Rialza la testa il patriarcato, avanza il lavoro servile, arretra l’autodeterminazione.
Con la parola “autodeterminazione” occorre intendere quell’insieme di “diritti” – che io preferisco chiamare affermazioni ontologiche, libera espressione delle forme di vita – che fanno sì che i soggetti plurali, nel loro essere corpi, menti, anime o quel che intendono essere, possano autorealizzarsi in maniera onnilaterale.
Da questo punto di vista non c’è alcuna distinzione tra diritti sociali, economici o civili, e nemmeno tra diritti individuali e collettivi. Tutti si tengono, tutti avanzano o arretrano insieme.
Ciò vuol dire che ogni ostacolo a questa autoaffermazione ed autorealizzazione – alla autodeterminazione di ciascuna soggettività – legittima l’uso della forza. Ciò che impedisce il libero fluire della vita deve essere tolto di mezzo.
La forza dei corpi e dei soggetti contro i loro poliziotti e controllori, contro i loro sfruttatori, contro i loro imbonitori, contro ogni disciplinamento.
La forza è inscritta in ciascun essere vivente.
La forza abbatte ogni gerarchia.
La forza che libera è il motore della storia.
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Trogloditi etici
Mentre intervengono pure i parrucconi-professoroni pediatri a dire cose infondate oppure banalità, appare sempre più evidente come la strategia reazionaria dei trogloditi etici della “famiglia naturale” sia non solo povera di argomenti, ma anche di spirito: ché essi riducono appunto lo spirito ad animalità, e l’amorosa educazione dei bambini ad una faccenda biologica – e i genitori alla nudità di un ovulo e dello sperma che lo feconda.
Ora, non è nel mio stile essere troppo assertivo, ma viste le idiozie provenienti dal campo dell’infamilyday è bene chiarire alcuni punti fermi:
a) non esiste alcuna “famiglia naturale” – esistono solo forme storiche e sociali di famiglia, e dunque famiglie diverse e in perenne trasformazione
b) non esiste nemmeno una forma unica, naturale ed assoluta di nascita e procreazione: la tecnoscienza ha mutato e muterà sempre di più la biologia, che non è, come qualcuno ha detto, un destino
c) è infondato pensare che un bambino necessiti di un papà e di una mamma, altrimenti sarebbe infelice: un bambino necessita di cure in senso lato, e le figure che lo accudiscono sono ruoli del tutto convenzionali
d) mi par legittimo che in una società in cui tutti i cittadini abbiano pari diritti, ciascun* possa decidere liberamente ed autonomamente quale forma di unione e/o forma familiare scegliere – matrimonio compreso
e) l’adozione e/o la procreazione di bambini da parte di persone glbt ha pari dignità e pari possibilità di successo delle forme di adozione/procreazione tradizionali
f) infine: esiste un “diritto d’amore” (rivendicato ad esempio da Stefano Rodotà) che può e deve far convergere regole e sfera affettiva. È l’amore ad avere un alto significato sociale, non “i valori”.
Fine degli umani non è forse la felicità, nonostante la valle di lacrime? Perché moltiplicarle laddove non ce n’è alcun bisogno?
Secondo fuoco: piccola apologia (gender) del corpo

Tema quantomai scottante – direi infuocato come le discussioni che ne potrebbero scaturire – quello di stasera. Scottante perché attiene al sé di ciascuno e ciascuna, al modo di essere, alla propria identità più profonda – alle modalità attraverso cui l’essere umano si viene costituendo.
Ecco perché, tra l’altro, scatena battaglie ideologiche, guerre, fobie, campagne mediatiche…
Mi riferirò, di tanto in tanto, non ad uno – come preannunciato – ma a ben tre testi che ci aiuteranno nell’impostazione della riflessione e del dibattito – senza per questo doverli seguire passo passo.
1. Delegherò la funzione di “battaglia di retroguardia” alla filosofa morale Michela Marzano, che, pur da un punto di vista cattolico, dedica gran parte del pamphlet appena pubblicato dal titolo provocatorio Papà, mamma e gender a smontare, criticare, decostruire i luoghi comuni cattolici – e più in generale oscurantisti – su questo tema.
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Terzo lunedì: la “madre” di tutte le decolonizzazioni
Premessa biografica.
La scoperta, peraltro tardiva, di uno scritto femminista dei primi anni ’70 che si intitolava Sputiamo su Hegel, ebbe su di me un duplice effetto. Da una parte fui turbato (e al contempo divertito per la singolarità del titolo), poiché si sputava proprio nel piatto nel quale stavo mangiando da tempo, oltretutto con gusto: Hegel era il filosofo che più avevo studiato (e amato) e che maggiormente aveva condizionato la mia formazione filosofica nonché la mia concezione del mondo, della storia, della politica. Dall’altra, quella scoperta non era certo casuale, dato che si innestava su una parallela frequentazione di ambiti di pensiero radicalmente critici (tra cui, ovviamente, quello femminista), non solo nei confronti della tradizione filosofica, ma soprattutto della società e delle sue strutture categoriali.
Una mia cara amica e compagna di studi, con la quale condividevo l’assunto marxista della stretta connessione tra teoria e prassi, mi disse un giorno che non capiva perché mai dovesse studiare tutti quei filosofi uomini, che avevano elaborato teorie di dubbio valore universale (al più potevano essere semiuniversali), e nei quali, soprattutto, finiva per non riconoscersi. Ecco allora che “sputare su Hegel” non era solo un gesto simbolico o provocatorio, quanto piuttosto un chiedersi radicale e straniato – che non valeva solo per le assoggettate di sempre, ben poco contemplate in quel “Soggetto” cui il filosofo tedesco dava una suprema importanza – se il discorso filosofico che andavo studiando sui libri riguardasse o meno la mia esistenza e l’esistenza collettiva nella quale ero immerso.
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Irremissibile
Il film di Vicari che ricostruisce i fatti della Diaz del G8 di Genova, cioè la cronaca della “piu’ grande sospensione dei diritti democratici in un paese occidentale dalla Seconda Guerra mondiale”, si apre con la moviola di una bottiglia che va in frantumi – senonché la scena torna indietro, e i cocci vanno lentamente a ricomporsi, a sottolinearne l’impossibilità.
Al di là della sua funzione narrativa (il gesto contingente che pare fornire l’alibi per scatenare la furia poliziesca), quella bottiglia che va in pezzi mi pare simbolizzare le molte fratture che in quei giorni si generarono.
Dei corpi e delle menti di tutti coloro che finirono nel macello, in primo luogo.
Dei diritti civili, dei diritti umani, della dignità individuale.
Delle garanzie costituzionali e della eguaglianza dei cittadini.
Del tessuto istituzionale della “repubblica democratica”.
Della giustizia – violata da processi che non condanneranno nessuno.
Della verità – che il parlamento ha più volte dichiarato di non voler nemmeno cominciare a indagare.
Del movimento contro la dittatura neoliberista (che aveva ragione ieri, e ancor più oggi) – cui è stata inferta una ferita indelebile.
Così come il vetro che si frantuma non può più essere ricomposto – tutte quelle ferite costituiscono un gigantesco vulnus che non si è mai richiuso in questi undici anni.
E che né può né deve essere richiuso, finché i nazisti in divisa (e i loro mandanti in doppiopetto) saranno ancora in circolazione, finché i campi di concentramento per immigrati rimarranno aperti, finché le parole che evocano la dignità delle persone resteranno parole.
(Mi è poi venuto da pensare, mentre paralizzato sulla poltrona guardavo il film e riconoscevo il clima che si respirava in quei giorni, che quasi non pare casuale che il macello si sia consumato in una scuola, uno degli ultimi luoghi di resistenza del comune).
Feroce equità
Chiamiamo le cose con il loro nome. Questo governo cosiddetto “tecnico” è in realtà un feroce governo di destra (molto più di destra della macchietta berlusconiana): è un governo che fa dell’ideologia liberista la sua bandiera, in rappresentanza di un vero e proprio comitato d’affari della borghesia interna ed internazionale. Il fatto che le borghesie, gli interessi economici costituiti (o costituendi), le vecchie e nuove agenzie globali e transnazionali siano (o appaiano) in conflitto tra loro, non deve ingannare: il nocciolo duro del programma economico è di sottomettere il lavoro al capitale, possibilmente in maniera definitiva, sotto la pietra tombale del profitto. È il linguaggio che accomuna i vari Rajoy, Merkel, Sarkozy, Monti, insieme alla cricca di banchieri, monetaristi e speculatori globali.
Secondo la logica di questa cupola, non solo non devono esistere diritti indisponibili, ma i diritti dei lavoratori sono soltanto variabili del tutto dipendenti dal sistema finanziario, bancario e produttivo. E non inganni nemmeno l’apparente divario interno a tale sistema (tra finanza e produzione, tra speculazione ed economia reale): esso piuttosto si tiene e fa lega laddove l’obiettivo comune è quello di sottomettere il lavoro.
Il profitto è il dio indiscutibile, la fede indiscussa cui ogni entità politica (stati, società, classi, partiti, sindacati) deve piegarsi. È questa una forma di monoteismo (e di credenza al limite della superstizione) ben più potente e diffusa delle tradizionali forme religiose.
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Scudisci
Mercoledì 12 maggio leggo un libro (in teoria per ragazzi) a dir poco agghiacciante. Lo stesso giorno, qualche ora dopo, leggo un fatto di “cronaca giudiziaria” altrettanto agghiacciante. Ciò che li accomuna è lo schiavismo e il disprezzo per gli esseri umani. Ma nel primo caso si tratta di una finzione letteraria, una storia accaduta mille volte e però ambientata in un’epoca passata che si presumeva sepolta per sempre; nel secondo, accade qui, oggi, tra noi, nella civilissima Europa, patria dei tanto conclamati diritti umani.
Il regalo nero è un libretto di una sessantina di pagine, suddiviso in brevissimi capitoletti, a loro volta caratterizzati da frasi brevi, secche, essenziali, scritto dall’olandese Dolf Verroen, che nella postfazione spiega come l’idea per questa storia gli sia venuta durante i suoi viaggi nell’ex-colonia del Suriname.
La storia è semplice, persino banale: Maria compie dodici anni e la sua famiglia le regala un piccolo schiavo nero, esattamente come se si trattasse di un balocco, di un libro o di un cappellino. Continua a leggere “Scudisci”
Scostituzione srepubblicana
(1) L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro.
Precario, flessibile, malpagato, sfruttato, alienato, parcellizzato, screditato, ricattato, infortunato, ucciso, evaporato…
(2) La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo.
Come no? Aprendo campi di concentramento graziosamente nominati Cpt o Cie.
(3) Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge.
(risate scomposte e prolungate…)
(7) Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani.
Peccato che la seconda, con la scusa della “sovranità morale”, finisca sempre per allargarsi e tracimare (che poi, di questi tempi, è una sovranità piuttosto screditata…)
(9) La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica.
Com’è dimostrato dallo stato della ricerca scientifica in questo paese e della grande stima di cui gli uomini e le donne di cultura godono, specie se paragonata a quella di soubrettes e calciatori.
(9) Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.
Sempre al primo posto nei pensieri di tutte le amministrazioni degli ultimi 50 anni…
I dannati della terra
“Dal momento che si vieta la contro-violenza agli oppressi, poco importa che si muovano dolci rimproveri agli oppressori (del tipo: equiparate dunque i salari o, almeno, fate un gesto; un po’ di giustizia, per favore!)” – così Sartre nel 1965.
Come può uno stato degno di questo nome pretendere per sé il monopolio assoluto della forza, se poi non riesce a garantire pari diritti, legalità, sicurezza a tutti i suoi cittadini – e soprattutto a quei non-cittadini, quelle nude vite, che sono per loro natura i meno garantiti, i più violabili, i più esposti alla violenza e all’oppressione?
Tanto più che non c’è quasi articolo della dichiarazione universale dei diritti umani che non sia stato violato; il fondamento della nostra costituzione repubblicana distrutto; il volto della democrazia e della civiltà irrimediabilmente deturpato.
Nei fatti di Rosarno di questi giorni (e delle Rosarno sparse un po’ ovunque, reali e potenziali) emergono tutti i nodi cruciali della nostra epoca relativi ai diritti, all’esistenza, alla vita, al lavoro, alla dignità, alla cittadinanza, al rapporto con la terra e le risorse, al consumo, alla sussistenza, alle ingiustizie, alla libertà e all’eguaglianza di tutti gli esseri umani. Se non verranno affrontati e risolti quei nodi, le Rosarno del pianeta diventeranno migliaia e finiranno per metterlo a ferro e fuoco.
E nessuno può chiamarsi fuori a nessun livello: il governo (criminale e razzista, nel linguaggio, negli atti, nel suo stesso dna), l’opposizione, il sistema informativo, i sindacati, i movimenti, i cittadini di Rosarno governati dalla mafia (spiace per i rosarnesi solidali, che certo ci sono), tutti noi cittadini normali, noi che compriamo al mercato le arance e le verdure raccolte dagli schiavi e dai “negri”…
Ma chi è violato nella sua dignità ed essenza umana e non ha nessuna garanzia di essere tutelato, ha il diritto assoluto di ribellarsi, senza se e senza ma.
Discuteremo domani se le jacqueries non portano da nessuna parte, sono controproducenti e suscitano altro razzismo. Se sono forme deviate e perdenti di lotta di classe. Se è violenza che porta altra violenza. Se, se, se…
Domani. Oggi non voglio sentire altre ragioni: sto dalla parte dei “negri” e degli schiavi che affermano il loro elementare diritto ad esistere.
LA PARTE MIGLIORE DEL PAESE
Di solito detesto i comizi. Stare ad ascoltare uno che arringa le folle, le galvanizza, le ammansisce o le incita, le lusinga, le adula. Certo, se ne può ammirare la capacità retorica, dopo tutto si tratta
dell’antica e raffinatissima arte della persuasione, nata nella Grecia classica dei sofisti. Ma normalmente i capipopolo mi infastidiscono e tendo subito a scostarmene.
Eppure oggi, durante la Mayday dei lavoratori precari, a Milano, mi sono sorbito più che volentieri una serie di brevi comizi proclamati e talvolta urlati dal carro dei cittadini immigrati.
(A tal proposito mi impegnerò, ed invito tutti a farlo, ad utilizzare d’ora in poi l’espressione “cittadini” accompagnata a migranti o immigrati).
Donne peruviane o arabe, uomini africani o pakistani, badanti, manovali, operai, hanno rivendicato il diritto ad essere cittadini a tutti gli effetti, parte importante e cosciente della nazione dove si trovano a vivere e lavorare.
Hanno preso la voce e sono usciti dal silenzio e dall’invisibilità.