Succedanei delle patrie

1. Comunità
“Uscire dal ghénos” era un programma pratico-teorico che, ormai 15 anni fa, mi era parso convincente (e che oggi appare pretenzioso), in risposta alle spinte e alle forze militariste e di destra che si andavano riorganizzando contro il cosiddetto movimento no-global. Un movimento che, a sua volta, era l’abbozzo di una visione collettiva e comunitaria (ma insieme moltitudinaria, e dunque più libertaria che comunista) alternativa al liberismo con cui il secolo breve si chiudeva trionfante dopo le grandi cadute a Est.
Uscire dal ghénos – cioè da tutte le tribù e le gabbie identitarie dei secoli e millenni precedenti, mettendo in discussione ogni visione essenzialistica della natura umana – andava in direzione globalista ed universalista, esattamente la medesima direzione di marcia di quel liberismo trionfante. Primo paradosso.
Nel contempo, al di fuori del campo occidentale, si andavano articolando altri progetti – di cui l’11 settembre è stata una prima drammatica tappa – volti a disarticolare non tanto il campo capitalista-liberista, quanto la supremazia imperiale occidentale (anglo-americana e francese, in particolare, dopo che l’Urss era crollata e si stava leccando le ferite di una crisi di lungo corso). Di tutto questo sommovimento, che smentiva plasticamente la tesi della “fine della storia”, quel che più ha fatto le spese, oltre alle ideologie tradizionali, sono state le antiche forme politiche, in particolare gli stati-nazione (o meglio, gli stati sociali che su quegli agglomerati parabiologici della modernità avevano istituito le forme più avanzate di compromesso della lotta di classe del secondo dopoguerra – from the cradle to the grave, come recitava il welfare inglese prima dell’avvento del thatcherismo).
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Lettera aperta ai compagni di koinè

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Care compagne, cari compagni,
la prima domanda che mi viene è dove siamo finiti? La seconda: com’è che siamo arrivati a questo?
Mi pare evidente che il processo in corso – un governo che, secondo le categorie tradizionali, si colloca all’estrema destra, sostenuto da un’ampia maggioranza non più silenziosa, anzi piuttosto scompostamente loquace – sia un’onda che al momento appare inarrestabile.
Come ogni onda passerà, ma nel passare non sappiamo che cosa travolgerà, né quali macerie o detriti lascerà sul terreno.
L’impressione generale è che vi fosse una diga, già da lungo tempo crepata, e che ora il livore trattenuto nell’inconscio, e dalle ultime vestigia dell’antico pudore sociale, stia dilagando senza più freno alcuno.
Come sempre succede nelle vicende storiche si tratta anche in questo caso di contingenza: l’accumulo, cioè, di una serie spesso diversa e talvolta contraddittoria di evenienze e spinte sociali che ad un certo punto convergono verso una direzione unitaria.
Il primo governo Salvini de facto – perché di questo si tratta, e non sarà certo l’ultimo – ha fatto da catalizzatore e dato la stura a questo coacervo di tensioni, di malesseri, di disagi che covavano da anni, che già si erano mostrati unificati nell’esito del Referendum del 4 dicembre 2016, e che ora hanno trovato una sintesi. Provvisoria? Fragile? Di cartapesta? Non saprei. L’impressione, però, è che non sia così transeunte e passeggera. La mia impressione è anzi che stia emergendo una vera e propria ideologia comunitaria, sorretta da un crescente senso identitario – la nazione, l’italianità, la sovranità, il popolo – tutte categorie che richiamano un ordine politico di stampo organicistico, che definirei un vero e proprio parabiologismo.
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The Giver: i doni avvelenati della perfezione

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The Giver non è soltanto un piccolo romanzo distopico (uno dei tanti, per un genere che pare “tirare” parecchio, specie nelle trasposizioni cinematografiche), ma ha dei tratti propriamente disfilosofici (anfibolici, ovvero paradossali) parecchio interessanti. Mi spiego.
Premessa: nulla di originalissimo, ovviamente, anche perché il filone distopico ha ormai una lunga e robusta tradizione, però qui l’autrice (Lois Lowry, che lo aveva scritto ormai vent’anni fa) immagina e concepisce con semplicità – e forse con qualche elemento di novità – una alternativa secca tra perfezione e imperfezione (un po’ come avverrà nel film huxleyano Gattaca, tra validi e non validi). E lo fa con un linguaggio piano e a tratti fiabesco – tant’è che il libro viene originariamente incasellato nel genere “fantascienza per ragazzi”, confine che finisce per stargli stretto.
Il mondo sociale che si pensa di avere edificato ha tutte le caratteristiche della razionalità (più pratica che teorica), dell’uniformità, della precisione linguistica (evocata molto suggestivamente da un padre lontano delle distopie, qual è Swift), del controllo-prosciugamento delle passioni (antico sogno stoico), del controllo del pianeta, dell’eugenetica, e così via.
Non si nasce e non si muore a caso, e a maggior ragione si vive organici, coesi ed organizzati.
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È, dunque, la violenza!

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Ho letto di recente Il caso Eddy Belleguele, che pare abbia spopolato in Francia. Qualche tempo fa avevo letto, di John Williams, Nulla, solo la notte. Un accostamento improprio, data la lontananza geografica, culturale, tematica, stilistica. Eppure: sarà che ultimamente vedo e percepisco straniamenti ovunque, trovo che entrambi questi brevi romanzi – oltre al contenuto della violenza che li lega – siano caratterizzati proprio dalla loro forma straniante.
Nel caso dello scrittore americano, in maniera praticamente dichiarata ed oltranzista (come del resto era già avvenuto in Stoner): il sogno con cui il racconto di Williams si apre, è una lenta messa a fuoco del fenomeno straniante per eccellenza, un riconoscimento solo a posteriori che la figura al centro della scena non è un altro, ma io – eppure è come se fosse un altro, e “io” e “altro” si equivalgono proprio in questa fuoriuscita e deflagrazione del senso. Irrelatezza e separatezza – “guardandola, fu assalito di nuovo dalla coscienza dell’evidente ed essenziale separatezza di tutte le persone” – sono la cifra esistenziale dominante, in tutto quel che accade al giovane Maxley in una qualsiasi giornata californiana, dall’alba a notte inoltrata (i termini temporali della narrazione, che sono però i termini di una vita insensata ed irrelata).
Ma è il giovane scrittore francese Èdouard Louis Continua a leggere “È, dunque, la violenza!”

Quinto lunedì: la fiducia, cura delle passioni tristi

Trust

[Utilizzerò come traccia il saggio di Michela Marzano Avere fiducia, che ha un taglio divulgativo, anche se talvolta disomogeneo e dispersivo – un testo che comunque offre molti spunti di riflessione interessanti, che credo saranno utili alla nostra discussione].

Farò due esempi per cominciare, uno personale l’altro tratto dalla Marzano:
-l’esercizio della caduta
-il dilemma del prigioniero
Il primo esempio ci offre un taglio emotivo ed istintivo della fiducia, mentre il secondo ce ne offre un profilo squisitamente razionale.
Anni fa, ad un laboratorio teatrale cui partecipavo, i conduttori ci fecero fare un esercizio in cui ciascuno avrebbe dovuto lasciarsi cadere all’indietro, di schiena, confidando nel fatto che qualcun altro del gruppo lo avrebbe preso. Non tutti riuscirono ad eseguire l’esercizio: tanto il gettarsi, quanto il bloccarsi avevano probabilmente a che fare con dei gesti istintivi, di cieca fiducia (per quanto simulata) nel primo caso, di paura nell’altro.
Michela Marzano ci parla ad un certo punto del “dilemma del prigioniero”, un celebre problema matematico-probabilistico della teoria dei giochi: due criminali vengono arrestati, separati e fatta loro una proposta di confessione così concepita: se uno confessa e l’altro no, il primo viene liberato e l’altro condannato a dieci anni; se entrambi confessano verranno condannati tutti e due a 5 anni; se nessuno dei due confessa, dovranno scontare 1 anno di prigione. In questo caso (tralasciando la casistica e la discussione sulla probabilità delle scelte, che oscilla dall’egoismo della prima opzione al solidarismo della terza), ciò che emerge è piuttosto l’aspetto razionale e di calcolo della fiducia (per chi volesse approfondire il dilemma, è consultabile la voce su wikipedia, anche se con una formulazione diversa, mentre la Marzano ne parla alle pagine 39-40).
Entrambi gli esempi si reggono sulla fiducia, che pare però oscillare tra l’istinto e la decisione razionale, non essendo riducibile a nessuna delle due dimensioni.

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JJR 3 – Rousseau reazionario

“Commencez par resserrer vos limites
(J.J.Rousseau, Sur le gouvernement de Pologne)

Accanto ad un Rousseau rivoluzionario (quello del secondo Discorso e di alcune idee contenute nel Contratto Sociale) c’è un Rousseau altrettanto convintamente reazionario. Se ne trovano tracce un po’ in tutta la sua produzione filosofica e letteraria – ma direi che il testo che più rappresenta questo suo aspetto è il romanzo epistolare Giulia o la Nuova Eloisa, che fu tra l’altro un vero e proprio best seller per l’epoca.
Al di là della vicenda (abbastanza noiosa) ci viene descritta una comunità che nella mentalità di Rousseau assume caratteristiche archetipiche: quello di Clarens è un vero e proprio modello insulare di convivenza e di risoluzione delle controversie umane. A metà strada tra il naturalismo sauvage e il familismo patriarcale, Rousseau pare qui alludere al sogno di una convivenza fuori del tempo, autarchica, più Gemeinschaft (comunità, appunto) che Gesellschaft (società atomizzata), un idillio più che un progetto politico, una presa di distanza dalle affollate ed insensate capitali per immergersi nella ciclicità della vita rurale. Proprio per questo occorre un rigido ordine gerarchico: ruoli, riti sociali, differenza di genere, apologia del lavoro – tutto comporta una quotidianità pacificata, ed una tonalità reazionaria talvolta imbarazzante.
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Comune

Nello spirito umano come nell’universo non vi è niente
sopra né sotto, tutto ha egual diritto a un centro comune,
che manifesta la sua segreta esistenza proprio nel
rapporto armonico di tutte le parti verso di esso.

(J.W. Goethe)

Comune è l’aria, l’acqua, la terra.
L’energia, il fuoco, la materia è comune.
Comune è il suolo, l’orografia, l’idrografia, le cime innevate.
La tavola degli elementi, l’intrico vegetale, la conflittuale varietà animale è comune.
Comune è la cultura, il linguaggio, l’intelligenza – koiné!
La bellezza, l’estasi, l’ardore è comune.
Comune è la società, il territorio, i territori – ecumene!
L’arte, l’urbanizzazione, il dissodamento delle terre è comune.
Comune è comunicare.
Comune è luogo comune, senso comune.
Comune è il punto di vista.
Comune è la relatività del punto di vista.
La resistenza all’appropriazione è comune. Continua a leggere “Comune”

Platone in miniera

Vero è che la filosofia arriva solo al far del crepuscolo, come la nottola di Minerva, ma prima che faccia notte, o che cali il sipario del tutto – o meglio, che il sipario tutto ricopra di fatuità – vorrei spendere due parole su quei 33 minatori cileni avventuratisi (per disgrazia o per incuria, non per scelta) nei meandri della mitologia platonica.
D’altra parte è forse troppo densa di simboli questa faccenda, per poter essere raccontata come si deve. Ma è un dovere etico farlo, anche perché il rischio è che venga davvero consumata (e ben presto defecata e smaltita) dai media e dalla logica della spettacolarizzazione – magari offrendo moneta sonante in cambio di brandelli di esperienza viva, corpi e sofferenza psichica (per una volta con lieto fine) da esibire in formato-fiction. Certo, Platone non avrebbe mai immaginato che il suo mito sarebbe diventato un evento di portata globale e che la sua riflessione eidetica, visiva, quasi cinematografica, sarebbe davvero andata in scena in mondovisione…
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