“Innumerevoli forme e meravigliose”

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La vita ha qualcosa di inafferrabile. Fa parte di quella categoria di concetti che, per l’eccessiva generalità o profondità, sfuggono alla possibilità di essere definiti – un po’ come succede coi concetti di essere o totalità o natura: tutti sappiamo che cosa si intende con quei termini, ma volendoli definire ci si avvolge in difficoltà… tipicamente filosofiche. «Benché sperimentiamo la vita quotidianamente – scrive il chimico e divulgatore scientifico Jim Baggott – e siamo in grado di riconoscerla facilmente quando la vediamo, in effetti non sappiamo davvero che cosa essa sia».
Nel caso del fenomeno della vita, è stata la scienza a prendere il sopravvento in epoca moderna (già era successo con il mondo fisico, lasciando alla filosofia le briciole dei concetti poco interessanti per la vita pratica degli umani). Per la biologia moderna la vita diventa un problema da risolvere, mentre per la filosofia rimane un enigma che non può essere sciolto. Noi qui ci occuperemo innanzitutto del problema, lasciando ai margini l’enigma (e il fascino del mistero), anche se vedremo come nel linguaggio scientifico finiscano poi per ricorrere termini e categorie di ordine filosofico.

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Adattamenti

resilienza

Partiamo dall’evidenza storica e sociologica dell’assoluta prevalenza del collettivo sul personale – che, come dice Simone Weil, è un fatto meccanico, come la prevalenza del chilogrammo sul grammo di una bilancia.
Ma, appunto, si tratta di una prevalenza quantitativa, di un fenomeno materiale, non spirituale. Per quanto l’anima bella non possa nulla contro il corso del mondo, salvo autoeliminarsi e confermare una volta di più la propria ininfluenza, vi sono forme e gradi diversi di “resistenza” (o “resilienza” come è ora di moda dire) che attengono a tattiche o strategie di adattamento.
Adattamento è diverso da adeguamento o conformazione-conformismo – è un gesto di un maggior grado di coscienza, e se è vero che il suo ambito specifico è quello della biologia, in ambito sociale ha la forma di una resa vigile e provvisoria con diverse tipologie di manifestazione: dall’attesa alla sospensione del giudizio (epoché) fino alla soluzione estrema del rifiuto di Bartleby.
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La Genesi e il perturbante

Sea Lions at Puerto Egas in James Bay, The Galapagos from Genesis,  2004

Proprio mentre stavo ammirando il fulgido lavoro di Sebastião Salgado intitolato Genesi – il progetto durato un decennio di catalogare fotograficamente (ma sarebbe meglio dire, nel suo caso, trasfigurare poeticamente) i luoghi naturali ed antropologici più lontani, irraggiungibili e pressoché incontaminati del pianeta – mi capita tra le mani un romanzo di Georges Simenon di cui non conoscevo l’esistenza, appena ripubblicato da Adelphi, ed intitolato Hôtel del ritorno alla natura (peccato che non lo conoscessi, visto che su questo tema ci avevo fatto la tesi). Il prolifico autore belga-francese lo aveva scritto a Tahiti negli anni ’30 (guarda caso, un luogo mitizzato proprio dalla cultura francese, da Diderot a Gauguin), prendendo spunto da un inquietante fatto di cronaca avvenuto in un altro luogo leggendario, quelle isole Galàpagos dove Darwin aveva trovato non pochi spunti per la sua rivoluzionaria teoria.
Nel catalogo di Genesi vi è un capitolo dedicato proprio alle Galàpagos, isole che ci vengono ritratte se non come un luogo paradisiaco senz’altro come una riserva naturale straordinaria, dove la terra, il mare, il fuoco, i venti si incontrano e danno luogo a sculture mirabolanti, e migliaia di specie animali convivono in pace (una pace che certo non esclude la legge ferrea dell’eterotrofia).
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Prima parola: guerra

FranciscoGoyaLosdesastresdelaguerra

Ci sono almeno 3 ragioni che mi hanno indotto ad inaugurare il nostro Gruppo di discussione 2014/15 con il tema della guerra (l’unico che non era stato suggerito dal gruppo precedente). La prima è di tipo locale e contingente: qui a Rescaldina, per volontà di alcune associazioni e della nuova amministrazione comunale, si sta riflettendo sul tema della pace, attraverso un itinerario di incontri e di iniziative che proseguirà anche nelle prossime settimane. Solo che la parola-chiave di questa sera non è “pace”, ma “guerra”. La scelta non è casuale. Veniamo quindi alla seconda ragione, di tipo globale: è evidente come la guerra sia ancora l’orizzonte generale delle relazioni internazionali, la modalità attraverso cui, in ultima analisi, la politica gestisce i conflitti (dal Mediterraneo al Medio Oriente, dall’Ucraina ad altri scenari più periferici e, spesso, oscurati dai media). Infine, questo incontro è per me l’occasione di fare il punto sul rapporto tra filosofia e guerra, dato che proprio 30 anni fa, nell’incontrare la filosofia, cominciavo a riflettere sulle dinamiche militariste e sull’antimilitarismo come teoria e prassi di ampio respiro.

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Filosofia della contingenza – 2

[Chi non vuole sorbirsi le solite menate gnoseologiche e i soliti astrusi giri di parole del linguaggio filosofico, può saltare a piè pari questa prima parte e andar subito ai “fatti”, a partire dalla lettera a)].

Sono sempre stato sospettoso nei confronti della “tirannia dei fatti”, di quell’apologia cioè della realtà e del senso comune utile a smontare la pretenziosità filosofica; d’altra parte non ritengo nemmeno possibili teorie che non siano corroborate da fatti (o ragionamenti) e che ne dimostrino pubblicamente la validità. (Insomma: un colpo al cerchio ed uno alla botte!). Saremmo altrimenti nel territorio della fede o della credenza – dove esistono fatti miracolosi, o teorie da accettare a scatola chiusa.
Pur tuttavia, nessuna delle due tradizionali forme di riduzionismo gnoseologico mi ha mai convinto: né l’idealismo né l’empirismo, sia perché il primo finge di prescindere dai fatti (introducendoli spesso e volentieri in modo surrettizio), sia perché il secondo è pur sempre una teoria, che per di più non ha dietro di sé uno o più fatti inequivocabili. La malsana ed inveterata abitudine filosofica mi ha sempre portato a sospettare che dietro qualcosa ci sia qualcos’altro, che dietro un fatto (come dietro una teoria) ci possa essere rispettivamente una teoria (o un fatto), o magari qualcos’altro ancora: immaginazione, interessi, inconscio, ideologie non dichiarate – di nuovo, fedi o credenze. A maggior ragione occorre guardare all’intero e alle sue infinite correlazioni: un fatto non è mai isolabile da un contesto più generale, né una teoria da una sua base storica e contingente.
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Bioepoca – prima parte

(approfitto dell’ultimo degli incontri di “Introduzione alla filosofia”, costruito a partire dalle sollecitazioni di alcuni partecipanti, per fare il punto sul concetto di bioepoca, e sulla bruciante e connessa questione della bioetica).

Già l’uso della parola “epoca” accanto a bios (vita), ne orienta in una direzione precisa il significato: c’è un’epocalità, cioè l’apparire cruciale di un nuovo concetto di vita; ma “epoca” sta anche a dire che c’è l’emergenza di una temporalità e di una storicità: qualcosa di inaudito, che prima non era mai emerso, e che implica nel contempo qualcosa che è destinato a tramontare. Ci troviamo cioè, probabilmente, nell’epoca epochizzante per antonomasia – evo in cui si guarda alle cose nella loro determinazione storica e perenne mutabilità. Epoca transeunte del transeunte, che consuma il suo stesso consumarsi. Negazione della negazione.

Utilizzerò alcune parole-chiave per definire la costellazione concettuale da cui partire per una discussione etica del bios – una bioetica, come si suole ormai chiamare il nuovo orizzonte decisionale riguardante gli antichi estremi della condizione esistenziale: la vita, la morte, la nascita, la natura, la finitezza e l’immortalità. Alcuni concetti che è bene chiarire preliminarmente:

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Introduzione alla filosofia – 5. Da Hegel a Nietzsche

Noi vedremo come nel corso dell’Ottocento si avvia una integrale opera di  de-assolutizzazione, de-mitizzazione, de-sacralizzazione di tutte le categorie consolidate del pensiero filosofico. Si viene cioè preparando in quel secolo l’età della crisi delle certezze che caratterizzerà il Novecento e che non pare essersi ancora conclusa. Ogni ordine va in pezzi e lo stesso rapporto soggetto-oggetto entra in crisi: non solo non c’è più un oggetto (una natura) ordinato e stabile, ma anche il soggetto (l’io cartesiano) comincia ad incrinarsi fino ad andare in frantumi. Tale grave crisi, che porterà al declino del concetto classico di verità (e che Nietzsche ha sintetizzato con la fortunata formula della “morte di Dio”), investirà tutti i campi: non solo la filosofia, ma anche il sapere scientifico, la rappresentazione della realtà, la società, la mentalità, la cultura e – in particolare nel Novecento – l’arte, la pittura, la musica…
E’ quella che Emanuele Severino ha definito in termini di “distruzione dell’epistème” (cioè del fondamento ultimo del sapere scientifico) o degli immutabili: tutto vacilla, e ogni teoria può (anzi deve) essere revocata in dubbio.
Vediamo ora di ricostruire brevemente la “genealogia” di questa crisi, che comincia proprio (un po’ paradossalmente) con il filosofo più sistematico che la storia della filosofia abbia mai conosciuto: Georg W.F. Hegel.

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Trilogia del lato oscuro – 3. La violenza

Si trovò immerso, senza quasi accorgersene, nella folla festante di ragazzi, tra lazzi e piccole baruffe, parole lanciate come pugnali a trafiggere l’aria e volti solcati da sorrisi sguaiati e vagamente perfidi. Nessuno portava maschere o travestimenti – quelle erano ormai cose da bambini, che si erano lasciati alle loro spalle da almeno un paio d’anni. Ora brandivano fiale puzzolenti, bombolette di schiuma da barba sottratte ai padri (non sempre c’erano i soldi per comprarle), micce di vari calibri e piccole mazze di gommapiuma sequestrate alle bande avversarie l’anno prima, l’anno memorabile della calata dei lanzichenecchi, quando la battaglia all’ultimo sangue con le bande del paese vicino decretò per la prima volta la loro vittoria.
Si vociferava addirittura che girassero lamette e coltelli, ma lui non ne aveva ancora visti. Si trovò al centro della calca, trascinato dalla forza degli eventi. Ma non sembrava più l’allegra calca di prima: si avvertiva chiaramente che qualcosa stava per succedere. Prima una folata improvvisa di vento, seguita da un tremito e da un urlo sopra le righe; poi un gesto nervoso, un ghigno malevolo, una parola più tagliente delle altre; infine una scossa violenta, un movimento controcorrente lungo il flusso dei corpi – e il clima di festa era stato lacerato. A due metri da lui, un ragazzino minuto e dalla faccia angelica, con la maglietta a righe, ne stava affrontando un altro molto più grosso. Questi gli aveva sputato in faccia e l’altro, per tutta risposta, stava cercando di avvinghiarglisi addosso.
Lui si mise in mezzo per dividerli. Il cazzotto del mingherlino, inatteso, lo raggiunse al centro dello stomaco. Si piegò, mentre sentiva dire da entrambi – ma tu che cazzo vuoi?

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La supermente umana

Tradizionalmente i filosofi (forse perché più “umanisti”) sono sempre stati inclini a porre l’umanità al riparo dall’animalità, trovando proprio nella mente (nel linguaggio, nell’anima, ecc.) il tratto dirimente. Se n’è parlato spesso in questo blog, e credo che continueremo a parlarne. Viceversa, sono stati gli scienziati, per lo meno a partire da Darwin, a compiere una lunga opera di riavvicinamento della sfera umana a quella animale, fino alle recenti scoperte circa la rilevante comunanza genetica (il 98% di condivisione con gli scimpanzé).
Ecco perché sono rimasto piuttosto sorpreso di leggere sulla rivista Le Scienze dello scorso novembre, le conclusioni cui è giunto il biologo evoluzionista Marc Hauser circa l’assoluta peculiarità della mente umana. O meglio: non avevo dubbi sul fatto che la nostra mente, sulla base tra l’altro di una maggiore encefalizzazione, fosse diversa e un po’ più complessa delle “semplici” menti animali. Ero (e resto) però convinto che, proprio come sosteneva Darwin ne L’origine dell’uomo, si tratti semplicemente di una differenza “di grado e non di tipo”. Di quantità, non di qualità. Hauser sembra pensarla diversamente, anche se ad esser sincero, e per quel che ne posso capire date le mie scarse conoscenze neuroscientifiche, non mi è proprio riuscito di visualizzare o di collocare in qualcosa di definito tale preteso grande salto.
Ma vediamo di che si tratta. Il biologo di Harvard individua la humanuniqueness (termine coniato fondendo human e unique) in quattro caratteristiche specifiche:

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