Seconda parola: lavoro

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Utilizzerò come filo conduttore per la serata alcuni testi piuttosto classici, anche se molto diversi tra di loro, non prima però di aver dato uno sguardo all’origine etimologica della parola lavoro, per la quale mi limito a riportare la relativa voce di wikipedia:

“Il termine lavoro riporta al latino labor con il significato di fatica. Sono noti i detti della letteratura classica “durar fatica” e “operar faticando“. Ancora oggi in alcuni dialetti si utilizzano i termini “faticare”, “andare a faticare”, per intendere “lavorare” e “andare a lavorare”. Altro termine di parlate italiane per “lavoro” è travaglio, dal latino tripalium (strumento di tortura), per esempio in siciliano “lavorare” si dice “travagghiari” e in piemontese “travajè ecc.”

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La cacciata dal paradiso terrestre

Cominciamo col più classico dei libri:

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Terzo lunedì: la “madre” di tutte le decolonizzazioni

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Premessa biografica.
La scoperta, peraltro tardiva, di uno scritto femminista dei primi anni ’70 che si intitolava Sputiamo su Hegel, ebbe su di me un duplice effetto. Da una parte fui turbato (e al contempo divertito per la singolarità del titolo), poiché si sputava proprio nel piatto nel quale stavo mangiando da tempo, oltretutto con gusto: Hegel era il filosofo che più avevo studiato (e amato) e che maggiormente aveva condizionato la mia formazione filosofica nonché la mia concezione del mondo, della storia, della politica. Dall’altra, quella scoperta non era certo casuale, dato che si innestava su una parallela frequentazione di ambiti di pensiero radicalmente critici (tra cui, ovviamente, quello femminista), non solo nei confronti della tradizione filosofica, ma soprattutto della società e delle sue strutture categoriali.
Una mia cara amica e compagna di studi, con la quale condividevo l’assunto marxista della stretta connessione tra teoria e prassi, mi disse un giorno che non capiva perché mai dovesse studiare tutti quei filosofi uomini, che avevano elaborato teorie di dubbio valore universale (al più potevano essere semiuniversali), e nei quali, soprattutto, finiva per non riconoscersi. Ecco allora che “sputare su Hegel” non era solo un gesto simbolico o provocatorio, quanto piuttosto un chiedersi radicale e straniato – che non valeva solo per le assoggettate di sempre, ben poco contemplate in quel “Soggetto” cui il filosofo tedesco dava una suprema importanza – se il discorso filosofico che andavo studiando sui libri riguardasse o meno la mia esistenza e l’esistenza collettiva nella quale ero immerso.
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JJR 2 – L’arcano della proprietà

Qualche giorno fa una ricca ministra del governo italiano in carica, rivendicava la propria ricchezza come “non peccaminosa”, e come qualcosa di cui non ci si debba vergognare. A parte l’interessante accostamento alla sfera del sacro, la suddetta ministra rimuoveva l’ovvietà (sepolta sotto anni di pesante restaurazione) di dover rendere conto delle cause e delle radici di quella ricchezza. Non tanto della sua propria – di cui m’interessa poco (e su cui i riccastri fanno di solito leva, per argomentare con la naturale passione umana dell’invidia) – ma, più in generale, della genesi e struttura della proprietà in quanto tale. Continuare a suonare la campana a morto del pensiero marxiano, che aveva messo il dito sulla piaga, non li esime  certo dal dover rispondere alla domanda essenziale: donde viene, qual è il senso storico, sociale ed antropologico della loro ricchezza? come si è originata ed accumulata? e che cosa se ne fanno?
Sono domande che, come appare evidente, esulano dalla sfera etica o morale. Non è con i sensi di colpa che si cambiano le cose, ma con il “movimento reale che abolisce lo stato di cose presente”. Togliere il velo dagli occhi di chi guarda e il velo dell’oblio dai rapporti sociali (cos’altro è la ricchezza se non questo?), è semmai il compito primario del pensiero critico.
Ascendendo di causa in causa, uno degli affluenti più importanti del fiume marxiano è proprio il pensiero politico-antropologico di Jean-Jacques Rousseau, in particolare quello del Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza fra gli uomini, la cui rilettura attenta consiglierei al ministro di cui sopra…

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JJR 1 – L’illuminazione di Vincennes

“Non appena lessi questo, vidi un altro universo e divenni un altro uomo […] I miei sentimenti ascesero con la più inconcepibile rapidità al tono delle mie idee. Tutte le mie piccole passioni furono soffocate dall’entusiasmo per la verità, la libertà, la virtù, e la cosa più sorprendente è che questa effervescenza si mantenne nel mio cuore per più di quattro o cinque anni, a un livello così alto, come non è mai stata nel cuore di un altro uomo”.

Lo stile e lo spirito di Jean-Jacques Rousseau stanno tutti in questo brano delle Confessions, tratto dal libro VIII, che descrive l’esperienza della cosiddetta “illuminazione di Vincennes”.
Nell’estate del 1749 Diderot venne arrestato e rinchiuso nella torre di Vincennes, alla periferia di Parigi, subito dopo la pubblicazione della Lettera sui ciechi. Rousseau ne rimase molto impressionato, e non mancò di far visita all’amico enciclopedista, intraprendendo talvolta lunghe ed estenuanti marce sotto il sole estivo. Fu durante una di queste camminate che lesse per caso, sul Mercure de France, il quesito dell’Accademia di Digione: Se il progresso delle scienze e delle arti ha contribuito a corrompere o a migliorare i costumi. Venne così preso da quell’entusiasmo al limite del delirio, di cui avrebbe poi parlato nelle Confessioni: una tonalità emotiva che avrebbe contribuito a fondare un nuovo modo di pensare e di concepire la filosofia.
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