Il silenzio di Ratzinger

Quando Benedetto XVI giunse al soglio pontificio, ricordo che una mia cara amica laicissima e illuminista lo soprannominò papa Natzinger. Non solo per le parole e il programma – peraltro ampiamente annunciato nei decenni di stretta collaborazione con Wojtyla, un papa nuovissimo per ragioni di “marketing” e quantomai reazionario per ideologia – ma anche per la gestualità e per quel sorriso forzato, un po’ pastore tedesco un po’ sepolcro imbiancato. Certo, un giudizio quantomai tranchant, ai limiti del lombrosiano, che oggi verrebbe guardato storto dal fiume di retorica corrente.
Ma la guerra del nuovo papa contro il relativismo, la sua visione tradizionalista ed assolutista, forse inevitabile a ridosso dell’epoca della “guerra di civiltà” e della discussione europea sulle “radici cristiane”, non poteva che infastidire qualunque progressista. Oggi che più di ieri il progressismo è un concetto abusato e problematico (ma del resto il Pasolini del discorso sul “sacro” e una schiera di filosofi novecenteschi ci avevano avvertiti), possiamo non tanto rivedere ma ricollocare quel giudizio nel nuovo contesto, etico, antropologico e geopolitico.
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Sempre nuovo splendore

Il De rerum natura di Lucrezio, com’è noto, non è solo un’opera di filosofia, cosmologia, scienze naturali ed etica, ma ancor prima un canto della natura, un’opera di alta poesia, ciò che non ne sminuisce affatto il rigore filosofico, ma anzi ne accresce la potenza.
Si prendano, ad esempio, le pagine del Libro quinto in cui si mostra come la natura fluisca perennemente, e come sia anch’essa sottoposta al vincolo universale del ciclo delle nascite e delle morti, secondo la dialettica della pesantezza/leggerezza che si dispiega grazie alla disposizione delle particelle elementari: scrive Lucrezio che

…l’universo fluisce in eterno.
Così la fonte copiosa di limpida luce, l’etereo sole
inonda continuamente il cielo di sempre nuovo splendore,
e rifornisce senza interruzione la luce con nuova luce. [281-84]

Poco dopo vengono evocate immagini di torri che crollano, rocce che si sgretolano, templi e statue di dèi che vanno in rovina – a ribadire che la natura è la «madre di tutto e comune sepolcro delle cose».
Ecco, trovo questo alternarsi di toni radiosi e cupi, di gravità e levità, uno stratagemma straordinario, non solo retorico, affinché la mente – in corrispondenza con le cose – possa accettare serenamente i sacri limiti imposti dal fato e dalle leggi della natura, e ne canti però la struggente bellezza proprio nel suo perenne consumarsi, perché «le cose hanno bisogno di sempre nuovo splendore» e quel che da loro fluisce «si riversa tutto nel grande mare dell’aria».

7 parole per 7 meditazioni – 5. Superuomo

[mentre esponevo questa introduzione al pensiero di Nietzsche, guardando i volti pur attenti dei presenti, cresceva in me la sensazione di una lontananza abissale tra le loro – le nostre – vite e quel pensiero, sensazione che si è acuita durante l’imbarazzata discussione, specie quando il Superuomo ha preso a stagliarsi lì nel mezzo, con tutte le sue ambiguità; vero è che è la natura stessa della filosofia a rappresentare questa apparente lontananza, resa plasticamente fin dalle origini con l’immagine della serva tracia che sbeffeggia Talete caduto in un fosso per aver guardato il cielo; questa sensazione di disagio e di straniamento nel caso di Nietzsche cresce a dismisura, perché il suo pensiero e il suo linguaggio sono ben più che abissali, e finiscono per erodere il terreno sotto i nostri piedi, provocarci le vertigini e lasciarci senza appigli; se le domande filosofiche sono troppo radicali e hanno la forma di espressioni perturbanti – che ne è della tua vita e del suo senso? dove poggiano e dove vanno i tuoi piedi? che fine hanno fatto le tue certezze e verità? guarda che dio è morto! sicuro della tua nicchia, del tuo spazio, delle tue comodità? d’ora in poi si naviga a vista! – e se poi sono formulate nel modo più paradossale, elitario e supponente, ci fanno storcere il naso; ma a ben pensarci solo un pensiero così terribile, che ci scuote fin nelle fibre più interne, ci può indurre a pensare in grande; del resto nessun medico, né del corpo né dell’anima, ce lo prescrive, e si può vivere benissimo (o malissimo o metà e metà) anche senza leggere gli urticanti aforismi nietzscheani, anche se… fatti non foste a viver come bruti, né tantomeno in forma di gregge o meccanismo…]

***

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Sboccio, apoptosi

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Lo sboccio, l’apoptosi.
Che dal nulla sporga qualcosa, che qualcosa ritorni nel nulla – fatta salva la severissima legge eleatica.
Sono i momenti più suggestivi dell’anno – il risorgimento, la decadenza che si succedono in natura. L’incedere e il retrocedere delle forme – con tutta la loro apparente incertezza.
Trovo che ciò sia esteticamente, eticamente ed anche ontologicamente più suggestivo di tutta la manfrina sulla stabilità delle cose, che pure piace tanto al pensiero (ma direi soprattutto all’istinto di sopravvivenza).
Motivo per cui spalanco la bocca di fronte alle foglie avvizzite, che esplodono di colore in un ultimo tentativo di resistenza, comunque destinate a cadere e a disfarsi – così come farò con occhi rinati alla luce e allo spuntare dei primi sbocci primaverili.
La morte, e la vita. Il mistero della rotazione.
Semplicemente.

Capo d’anno

Mi son ritrovato, l’ultimo giorno dell’anno, a rievocare con amici carissimi cose di molti anni fa. Di così tanti anni fa che, pur essendo questi amici genitori di figli già adolescenti, loro stessi erano bambini quando quelle cose succedevano. Così, mentre le raccontavo, mi è scappato di dire il luogo comune che tutti dicono (che proprio per questo si chiama luogo comune) tipico della temporalità e della sua inafferrabilità: «sembra ieri!».
Ieri quelle cose sono accadute.
Oggi io le sto raccontando.
E domani sarò già morto.
Logica consecutio cui c’è poco da replicare.

***

Il giorno dopo – per convenzione il primo giorno dell’anno, quando fortunatamente non ero ancora morto – mi sono ritrovato ad esporre succintamente le teorie del tempo, del divenire e della morte (o, per essere precisi, della loro autodissoluzione in quanto follie derivanti da una visione nichilistica e contraddittoria della realtà) di Emanuele Severino, così come io le ho comprese e così come sono in grado di comunicarle ad altri – ammesso gorgianamente che a) qualcosa sia, b) sia conoscibile e c) sia comunicabile senza che l’altro non ti prenda per pazzo – e mentre parlavo, l’amica madre dei figli già adolescenti e però bambina quando succedevano le cose che mi hanno fatto dire «sembra ieri!», mi guardava con tanto d’occhi…

Psicosofie estive – 1. Il divenire della plenitudine

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(d’estate la filosofia si immalinconisce, forse perché non sufficientemente temprata dai ghiacci della sistematica razionalità nordico-teutonica…)

Il 21 giugno mi trovavo a passeggiare e, avendo notato quanto la vegetazione si fosse infoltita e arricchita di forme e colori nel giro di poche settimane, ho provato a figurarmi una sorta di plenitudine della verditudine, un picco, un vertice, qualcosa che contenesse in sé il compimento, la perfezione, il momento apicale di tutto quel che avevo dinanzi agli occhi, subito dopo il quale comincia inesorabile il declino, lo sbiadire di quel verde brillante, il suo lento sbocconcellarsi ed infine l’apoptosi (similmente all’allungarsi delle giornate dovuto al raggiungimento del punto di declinazione massima del moto apparente del sole lungo l’eclittica, fenomeno noto come solstizio d’estate).
Immagino che le mie sensazioni fossero del tutto illusorie sul piano scientifico (forse un po’ meno dal punto di vista estetico), ma questi pensieri hanno richiamato alla memoria due episodi teoretici – se così si può dire – circa la modalità della percezione delle forme e del divenire.
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Il riso inestinguibile degli dèi

[Sommario: Il cominciamento – Certezza e verità – La questione gnoseologica – Adaequatio rei et intellectus – Lo scacco empirista – La soluzione kantiana – La circolarità hegeliana – Sostanza che si fa soggetto – La fatica del concetto – La dissoluzione del fondamento – Petitio principii in Schopenhauer]

E’ proprio del discorso filosofico interrogarsi sul problema del cominciamento. Anzi, di più: è la ragione essenziale dell’esserci della filosofia. Senza la domanda sul cominciamento non c’è domanda filosofica. Non è un caso che fu la domanda essenziale che si posero i primi filosofi, alla spasmodica ricerca dell’arché. Senonché la natura di quel concetto, e il problema che esso pone, ci interroga sul senso stesso del domandare –  a prescindere dal domandato. Cominciare un discorso filosofico significa, formalmente, dar conto di quel che si dice, non presupporre nulla che non sia chiarito. Tuttavia il cominciamento di cui qui si parla non è solo un problema di forma, bensì di sostanza: non è solo la giustificazione soggettiva, ma anche quella oggettiva del cominciare. E il problema sta proprio in questa apparente divaricazione originaria tra forma e contenuto – quella che Hegel definisce opposizione di certezza e verità. Di che cosa si accerta il filosofo, se non della verità che evidentemente è già data per intero? Il cominciamento è dunque l’approccio soggettivo a quell’intero, la modalità particolare di accesso (o di non accesso) all’universale – che è come dire che una parte si annette l’intero.
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La schizofrenia ontologica – Oltrepassare Severino 2

Leggendo il libro di ricordi di Emanuele Severino – che com’è giusto che sia mescola esistenza e filosofia, affetti e ragionamenti, biografia e ontologia – si ha tuttavia l’impressione di una schizofrenia di fondo. Uso il termine nel suo significato originario (“divisione della mente”), senza dunque alcuna connotazione psichiatrica, per sottolineare una vera e propria Trennung filosofica, una scissione che non è soltanto quella convenzionale tra l’io e il mondo, l’individuo e la società, la finitezza della mia mente e l’intero universo nel quale quella mente si sente sperduta, ma che attiene al discorso filosofico essenziale di Severino. Lo esemplifico con due metafore da lui utilizzate nel testo:
la prima allude all’altalenante condizione del sogno e della veglia nella quale ci troviamo immersi, un tema che da Eraclito a Calderon de la Barca ha una lunga tradizione, ma che in Severino pare caricarsi di una inaudita radicalità: il sogno (“la terra isolata dal destino”) essendo la nostra condizione fondamentale, da cui emerge la via della veglia (e dunque della verità), che solo in quanto porta alla luce il sapere che l’apparire di quell’apparire non è un sogno, può indicare il “destino”, cioè lo stare assolutamente incondizionato;
la seconda metafora, di ascendenza evangelica, è quella del campo dove crescono il loglio e il grano: lo spazio dell’uno o dell’altro delimita rispettivamente quel che è proprio dell'”esser uomo” (quell’uomo errante che è Emanuele Severino), e quel che invece è “testimonianza del destino”, un Io-destino infinitamente altro dall’io-Severino. Il merito che Severino pare attribuirsi è quello che nel “suo” campo (ma è “suo”? e che cos’è il campo? – è lui stesso a chiederselo) è via via andato crescendo il grano, confinando il loglio in spazi sempre più ristretti.

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Rèi (metafore fluviali)

Comme je descendais des Fleuves impassibles
Je ne me sentis plus guidé par les haleurs…
(A. Rimbaud)

La dialettica concepisce ogni forma divenuta
nel fluire del movimento…
(K. Marx)

1. I fiumi sono degli individui naturali straordinari. Ogni volta che ne vedo uno non so resistere, devo raggiungerlo, affacciarmi sulle sue rive, percorrerlo con lo sguardo in entrambe le direzioni, immergermi (non fisicamente, anche se vorrei) nelle sue acque, entrare nel suo misterioso flusso. Mi accontento anche di indugiare, svagato e sognante, fissando a lungo quel perenne scorrere delle acque, esperienza quantomai ipnotica. Perenne scorrere: quasi un ossimoro…

2. Fondamentali per l’insediamento antropologico e la nascita e lo sviluppo delle culture umane; vezzeggiati, curati, domati, deviati, sfruttati, canalizzati – un tempo con rispetto e devozione; onnipresenti nelle rappresentazioni estetiche e letterarie, spesso divinizzati e resi sacri; ma più di recente, con il dominio e la distruzione sistematica della physis per scopi ben poco (o fin troppo) “civili”, maltrattati, inquinati e avvelenati.
(Il mio primo incontro con un fiume, a 5 o 6 anni, avvenne nella “progressiva” Lombardia del boom economico, e reca con sé il ricordo di una maleodorante fogna a cielo aperto, ricoperta di uno strato oleoso di schiume di varia coloritura e consistenza).
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