L’agonia della pace

«La mia più intima missione, quella cui per quarant’anni
avevo dedicato tutte le mie energie,
tutte le mie convinzioni – un’Europa unita e in pace –
era fallita

L’ultimo capitolo de Il mondo di ieri. Ricordi di un europeo – l’autobiografia, di un’epoca ben più che individuale, che Stefan Zweig consegna ai posteri il giorno prima del suicidio – si intitola L’agonia della pace. Garzanti ne ha recentemente pubblicata una versione nella collana i piccoli grandi libri, immagino non a caso in questi tempi in cui la guerra torna a fare capolino in Europa – e che a non pochi osservatori rievoca un nuovo 1914: la fine, cioè, di un’epoca di relativa stabilità, e l’affacciarsi di un ignoto che annuncia possibili immani disastri.
Zweig vede nell’epoca da lui vissuta in prima persona (dagli inizi del secolo agli anni ‘30), tutti i chiari segni e sintomi della tragedia che sta per compiersi.
Vede il venir meno dell’internazionalismo, del pacifismo, dell’umanitarismo; la crisi dell’idea di progresso; l’ipocrisia sociale, la crescita delle disuguaglianze, l’avvento del totalitarismo.
Continua a leggere “L’agonia della pace”

Italodicea

Al di là dell’angoscia, della doverosa e fraterna solidarietà, dell’umana pietas – sempre più provo una strana ed estenuata forma di rassegnato fatalismo (e sempre meno il montare della rabbia di un tempo), quando mi trovo a considerare il contesto sociale, antropologico, culturale e politico nel quale si situano le italiche disgrazie.
Fin da bambino ho periodicamente assistito a catastrofi (spesso annunciate, come si suol dire), con spargimento di lacrime ed autoflagellazioni, ritornelli sulla mancata prevenzione e poi a seguire smemoratezza, canto del cigno, pietra tombale su tutti i buoni propositi. In attesa della successiva catastrofe. Siano dighe, terremoti (dal Belìce in poi), frane e alluvioni, lo scenario che si ripropone è sempre il medesimo. Gli argomenti e le lamentazioni pure.
Avremmo dovuto fare, prevedere, costruire meglio, mettere in sicurezza – faremo, costruiremo, investiremo. Ma la sensazione è che, gattopardescamente, nulla cambi mai.
Continua a leggere “Italodicea”

Primo lunedì: apocatastasi!

Macro shot fuzzy mold growing on raspberries

La nostra ricognizione sui “chiaroscuri” dell’esistenza esordisce con l’opposizione inizio/fine – forse la più tipica coppia dialettica (insieme a nascita/morte, che anzi, per certi aspetti, la fonda): probabilmente se noi umani fossimo immortali non ci faremmo alcuna domanda sul senso della vita (e della morte), e dunque anche la questione del sorgere e del dissolversi delle cose e dei viventi non ci angoscerebbe granché.
Ho introdotto l’argomento giustapponendo tre pensatori molto distanti tra loro, sia in termini temporali che teorici, ma che proverò a far interagire: Anassimandro, Leibniz, Arendt.

I filosofi delle origini, che ricercavano l’arché, si posero il problema dell’inizio in un modo radicale e totalizzante, se è vero che arché è da intendere più correttamente con la ricerca dell’elemento che sostiene, sorregge, impera (l’esempio della parola archeologia, composto da archaios=antico è fuorviante, meglio archi-tettura, archi-trave o arcangelo, retti da archèin=comandare: ciò che è primo, quindi il primo costruttore, la prima trave, il primo angelo) – insomma la ricerca dell’arché si caratterizza come la ricerca della (prima) legge che regge le sorti del mondo e di tutti gli esseri: architrave e sorgente del tutto-natura, ovvero della physis.
Continua a leggere “Primo lunedì: apocatastasi!”

Tris cinefilosofico – 1. Melancholia

Melancholia pic 4

Per la prima volta io e Celeste Colombo – autorità cinefila del legnanese (e non solo) – non ci troviamo d’accordo, oltretutto su una questione di non poco conto. (E chissenefrega, potrebbe obiettare qualcuno, non siamo mica ad un convegno di sapientoni o ad una conferenza internazionale, si tratta solo del minuscolo Cineforum Pensotti Bruni di Legnano. Verissimo, ma sul nichilismo c’è poco da scherzare!).
Lui, il Celeste, lo tira fuori durante il dibattito a proposito dell’ultimo film di Last Von Trier, Melancholia, e – pur dandogli ragione sull’estetismo del regista danese (che per di più se ne esce ogni tanto con le sue minkiate nazi) – sono costretto in parte a dissentire.
E la domanda che mi e gli faccio è: davvero la prospettiva dissolutoria di Melancholia è così nichilista? E se anche lo fosse, di che nichilismo si tratta? Non potrebbe essere quello di “secondo grado” del padre di tutti i nichilismi contemporanei?
Continua a leggere “Tris cinefilosofico – 1. Melancholia”

Titaniche metafore

Ahi serva Italia, di dolore ostello
nave sanza nocchiere in gran tempesta,
non donna di provincie, ma bordello!
(Purg., VI, 76-8)

È fin troppo facile (ed anche un po’ perfido) utilizzare la tragedia della nave Concordia per esercitarsi in metafore, che se da una parte potrebbero apparire tutt’altro che azzardate, finirebbero comunque per essere stucchevoli. Eppure quel che è accaduto l’altro giorno all’isola del Giglio – e che va accadendo in questi giorni nel dantesco “bordello” delle nostre città – costituisce uno straordinario analizzatore socio-antropologico.
Ne cito in modo sparso e disordinato – come del resto la realtà appare in sé – i principali fenomeni, lasciando che ciascuno stabilisca per proprio conto legami e nessi causali, ed eventuali sintesi.

Continua a leggere “Titaniche metafore”

“Tu guardala con la mente, e non lasciarti sbigottire dagli occhi”

Bisogna ascoltarli i primi filosofi – quei presocratici che forse erano più sapienti di quanto non fossero amanti (ed anelanti) di sapienza. Ancora oggi le loro parole – e le loro teorie fisiche un po’ strane per la nostra mentalità scientifica (che pure è intrisa fino al midollo dei loro concetti e del loro linguaggio) – quelle parole risuonano forti e chiare. E ci avvertono che nonostante la natura ami nascondersi, occorre un’ampiezza dello sguardo e una capacità di penetrazione fuori del comune per poter vivere in essa e convivere con essa. Le nostre società ultratecnologiche ed onnipotenti hanno imparato solo una parte della lezione. E tendono, sempre più, ad avere lo sguardo corto e  miope, ed anzi rivolto ormai quasi solo al proprio ombelico.
Empedocle è alla ricerca forsennata di questo sguardo lungo ed ampio, che si rivolge tutt’attorno alle cose, dentro le cose, fin dentro se stessi – fino a ricomprendere quello stesso sguardo che guarda se stesso. E ci parla di una natura quantomai irrequieta, che si svolge muta ed indifferente sotto quello sguardo (come già succedeva per Anassimandro, ed ancor più per Eraclito):
Continua a leggere ““Tu guardala con la mente, e non lasciarti sbigottire dagli occhi””

Incantamenti

«Questa follia fa parte della magia del capitale.
Sbaglia Max Weber!
La società del capitale è tutt’altro che disincantata!
Io, da parte mia, ho sempre fortemente sottolineato gli elementi magici che la caratterizzano.
E’ questa società che ha sottomesso le forze naturali, ha inventato macchine, ha applicato la chimica all’industria e all’agricoltura (e, ahimé, alla guerra) e ha fatto sorgere quasi per sortilegio (hervorgestampfte) intere popolazioni dal suolo.
[…] Alla fiaba dello spettro del comunismo (dem Marchen vom Genspenst des Kommunismus) io oppongo la realtà della stregoneria del capitale e del non/uomo che ha scatenato eventi ed elementi che non riesce più a controllare».

Fa una certa impressione rileggere oggi, dopo la catastrofe di Fukushima, questa pagina del Faust e Marx di Luciano Parinetto, risalente ad oltre vent’anni fa, soprattutto se si pensa che venne scritta a ridosso di un’altra grande catastrofe tecnonucleare, quella di Chernobyl, che evidentemente poco ha insegnato agli apologeti delle magnifiche sorti e progressive del capitale. Ma era sulla questione dell’incantamento che volevo puntare maggiormente l’attenzione.

Continua a leggere “Incantamenti”

Atomi pensanti (e possibilmente denuclearizzati)

Atomi tormentati, su questo cumulo di fango,
che la morte inghiotte e con cui la sorte gioca
ma atomi pensanti.
(Voltaire)

Ho già più volte affrontato su questo blog il tema della teodicea (qui in particolare, anche se rovesciato in termini di antropodicea). E’ sempre bene ricordare, con le parole del Dialogo della natura e di un islandese di Leopardi, che la natura è del tutto indifferente alle nostre vicende, e se ne sbatte altamente di noi come di tutte le altre specie o dei singoli viventi. O meglio: ciò che noi chiamiamo “natura” non ha in sé nessun elemento soggettivo, nessuna volontà, nessun piano – così come noi un po’ presuntuosamente intendiamo questi concetti che le vorremmo attribuire, direttamente o indirettamente. Dio non c’è, e se anche ci fosse se ne sbatterebbe pure lui (perché mai dovrebbe appassionarsi ad un così minuscolo ed insignificante angolo, un banale puntino nell’economia dell’universo? – o della pluralità di universi, come vanno sostenendo alcuni cosmologi).
Quel che forse colpisce di più nelle immagini del muro nero d’acqua che ha spazzato via le città giapponesi di Onagawa o di Minamisanriku inghiottendo gran parte dei loro abitanti, delle case, degli oggetti – della medesima natura – è proprio quell’assoluta indifferenza, quel misto di terribile innocenza e cecità, quell’impersonale e necessario incedere degli eventi che non può non lasciare attoniti. E che però è il carattere più profondo – direi ontologico – della natura, del cosmo, dell’essere.
Dice Eraclito:
Continua a leggere “Atomi pensanti (e possibilmente denuclearizzati)”

ANTROPODICEA

palazzata-barocca-di-messina1

Cade oggi il centenario del terremoto di Messina. Alle 5.20 del 28 dicembre 1908 bastarono trenta secondi per distruggere la vita di almeno 100.000 persone, cui va aggiunto un numero imprecisato di altri esseri viventi più o meno senzienti, a Messina, Reggio Calabria e dintorni; bastò un attimo per inghiottire le case, i palazzi (tra cui la meravigliosa palazzata neoclassica reppresentata nella stampa qui sopra), gli oggetti, tutto e tutti nel gorgo muto della morte. In un diario di quei terribili giorni, tenuto da un medico reggino, si legge: “La notte dal 28 al 29 specialmente è stata spaventevolmente tragica, notte angosciosa, infinita, in mezzo agli infermi che domandavano soccorso, mentre una pioggia gelata ci rendeva intirizziti e da Messina si levava estesamente il fioco chiarore degli incendi e il crepitio delle fiamme distruggitrici”. Il cronista registra poi con sconcerto come allignasse tra i sopravvissuti “una forma di dolorosa apatia”, un’angosciosa rassegnazione. Alcune mie vecchie zie avevano ascoltato i racconti che all’epoca si tramandavano e che sono giunte fino all’orecchio della mia infanzia: si narrava di campanili che oscillavano, di fughe miracolose ma, soprattutto, di un fato crudele che inchioda tutti al loro inesorabile destino.

Continua a leggere “ANTROPODICEA”