Pòlemos pandemico

Eraclito, forse il più grande ed oscuro dei filosofi, sostiene che Pólemos – la guerra – è padre e re di tutte le cose. E gli uomini foggia ora liberi ora servi.

Se provassimo a leggere quel che sta accadendo nei termini del Pólemos eracliteo, ci renderemmo conto di quanto abbia ancora ragione. Ma non nel senso che la pandemia è una guerra e che il nostro nemico è il virus, come la retorica ricorrente ci ha fatto credere da 17 mesi a questa parte – bensì che tutte le relazioni, anche le più scontate e pacifiche, possono all’improvviso mutare di segno e diventare conflittuali.

Se però il conflitto – che nel pensiero di Eraclito mantiene una certa oscura ambiguità – può voler dire cambiamento, mutamento, rotazione dello sguardo, delle cose e della giustizia, la guerra – il Pólemos più terribile ed originario – porta invece con sé distruzione e terrore. Una cosa è il conflitto sociale, tutt’altra cosa è la guerra.

Quel che occorrerebbe pertanto sorvegliare accuratamente in questi tempi oscuri, è il proprio atteggiamento, innanzitutto linguistico, nei confronti degli altri, delle relazioni e delle diverse posizioni. Vedo due rischi enormi: che si legga ogni diversità come inimicizia irriducibile, e che nel frattempo si contribuisca, inconsapevolmente o meno, a militarizzare la vita sociale. Promuovere la guerra, non il conflitto.

E la guerra non è mai con lògos, ma spazza via le ragioni per imporre la sola brutalità della forza e del nichilismo.
Cui prodest? occorrerebbe a tal proposito chiedersi ogni volta. Attenzione, perché dal nulla della distruzione non si torna indietro, tanto a livello sociale quanto nelle relazioni individuali, persino nelle amicizie e negli affetti.

Ricostruire l’armonia dalla disarmonia – stupenda armonia da contrasti, dice Eraclito – è arte difficilissima, quasi impossibile.

La cosa, madre di tutte le guerre

«Che la parola “cosa” significhi questa conflittualità, mostrata nelle antiche formazioni linguistiche della terra isolata è una figura che rinvia alla conflittualità originaria, dove la “cosa” è la risultante della lotta tra la volontà e l’Inflessibile, ossia è la forma originaria (quindi preontologica) del divenir altro. Dicendo che Pòlemos è il padre di tutte le cose e che quindi ogni cosa è lotta, conflitto, Eraclito dice già implicitamente che il conflitto è il significato originario dell’esser “cosa” – sì che, come altre volte ho rilevato, si può dire che, nella terra isolata, la cosa è la madre di tutte le guerre». [E. Severino, Intorno al senso del nulla, p. 44]

Feroce equità

Chiamiamo le cose con il loro nome. Questo governo cosiddetto “tecnico” è in realtà un feroce governo di destra (molto più di destra della macchietta berlusconiana): è un governo che fa dell’ideologia liberista la sua bandiera, in rappresentanza di un vero e proprio comitato d’affari della borghesia interna ed internazionale. Il fatto che le borghesie, gli interessi economici costituiti (o costituendi), le vecchie e nuove agenzie globali e transnazionali siano (o appaiano) in conflitto tra loro, non deve ingannare: il nocciolo duro del programma economico è di sottomettere il lavoro al capitale, possibilmente in maniera definitiva, sotto la pietra tombale del profitto. È il linguaggio che accomuna i vari Rajoy, Merkel, Sarkozy, Monti, insieme alla cricca di banchieri, monetaristi e speculatori globali.
Secondo la logica di questa cupola, non solo non devono esistere diritti indisponibili, ma i diritti dei lavoratori sono soltanto variabili del tutto dipendenti dal sistema finanziario, bancario e produttivo. E non inganni nemmeno l’apparente divario interno a tale sistema (tra finanza e produzione, tra speculazione ed economia reale): esso piuttosto si tiene e fa lega laddove l’obiettivo comune è quello di sottomettere il lavoro.
Il profitto è il dio indiscutibile, la fede indiscussa cui ogni entità politica (stati, società, classi, partiti, sindacati) deve piegarsi. È questa una forma di monoteismo (e di credenza al limite della superstizione) ben più potente e diffusa delle tradizionali forme religiose.
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Ridda

Pare finita l’epoca in cui nell’estate italiana furoreggiavano gialli intriganti, torbidi omicidi di contesse o avventurose fughe in catamarano. Ora tutti sembrano occuparsi di cose serie, in primo luogo di economia e di mercati valutari.
Sto seguendo questo mutamento un po’ distrattamente dalla lontananza vacanziera, filtrata dalla lieve foschia dello scirocco che sta morbidamente avvolgendo la mia isola (e il mio isolamento) in questo inizio di settembre. Così come seguo con un certo torpore tutta la ridda di provvedimenti governativi di politica economica delle ultime settimane. E devo dire che se il termine “ridda” si addice bene, quello di “politica economica” molto meno.
Ancor più distrattamente seguo la versione internazionale di tutto questo affannarsi: altra ridda di cifre, listini, grafici e panico in borsa, ondivaghe fluttuazioni, con tanti bei nomi e sigle a nascondere il vero ed essenziale nodo della speculazione (l’eterna astrazione del denaro e del capitale di cui avevo parlato qui).
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Il batticuore per l’umanità e lo spirito del mondo

Avevamo ragione noi, in quel luminoso e tragico luglio 2001. Su tutta la linea. E, come sempre, aveva ragione anche quel rompicoglioni di Hegel. Ed è ancora più chiaro a distanza di (rispettivamente) 10 e 204 anni. Le ragioni di quel movimento (il primo vero movimento globale, a dispetto del nome) sono ancora tutte qui, aperte e squadernate davanti ai nostri occhi increduli e sbarrati – e riempiono (almeno a parole) le agende di politici e governi (compresi quelli che ci hanno sparato addosso), del tutto incapaci non dico di risolvere ma nemmeno di affrontare seriamente i nodi che la ragione e le ragioni avevano fatto emergere.

Però Hegel, che pure aveva una inconfessabile attrazione per le rivoluzioni (“splendide aurore”),  ci avverte che il corso del mondo (e la sua ragione, il suo essere pervicacemente reale-razionale) fa spesso a pugni con le anime belle che lo vorrebbero un po’ più somigliante ai loro soggettivi desideri. Ne discute a lungo, aggrovigliandosi un po’ nel suo linguaggio criptico e gergale, in alcuni celebri paragrafi della Fenomenologia dello spirito, che non è il caso qui e ora di analizzare, ma che certo sanno evocare molto bene la sostanza del conflitto in corso.
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Rèi (metafore fluviali)

Comme je descendais des Fleuves impassibles
Je ne me sentis plus guidé par les haleurs…
(A. Rimbaud)

La dialettica concepisce ogni forma divenuta
nel fluire del movimento…
(K. Marx)

1. I fiumi sono degli individui naturali straordinari. Ogni volta che ne vedo uno non so resistere, devo raggiungerlo, affacciarmi sulle sue rive, percorrerlo con lo sguardo in entrambe le direzioni, immergermi (non fisicamente, anche se vorrei) nelle sue acque, entrare nel suo misterioso flusso. Mi accontento anche di indugiare, svagato e sognante, fissando a lungo quel perenne scorrere delle acque, esperienza quantomai ipnotica. Perenne scorrere: quasi un ossimoro…

2. Fondamentali per l’insediamento antropologico e la nascita e lo sviluppo delle culture umane; vezzeggiati, curati, domati, deviati, sfruttati, canalizzati – un tempo con rispetto e devozione; onnipresenti nelle rappresentazioni estetiche e letterarie, spesso divinizzati e resi sacri; ma più di recente, con il dominio e la distruzione sistematica della physis per scopi ben poco (o fin troppo) “civili”, maltrattati, inquinati e avvelenati.
(Il mio primo incontro con un fiume, a 5 o 6 anni, avvenne nella “progressiva” Lombardia del boom economico, e reca con sé il ricordo di una maleodorante fogna a cielo aperto, ricoperta di uno strato oleoso di schiume di varia coloritura e consistenza).
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Riots!

Se i polli d’allevamento stanno tutti ordinati nelle loro batterie, consumano composti nei centri commerciali (e, al più, sbevazzano e rumoreggiano nelle movide cittadine) – allora sono tubi vuoti e senza valori, nei quali insufflare l’unico valore;
se invece manifestano, alzano la voce, s’incazzano – allora diventano violenti e teppisti.
Certo, non si tratta di un aut-aut. Non funziona nemmeno la logica classificatoria che vorrebbe erigere recinti e classificazioni rigide. O di qua o di là. La bellezza dell’essere giovani e sorgivi sta anche – anzi, direi soprattutto – nel mettere in discussione le classificazioni, nell’essere in grado di spiazzare e di sorprendere il mondo, nell’imprevedibilità. La novità della nascita: qualcos’altro sorge all’orizzonte.
Da questo punto di vista, la violenza politica, la rabbia e gli scontri di piazza, fanno parte di una logica pre-scritta. Così come pre-scritte e pre-determinate sono le cornici entro cui quei fenomeni vengono ridotti, spiegati e gestiti (specie dai promotori dell’ordine).
Anche qui, vi è il rischio di un aut-aut: il potere (che per sua natura è violento, anzi è violenza assoluta – monopolio della forza, che è violenza trasfigurata o dissimulata) non può ammettere nessun contro-potere. L’ordine è per sua natura in radicale contraddizione con la sommossa.
Ma nei conflitti europei di questi ultimi mesi (da Londra ad Atene, da Parigi a Roma), c’è qualcosa di più. Continua a leggere “Riots!”

La Gazzetta di Diogene – nr. 16

♦ Chissà che cosa avrebbe detto il mio collega Platone, che si lamentava dei politici ateniesi, se avesse assistito agli italici dibattiti parlamentari di questi giorni…

♦ (Credo nulla, tranne forti conati di vomito)

♦ Ricordi dai manuali di storia (1): l’antico vizio della classe politica italiana – il trasformismo – si chiama oggi “responsabilità nazionale”. È oramai la lingua ad essere affetta da trasformismo.

♦ Ricordi dai manuali di storia (2): il sistema feudale si regge sul rapporto servile e personale tra re, vassalli, valvassori e valvassini. Ma non si sta parlando del IX-X secolo carolingio, bensì del XXI secolo berlusconingio.

♦ Intanto, fuori dal palazzo, nei luoghi da me preferiti, le piazze si riempiono di studenti, lavoratori, cittadini. Che è sempre un bene.

♦ Il conflitto sociale, però, ha il suo lato oscuro – il suo blocco nero. Dove è facile infiltrarsi. Dove tornano a spuntare le pistole (a proposito, com’è che un finanziere stava lì, e non invece a dar la caccia agli evasori fiscali?).

♦ Okkio! alla maggioranza silenziosa e all’eterno borghesume fascistoide italiota (che la classe politica specchio di eticità di cui sopra, hanno eletto). Quella non dorme mai, al più sonnecchia.

Trilogia del lato oscuro – 3. La violenza

Si trovò immerso, senza quasi accorgersene, nella folla festante di ragazzi, tra lazzi e piccole baruffe, parole lanciate come pugnali a trafiggere l’aria e volti solcati da sorrisi sguaiati e vagamente perfidi. Nessuno portava maschere o travestimenti – quelle erano ormai cose da bambini, che si erano lasciati alle loro spalle da almeno un paio d’anni. Ora brandivano fiale puzzolenti, bombolette di schiuma da barba sottratte ai padri (non sempre c’erano i soldi per comprarle), micce di vari calibri e piccole mazze di gommapiuma sequestrate alle bande avversarie l’anno prima, l’anno memorabile della calata dei lanzichenecchi, quando la battaglia all’ultimo sangue con le bande del paese vicino decretò per la prima volta la loro vittoria.
Si vociferava addirittura che girassero lamette e coltelli, ma lui non ne aveva ancora visti. Si trovò al centro della calca, trascinato dalla forza degli eventi. Ma non sembrava più l’allegra calca di prima: si avvertiva chiaramente che qualcosa stava per succedere. Prima una folata improvvisa di vento, seguita da un tremito e da un urlo sopra le righe; poi un gesto nervoso, un ghigno malevolo, una parola più tagliente delle altre; infine una scossa violenta, un movimento controcorrente lungo il flusso dei corpi – e il clima di festa era stato lacerato. A due metri da lui, un ragazzino minuto e dalla faccia angelica, con la maglietta a righe, ne stava affrontando un altro molto più grosso. Questi gli aveva sputato in faccia e l’altro, per tutta risposta, stava cercando di avvinghiarglisi addosso.
Lui si mise in mezzo per dividerli. Il cazzotto del mingherlino, inatteso, lo raggiunse al centro dello stomaco. Si piegò, mentre sentiva dire da entrambi – ma tu che cazzo vuoi?

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Deriva patologica

La prima cosa che mi è venuta in mente vedendo il volto insanguinato del sovrano – il corpo del sovrano violato ed esposto con le sue stimmate – è stata, come immagino per altri, il detto popolare chi semina vento raccoglie tempesta.
Il problema è che chi, come me, intendeva (ed intende ancora) la politica come la sapiente arte di mettere insieme il lato razionale e quello passionale, si trova forse un po’ spiazzato di fronte a quel che accade oggi. Poiché di razionale è rimasto ben poco – per lo meno in superficie, dato che poi la gestione degli interessi materiali mantiene sempre una sua logica ferrea; mentre il lato “passionale”, quando ancora c’è – l’appassionarsi alle idee e al tentativo di metterle in pratica per trasformare l’esistente – sembra ormai consegnato alla sfera del patologico.
Se è vero che alcuni fatti sono densamente popolati dai simboli, allora la maschera di sangue del quasi monarca italiano ne raccoglie davvero tanti. Innanzitutto quella forma estrema di patologizzazione della forma del politico e del suo linguaggio: le dinamiche amico/nemico e soprattutto amore/odio, che pure in politica non sono mai assenti, tendono a polarizzare e semplificare ogni discorso e ogni modalità relazionale della società civile e del suo esprimersi pubblicamente. Una forma patologica, che è se vogliamo psicopatologica: non intendo usare il termine “follia”, che detesto proprio perché generalmente imposto da un potere normativo che definisce folle ciò che sfugge alla sua ortodossia, ma non c’è dubbio che una certa irrazionalità (peraltro mai disgiunta dagli affari) che circola nella testa del capo provvidenziale, unto, miracolato e quant’altro, finisce poi per attrarre e innescare meccanismi psicosociali imprevedibili.

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