Una delle questioni che torna inevitabilmente alla ribalta nella guerra in corso (che ormai è del tutto fuorviante chiamare “russo-ucraina”), è la nostra posizione – degli antimilitaristi, della sinistra radicale, dell’Italia, ma anche dell’Europa – nei confronti degli USA, e della loro propaggine militare nel vecchio continente.
Dietro la facciata della Russia imperiale e aggressiva, si nasconde in realtà uno scontro a tutto campo tra potenze, con al vertice il destino del dominio globale americano.
L’America – che già nel nome è una sineddoche che si espande su tutto il continente, il caro vecchio “cortile di casa” – fin dalla fine della seconda guerra mondiale è andata consolidando un impero globale fatto di merci, finanza, basi militari (quasi 700 in oltre 70 paesi, con 270mila soldati dislocati), con una enorme capacità di diffondere e spesso imporre un certo immaginario e stile di vita, che nella sua narrazione sarebbe una sorta di compimento universale del meglio della storia umana, un vertice antropologico veicolato dall’Occidente.
Ma dietro questa colonizzazione dell’immaginario, c’è il dato duro e puro del controllo della materia (energia, mercati, denaro e – soprattutto – sistema militare: quando non basta la dissuasione morale o l’imperativo economico, si passa alla forza bruta: le guerre americane sono state innumerevoli: “Gli USA sono stati coinvolti in vari tipi di conflitto armato per 227 anni dei 245 della loro breve storia con circa 124 scontri armati”.)
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Tag: conflitto sociale
Le faglie della guerra
La guerra irrompe e, come sempre, rovescia i tavoli, spariglia le carte, sconvolge gli equilibri. Lascia attoniti e crea sconcerto – soprattutto in chi non ne sa riconoscere i segni e la fenomenologia: la guerra è l’intelaiatura profonda della vita e delle società umane, esattamente come la morte lo è per la vita. In tal senso, la guerra incombe perennemente su di noi. Ma ora si è mostrata di nuovo col suo vero volto, in fatti, carne e sangue.
Quando la guerra irrompe crea immediatamente due epifenomeni che le sono congeniti: una cortina fumogena diffusa, che confonde ancor di più il contorno delle cose; una radicale semplificazione delle cose, un’ontologia del bianco e nero, dell’amico/nemico, del di qua o di là. Nonostante essa sia il portato della complessità (e tragicità) del mondo, al contempo si presenta come la grande negatrice della sua complessità.
Fatte queste premesse generali, occorre però provare a dissolvere quella cortina e, senza lasciarsi condizionare dalla retorica bellica della semplificazione, accingersi ad un minimo di analisi che tenga fuori ogni emotività.
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Bellissimi e hitleriani
Fascista/antifascista. Semplice. Uno di qua, l’altro di là, linea gotica a separare.
La Costituzione è antifascista. Semplice e chiaro. Ed è fondata sul lavoro – ovvero sull’attività materiale e spirituale che realizza ciò che è essenziale per gli umani. Anche questo è semplice. La Costituzione repubblicana si fonda quindi sul diritto universale al lavoro e alla realizzazione di sé, sia individuale che collettiva.
Qui le cose, però, cominciano a complicarsi. Perché ci sono di mezzo le relazioni sociali, le diseguaglianze, le ingiustizie, la “costituzione reale”, il mondo al di là della carta e dei principi.
Il lavoro – quello costituzionalmente garantito – non lo è più, perché si monetizza, si mercifica, si flessibilizza e precarizza, diventa quasi evanescente. Lavoro precario = vita precaria. Dovrebbe essere semplice, invece è complesso, e la Costituzione non copre più questa realtà del lavoro.
Ecco dunque che una parte crescente del mondo del lavoro – umiliato, precarizzato, compresso per decenni (almeno dalla sconfitta della Fiat nel 1980), impoverito anche quando il lavoro ce l’ha – non ci sta più.
Durante il momento più duro della pandemia molti di questi lavoratori hanno continuato a lavorare per sostenere il paese, con un più alto rischio di contagio rispetto a chi se ne stava a casa.
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Pòlemos, sempre lui, il maledettissimo padre-padrone di tutte le cose
È da almeno un trentennio che rifletto e mi angoscio – insieme ad altre e ad altri, non certo in solitudine – sul fenomeno-guerra e sulla sua sostanza. Ve n’è un riflesso anche su questo blog, dove sono andato archiviando scritti più o meno sistematici (miei o di altri) che risentono della temperie di questo passaggio di secolo (e di millennio). Dalla politica muscolare di Reagan e dal rambismo degli ’80, passando per le guerre del Golfo, il macello balcanico, il Ruanda e la Somalia, l’11 settembre e le infinite guerre mediorientali – solo per citare quelle più eclatanti: e già il termine “eclatante” (che ho scoperto derivare dal francese éclater, ovvero “scoppiare”, dunque brillare di evidenza per un momento per poi dissolversi), pone un problema, poiché esistono guerre visibili e guerre che non lo sono. Guerre che suppurano in superficie ed altre che ribollono nelle profondità degli inferi socioeconomici; guerre che servono e sono utili al sistema ed altre inservibili – ma tutte ci dicono la nuda e cruda verità ontologica: la guerra è la modalità essenziale delle relazioni politiche globali. Vi è anzi contiguità ed intercambiabilità, se non sovrapposizione tra guerra e politica: non solo e non tanto la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi – come pretendeva Clausewitz – semmai le due realtà si tengono e sono consustanziali. La guerra è l’essenza del sistema globale, e che non sempre ciò risulti chiaro ed evidente fa parte del suo modo di essere e di funzionare: la pace non è la norma e la guerra non è l’eccezione, è vero piuttosto il contrario.
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Né mafia né capitale
Non intendo oggi celebrare Giovanni Falcone insieme ai sepolcri imbiancati.
Lottare contro la mafia significa lottare contro il sistema antico delle ingiustizie, contro il capitale, contro le cosche legali e illegali che vampirizzano le energie umane e naturali, che devastano i territori, che accumulano ricchezze, che costruiscono gerarchie.
Significa dunque, innanzitutto, apologia del conflitto sociale. Perché nessuna giustizia ci sarà mai senza eguaglianza e redistribuzione.
Ecco perché quelli con cui voglio celebrare non sono i pupazzi in doppiopetto, ma i contadini di Portella della Ginestra, i sindacalisti come Placido Rizzotto, i comunisti e gli antagonisti come Peppino Impastato e Mauro Rostagno – e, certo, tutti coloro che hanno rischiato o perduto la vita anche solo per avere affermato i principi della legalità costituzionale.
Ma dietro la forma della democrazia occorre sempre ricercare la sostanza della giustizia sociale.
Una legge ed un sistema giuridico che difendono illimitatamente l’illimitata accumulazione delle ricchezze, per quanto scevri da infiltrazioni mafiose, sono forse per questo una buona legge ed un buon sistema?
E comunque la storia del capitale ci insegna che il confine tra legale ed illegale è quantomai labile.
Insozzato una volta per tutte dal luccichìo dell’oro.
Livor verde
Dai diamanti non nasce niente
dal letame nascono i fior
Il leghismo è programmaticamente quanto di più lontano e avverso alla mia mentalità, al mio essere sociale, politico ed antropologico. Sia nei suoi connotati ideologici: razzismo, familismo, machismo, etnocentrismo, conservatorismo; sia nei suoi tratti psicosociali: fobia, rancore, livore, cieco e bieco egoismo, piccineria piccolo-borghese; sia nelle sue manifestazioni politiche: contiguità con le peggiori destre italiane ed europee, costruzione di figure abominevoli di nazisindaci (veri e propri borgomastri in camicia brunoverde), alleanza strategica con il berlusconismo; sia per gli aspetti folclorici e la sua sbandierata incultura: le barbe verdi, i raduni e i riti, le ampolle, le corna, la barbarie da incubo (più che sognante), l’invenzione di piccole patrie inesistenti. Insomma: non c’è una sola cosa che abbia a che fare con il leghismo che non mi provochi forti conati di vomito, sia fisico che spirituale.
Detto questo, cercherò di mettere tra parentesi i miei conati (l’effetto sulla pancia dovuto al loro costitutivo ragionare con la pancia), e proverò a schizzare qualche riflessione generale sulla questione settentrionale che la Lega ha utilizzato come volano per la sua ascesa, e su cui rischia – sperabilmente presto – di rompersi le luccicanti corna barbariche.