma di sapere neutrale ed oggettivo, lontano da ogni connotazione valoriale (fatti, non giudizi): in una formula matematica o in una reazione chimica, oppure nella conoscenza relativa alle tecniche riproduttive dei coleotteri non c’è, né può esservi, nulla di rilevante sul piano etico. Questo non vuol dire che il sapere scientifico è l’unica forma di conoscenza data. Anche un quadro o una sinfonia ci dicono qualcosa della realtà; basti poi pensare alla poesia, e a quanto essa sia in grado di descrivere con precisione i sentimenti umani, magari meglio di quanto non facciano le neuroscienze (che si limitano spesso a tradurli in reazioni chimiche o in “luci” che si accendono nelle varie parti del cervello).
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Adolescenti II – L’era dell’infantilismo

[In questo post – più lungo di quanto avessi preventivato – ragiono sul processo di infantilizzazione nell’epoca dell’iperconsumo, mentre rilevo alcuni paradossali esiti delle categorie e dei movimenti libertari e più in generale dell’agire politico.
Sommario: Il cittadino-cliente – Infantilizzazione e mito dell’adulto – Deificazione del desiderio – Carpe diem! – Paradossi libertari – Fine della politica?]

Nel saggio Consumati: da cittadini a clienti (Einaudi, 2010), il politologo americano Benjamin Barber dedica tutta la prima parte all‘ideologia infantilistica che permea questa fase dello sviluppo capitalistico. L’autore sostiene come proprio l’infantilizzazione sia diventata il motore più importante del modello consumistico impostosi negli ultimi decenni, specie dopo l’abbandono dell’originario spirito dell’etica protestante e il passaggio dalla fase della produzione dei beni a quella dei bisogni.
L’operazione in corso è a tenaglia: da una parte abbassare la soglia dell’età del consumo, dall’altra infantilizzare il mondo adulto. Interessante come l’autore rilevi en passant che per far ciò il Capitale utilizza anche la leva dell’indebolimento delle figure parentali, “guardiani del cancello”, al fine di conquistare menti e anime dei bambini.
Il fulcro del processo non poteva che essere il mondo americano – Nuovo Mondo da sempre per antonomasia. A tal proposito vorrei allargare il campo di osservazione scelto da Barber (al cui testo rinvio per l’analisi), e spostarmi sulle categorie socioantropologiche di lungo periodo sottese e su alcuni paradossali esiti che mi pare di aver ravvisato.

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