Cupiditas: l’orcio, il piviere e la scabbia

[Quella che segue è una sintesi dell’introduzione con cui lo scorso lunedì ho aperto il Gruppo di discussione filosofica che si tiene mensilmente presso la Biblioteca di Rescaldina. Ho cercato di mantenere, per quanto mi è stato possibile nel passaggio alla stesura scritta, il tono colloquiale e il carattere divulgativo. Il tema in discussione era: (Iper)consumi: necessità, bisogni, desideri]

Partiamo dal titolo del nostro incontro: già il prefisso “iper” comporta un giudizio di valore (che è però tutto da argomentare). A tal proposito appare ovvio come ogni società umana (e dunque ogni singolo umano) non possa non consumare per sopravvivere. Senonché – anche questa è un’ovvietà – si sono date storicamente forme sociali diverse con modi diversi di consumare, uno dei quali è l’attuale, il tardo sistema capitalistico globale. Un sistema che non è eterno e che potrà in futuro essere modificato o sostituito. Questo modello viene da più parti denominato e caratterizzato come “consumistico” – ad indicare genericamente un eccesso di consumi, o un’eccessiva concentrazione sulla logica del consumo (senza magari farsi domande su motivazioni, radici, cause, effetti, ecc.). È comunque evidente che non ci sono mai state società in passato che abbiano consumato così tanto, così diffusamente ed intensivamente.
Ma la mia attenzione si volgerà piuttosto all’altra parte del titolo: necessità – bisogni – desideri, e verterà sul lato “soggettivo” più che oggettivo. Ci chiederemo cioè quali sono le spinte interne all’individuo che determinano la logica del consumo. E per far ciò partiremo dall’analisi di un celebre filosofo olandese del ‘600, autore di una interessante teoria della natura umana, ed in particolare delle “passioni” umane: Baruch Spinoza (1632-1677).
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Specchio delle mie brame

Ragazza davanti allo specchio Picasso

Se è corretto ridurre la sfera umana alla sua essenza istintiva e primordiale – la cupiditas, il Desiderio, l’affermazione vitale che è insieme conservazione e aumento del proprio essere; ammesso (e non del tutto concesso) che sia un’operazione legittima, sorge inevitabilmente un problema etico e politico ogni qual volta tale nucleo della natura umana – che si ritiene, a torto o a ragione, indomabile – viene, per qualche motivo, posto sotto controllo. Cioè: viene fatto “ragionare” – in genere per essere ridimensionato e composto con le altre sfere vitali.
(Metto per ora tra parentesi la questione, non certo secondaria, della storicità dei bisogni e desideri: quel che desideriamo oggi o qui in Occidente è differente dai desideri del Seicento o di quel che resta del popolo indios Nambikwara).
Torno al nocciolo: finché cozzano le cupiditates di Tizio o di Caio – di singoli individui – poco importa (se non a Tizio e a Caio). Si tratterebbe tutto sommato di conflitti limitati e più o meno “naturali” (con le virgolette del caso). Il bellum omnium diventa devastante non quando gli individui sono sciolti, ma al contrario, quando sono associati. Dalla tribù all’impero, dal partito all’associazione mafiosa, dall’ultimo staterello alla potente nazione confederale, il problema è quello della cupiditas organizzata. In stato, in classe, in etnia o razza dominante, in genere, e così via. Di nuovo, poco importa la specificità di tali forme (se non agli stati, classi, etnie eventualmente soccombenti).

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