Ho letto d’un fiato – forse troppo – il libro-intervista di Emanuele Severino Educare al pensiero. Un po’ come tapparsi il naso, trattenere il respiro ed immergersi senza più risalire per alcuni minuti, con il rischio di soffocare. L’intervistatrice – Sara Bignotti – cerca di fargli dire lungo tutto il colloquio, che il pensiero – in particolare il pensiero del grande maestro – è una forma alta ed eccelsa di educazione, salvo il fatto che “educare” nell’analisi severiniana è uno dei tanti errori generati dalla follia di avere pensato il divenire come un divenir-altro, e dunque di avere distrutto – o essersi illusi di farlo – l’eternità degli enti. L’educazione è una componente essenziale del sottosuolo del pensiero occidentale, ma proprio per questo si rivela come impossibilità e follia: «Educare vuol dire “trar fuori” (educere) […] Educare significa angosciare. Quale angoscia è maggiore di quella che consiste nel prender coscienza di essere di per se stessi nulla? un nulla che diventa essere ed è destinato a ridiventare nulla?» (pp. 83-4).
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JJR 5 – Emilio e le finzioni roussoiane
Il tema della maschera è centrale nel pensiero roussoiano. E lo è proprio all’interno della concezione di natura umana – dunque in termini antropologici oltre che psicologici. Il mettere a nudo ciò che si suppone coperto ed incrostato dalla (quasi sempre fallace) cultura umana, è un’ossessione che accompagna Rousseau lungo tutta la vita e la biografia (fin nelle Confessioni, dove tale meccanismo di messa a nudo viene impietosamente applicato su di sé, per quanto con ambiguo autocompiacimento).
Complementare a questa ossessione, vi è anche l’elemento della finzione. La natura è genuina e sincera, mentre la contorta psiche umana – corrotta da un sociopatico stare insieme detestandosi e facendosi la guerra – rende tutto falso, distorto, dissimulato.
La società immaginata da Rousseau è allora una società impossibile (lo “stato di natura” retrovolto ed utopico non essendo forse mai esistito, non esistendo attualmente e non potendo ragionevolmente esistere nemmeno in futuro) – così come impossibile è un ritorno individuale alla presunta bontà naturale.
Il suo pensiero si muove dunque lungo un corridoio strettissimo, al limite del contorsionismo teorico (e dell’inattingibilità pratica): fare come se la natura fosse ancora la via maestra in una situazione non più naturale, ma irreversibilmente artificiale.
È quel che ad esempio accade al sauvage Emilio Continua a leggere “JJR 5 – Emilio e le finzioni roussoiane”
Catalogo delle passioni: i talenti dei generosi e dei depressi
Mi ritrovo sempre più spesso a raccomandare ai ragazzi che frequentano la biblioteca dove lavoro, di cercare di essere più generosi. Lo trovo più importante di qualsiasi altra predica, anche perché può essere facilmente comunicato attraverso la prassi e l’esempio (con il che, però, ci si espone ad una precisa responsabilità e ad una facile verifica sul campo). Intendo quel termine – generosità – in maniera un po’ generica: una disposizione di apertura al mondo in senso lato, intesa a volersi mettere in gioco, a dare senza necessariamente ricevere nulla in cambio. Un flusso che va dall’interno all’esterno e che richiede di essere pronti ad impiegare se non addirittura a “sprecare” i propri talenti. Forse il termine che più si avvicina a quel che intendo è il francese dépense, concetto utilizzato ampiamente da Bataille (e traducibile all’ingrosso con un bruttissimo “dispendio”, oppure, con un giro di parole, “non badare a spese”), volto ad indicare quella sfera pulsionale contraria alla dinamica dell’utile e dell’accumulazione (non solo capitalistica).
Nel caso però dei giovani cui mi rivolgo (che sono determinati e in carne ed ossa, e non i rappresentanti generici dell’intera quanto fumosa generazione dei 12-20enni), si tratta ancor più di invitarli a vincere l’inerzia e la pigrizia da cui sono costantemente attanagliati, dovute più che al possesso delle cose accumulate, al loro uso/abuso, e forse anche alla mancanza di esempi convincenti. Prede anche loro, come tanti adulti, di una sorta di diffusa e sistematica accidia – uno dei sette vizi capitali, se non erro!
Sì, perché chi dovrebbe insegnar loro la “generosità” – la disposizione positiva nei confronti del mondo, lo spendersi, l’uscire da sé, l’ampliarsi, l’entrare in relazione, ancor prima del “donare” – è sempre più spesso a sua volta attanagliato da una sorta di sentimento contrario, anche se non simmetrico, che Spinoza identifica in maniera molto precisa nella sua Etica e che definisce abjectio.
La difficoltà sta da una parte nel tradurlo in qualcosa di concettualmente comprensibile per noi adulti (molto meno per loro che ancora non lo sono, né vorrebbero esserlo mai), e dall’altra nel metterlo socialmente ed eticamente alla prova all’interno del discorso che sto qui imbastendo. Ma partiamo dal testo, come sempre, e ricominciamo dall’inizio.
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PAIDEIA VERSUS 133
Il filologo tedesco Werner Jaeger, nella sua monumentale opera dedicata alla Paideia greca, cita alcuni versi che a suo dire valgono a caratterizzare con precisione il significato dell’educazione e della formazione nella vita dei Greci, proprio sul finire della loro età aurea: “Il solo possesso che nessuno può rubare all’uomo è la paideia”, vale a dire la sua cultura spirituale; e ancora “La paideia è un porto per ogni mortale”. E’ il commediografo Menandro a scriverli, tra il IV e il III secolo a.C., quando l’epoca della polis è ormai un pallido ricordo.
Sono felice di tornare a citare Lessing, che, in continuità con l’ideale greco, scrive tra il 1777 e il 1780 una breve quanto straordinaria opera in 100 tappe dedicata alla Formazione dell’umanità, un vero e proprio manifesto utopico e illuministico inneggiante alla Vollendung, al tempo della pienezza da conquistare tanto per i singoli quanto per l’intera umanità.
Questi da sempre sono stati i miei modelli e punti di riferimenti, entrambi volti alla costruzione di un essere umano totale e onnilaterale, che sia cioè messo in grado di sviluppare in ogni direzione le proprie capacità – i propri “talenti” – e che soprattutto possa farlo motu proprio, secondo i principi dell’autodeterminazione e dello spirito critico.
INUTILE
Qualche giorno fa ho sentito un ragazzo pronunciare questa frase: “Non perder tempo con quella persona inutile“. Al di là della “gravità” e del contesto specifico dell’espressione – ma anche dell’ironia che se ne potrebbe ricavare, dato che è tutto sommato un bene che una persona sia “inutile”, visto che non è un utensile – non ho potuto esimermi dal fermarmi di nuovo a riflettere sul linguaggio e sul suo uso più o meno cosciente. Temi, questi, su cui vado ragionando quasi ogni giorno da anni e con i quali prevedo di intrattenermi ancora per un bel po’, prima di essermi dato risposte esaustive. (Naturalmente il suddetto ragazzo ben poco sa di ironia, ragione strumentale, mezzi/fini, o teorie linguistiche – cosa che non gli impedisce certo di utilizzare con grande nonchalance parole e proposizioni in abbondanza…).
Da Aristotele ad Heidegger, tutti i filosofi hanno riflettuto sulla centralità del linguaggio – la sua quasi “sacralità”. Avevo pensato a questo termine in occasione dell’episodio che ho citato sopra, e guarda caso, qualche giorno dopo, leggo su un giornale dell’ultimo libro di Giorgio Agamben, intitolato proprio Il sacramento del linguaggio (edito da Laterza), che ho già provveduto ad acquistare e che senz’altro leggerò e recensirò. Ne riporto per ora solo un assaggio:
“…la specificità del linguaggio umano rispetto a quello animale non può risiedere soltanto nelle peculiarità dello strumento […] essa consiste, piuttosto, in misura certo non meno decisiva, nel fatto che, unico fra i viventi, l’uomo non si è limitato ad acquisire il linguaggio come una capacità fra le altre di cui è dotato, ma ne ha fatto la sua potenza specifica, ha messo, cioè, in gioco nel linguaggio la sua stessa natura […] egli è anche il vivente nella cui lingua ne va della sua vita“.
ANTROPOLOGICHE DISSOCIAZIONI
Scenario numero 1
E’ da molti anni che con alcuni amici insegnanti seguo e commento quel che succede nel mondo della scuola e, di riflesso, nel mondo giovanile. La china che i nostri discorsi di solito prendono è piuttosto pessimistica. Cosa che da una parte mi dà sollievo se penso che ho rischiato di fare l’insegnante, mentre dall’altra, com’è ovvio, mi preoccupa fortemente. Con la mia amica prof per antonomasia Donatella, ad esempio, l’altro giorno sul treno abbiamo avuto una discussione fitta di oltre un’ora su questi argomenti. Le nostre conclusioni non lasciavano speranze: i ragazzi non sanno niente, non imparano niente, sono delle teste vuote, delle pure macchine desideranti, ecc. ecc. Naturalmente fosse tutto qui sarebbero solo i discorsi di due vecchi tromboni nostalgici – ai nostri tempi era tutta un’altra cosa! – che pensano che il mondo, siccome prima o poi farà a meno di loro, professionalmente e, si spera molto in là, biologicamente, è destinato a rovinare in una barbarie delle intelligenze senza scampo. Eppure su una cosa, secondo me, avevamo ragione: i ragazzi di oggi, specie quelli nati nell’ultimo decennio, sono sovrastimolati tecnologicamente e del tutto impreparati emotivamente. (Che è poi la tesi di Umberto Galimberti nel suo recente saggio L’ospite inquietante, su cui tornerò prossimamente). Personalmente non temo affatto la tecnica, non la ritengo un mostro che ci succhia l’anima – altrimenti non scriverei qui – e non mi rappresento il futuro come uno scenario fosco quando non apocalittico. E tuttavia è vero che esiste una profonda dissociazione nell’attuale vita dell’homo sapiens tra il potentissimo apparato tecnologico di cui dispone, e la pochezza delle misure etiche, politiche e sociali per ordinarlo e farlo diventare effettiva risorsa per uno sviluppo armonico delle sue facoltà. Questo vale soprattutto per chi tale potenza se la trova rovesciata addosso tutta in una volta, in maniera quasi incontrollata, e cioè i ragazzi. Non v’è dubbio che questi hanno un’infinità di stimoli e di fonti conoscitive in più dei loro predecessori (non solo rispetto ai nati e cresciuti, come me, nell’epoca predigitale, ma anche a quelli di 5 o 10 anni più vecchi di loro), ma il problema è: cosa se ne fanno?