(semiserio sulla semiminaccia del semifascismo a venire)

Partiamo dai dati elettorali locali: nella mia ridente cittadina lombarda, che fa circa 14000 abitanti, sono andati a votare in 7400 degli 11000 aventi diritto, circa 2/3 (in linea con la media nazionale). Di questi poco più di 2000 hanno votato Fratelli d’Italia, un migliaio la Lega; alle Europee del 2019 la Lega prese da sola circa 3000 voti, e FdI 420: secondo me, a occhio e croce, son gli stessi elettori, centinaio più centinaio meno (anzi, parrebbe meno). Erano tutti già lì, e facevano parte del paesaggio socioantropologico paesano, quello che aveva introiettato lo slogan “prima gli italiani” (o prima la mia tribù, per semplificare).
3000 su 7400; 3000 su 11000 aventi diritto di voto – ma soprattutto 3000 su 14000. Poco più di 1/5 degli abitanti. Ovvero una netta minoranza. A me, al momento, non fanno nessuna paura, non danno particolari preoccupazioni (per lo meno non più di quelle che mi diedero 3 anni fa).
Certo, può sempre succedere che un “normale” cittadino subisca un’improvvisa mutazione e diventi un carnefice (è già successo in passato, lo sappiamo bene). Ma questo vale anche per gli altri 8000 (terrei fuori i bambini e i ragazzi, e, per il momento, gli adolescenti): nessuno può garantire che i candidati a diventare canaglie stiano tutti da una parte.

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Ismi

Enrico Letta parla di “emergenza democratica”, ma è un’espressione del tutto mal riposta se riferita a Giorgia Meloni (tra l’altro è specularmente lo stesso gioco utilizzato da Berlusconi a proposito del “pericolo comunista”). Niente di più falso, l’emergenza sta semmai da tutt’altra parte, e cioè nella totale impotenza della politica e dei governi che verranno nel fare o cambiare alcunché, materialmente, indipendentemente dal loro colore.
Chiunque vada al governo si troverà ingabbiato dagli -ismi nei quali ci siamo infilati da tempo: atlantismo, economicismo, produttivismo, scientismo, militarismo… E potrei continuare. Si tratta dell’ideologia-mondo alla quale abbiamo consegnato anche l’ultima cellula di psiche e di sovranità – e, direi, di costituzionalità. La Costituzione è stata svuotata dall’adesione acritica e pressoché automatica a tutte quelle gabbie e -ismi che appaiono ormai come irrinunciabili.
Ciò non vuol dire che occorra credere alla favola del “sovranismo” incondizionato: non esiste individuo, stato o comunità che sia del tutto autodeterminato e proprietario di se stesso. Ogni organismo – biologico o culturale – comparso sulla faccia della Terra dipende sempre e comunque da tutti gli altri.
Ciò non equivale però a rinunciare alla negoziazione della propria posizione nel mondo: e l’agire politico è – dovrebbe essere – proprio questa capacità di dialettizzare, confliggere, mediare e tessere relazioni e prospettare nuovi possibili intrecci. Soprattutto superare tutti quegli -ismi che perpetuano l’ingiustizia ed il privilegio. Ecco perché l’agire politico non è mai alienabile o delegabile in toto, pena la precipitazione in uno stadio subumano e superagito.
Se la politica non fa questo – se essa non è questo – diventa uno dei tanti -ismi: politicismo, tecnicismo, chiacchiericcio del tutto autoreferenziale e funzionale all’intoccabilità del sistema.
Questa è l’unica vera “emergenza democratica” che vedo.

Il grillo che c’è in me

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“Del resto non è difficile a vedersi come la nostra sia un’età di gestazione e di trapasso a una nuova era; lo spirito ha rotto i ponti col mondo del suo esserci e rappresentare, durato fino ad oggi; esso sta per calare tutto ciò nel passato e versa in un travagliato periodo di trasformazione. Invero lo spirito non si trova mai in condizione di quiete, preso com’è in un movimento sempre progressivo. Ma a quel modo che nella creatura, dopo lungo placido nutrimento, il primo respiro, – in un salto qualitativo, – interrompe quel lento processo di solo accrescimento quantitativo, e il bambino è nato; così, lo spirito che si forma matura lento e placido verso la sua nuova figura e dissolve brano a brano l’edificio del suo mondo precedente; lo sgretolamento che sta cominciando è avvertibile solo per sintomi sporadici: la fatuità e la noia che invadono ciò che ancor sussiste, l’indeterminato presentimento di un ignoto, sono segni forieri di un qualche cosa di diverso che è in marcia. Questo lento sbocconcellarsi che non alterava il profilo dell’intiero, viene interrotto dall’apparizione che, come un lampo, d’un colpo, mette innanzi la piena struttura del nuovo mondo”.

Potrebbe sembrare strano che per ragionare su quel che sta avvenendo in Italia a ridosso delle ultime burrascose elezioni politiche, si debba addirittura scomodare Hegel. Eppure non è casuale, dato che proprio della razionalità politica si tratta. Il celebre brano che ho trascritto sopra, tratto dalla Fenomenologia dello spirito, schizza per sommi capi quel che succede quando un mondo, un’istituzione od anche una costellazione di significati crollano, e ancora non se ne sono presentati altri con chiarezza all’orizzonte. Hegel rappresenta con linguaggio ed efficacia straordinari il senso di vertigine, di incertezza, persino di sacro terrore che accompagna tali processi.
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La Gazzetta (o la Gazzarra) di Diogene – nr. 22

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♦ “Ora l’inverno del nostro scontento…”. Senza estate, però.

♦ PD e PDL-Lega, due blocchi sociali sotto il 50%; il resto del paese è magma incandescente (e piuttosto liquido) o roccia inerte.

♦ PD ha vinto ma ha perso.
PDL-Lega hanno perso ma hanno vinto.
Monti & Co. ha perso e ha perso.
M5S ha vinto e ha vinto.

♦ Forse il governo meno mostruoso sarebbe PD-M5S, che, a leggere il programma grillino, sarebbe quasi una svolta bolscevica. Ma visto che i “compagni” si sono liquefatti…

♦ In effetti darei il voto ai sedicenni (anche per il Senato), e inviterei un po’ di vecchi a starsene a casa.

♦ Ed approfitterei dell’assenza del papa (e del caos elettorale pure in Vaticano) per eleggere Emma Bonino alla presidenza della repubblica.

♦ Scenario weimariano? Eccellente caos maoista? Mmmm: c’è sempre da temere l’Italietta grottesca.

♦ Eppure non ho affatto perso il mio buonumore. E l’aria frizzante di questa mattina di febbraio, addolcita dall’onirico flicorno della terza di Mahler nel mio orecchio gelato, ha uno strano sentore primaverile…

Liquida, anzi miasmica (con postilla sul papa e dichiarazione di voto)

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Alla fine di questo post (senza capo né coda, liquido esso stesso un po’ come la società e le categorie del sociologo Zygmunt Baumann), dichiarerò pure le mie intenzioni di voto al prossimo redde rationem del 24 febbraio – sempre che non si volatilizzino nel frattempo, confondendosi con i miasmi sociali, politici ed antropologici della nazione. Nazione incantata per una buona fetta, in queste incerte giornate di fine inverno, dal palco fiorito di una popolare manifestazione canora (una delle poche cose ancora solide, non affette da malefico relativismo). Insomma, sarà un post pseudodadaista.

Buttiamola subito in politica (anche se sarebbe meglio buttare la politica). Ma credo che in Italia non si possa più parlare di politica, quanto di cosche e consorterie che hanno messo le mani su ciò che è comune contendendoselo, e più spesso spartendoselo (non certo in misura eguale ed egualmente colpevole: troppo comodo berciare il ritornello da bar del “tanto sono tutti uguali”). Non è un’altra tangentopoli, quanto piuttosto il consolidamento di quel sistema e di quella crisi che non solo non ha trovato uno sbocco, ma si è fatta permanente. Tutte le uscite dalla politica (la cosiddetta antipolitica, peraltro politicissima ed ideologicissima) hanno paradossalmente consolidato il sistema: così è stato con il leghismo, poi con il berlusconismo, e c’è da temere che così avverrà anche per il grillismo.

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San Politico

«Che la politica sia inganno lo si sa da migliaia di anni: senz’altro da quando in Europa si è fatto avanti il cosiddetto “spirito critico”, cioè la filosofia. Il tiranno, antico o moderno, non dice di agire per il bene dei suoi sudditi, anche se crede e fa credere che essi andrebbero in rovina se lui non ci fosse. Il politico democratico del nostro tempo (il politico della democrazia “procedurale”), invece, lo dice: deve dire che i propri progetti hanno come scopo il bene della comunità (e che sono i più idonei a realizzarlo); altrimenti gli elettori non lo voterebbero. Se il suo scopo primario fosse effettivamente il “bene comune”, nel senso che egli subordina e sacrifica al “bene comune” il vantaggio personale che egli potrebbe conseguire per il proprio maggior potere, allora egli sarebbe un santo».

(E. Severino, Capitalismo senza futuro, cap. 6)

 

Si par hasard

Canticchio da qualche tempo una certa canzone di Georges Brassens. A ricordarci ogni tanto che siamo schiacciati tra terra e cielo, e che per quanto ci eleviamo siamo destinati, prima o poi, a precipitare. E a finire inesorabilmente sotto due metri di terreno. O a rivolare con lo stesso vento che ci ha portato da queste parti, cenere alla cenere.
Ma le parole di Brassens son più precise e ficcanti, soprattutto meno roboanti. E disegnano la scena con gusto divertito e un po’ spaccone. Preferisco quindi, meno esistenzialisticamente e più anarchicamente, sbatterle sul muso di chi si crede chissacchì, dei palloni gonfiati, delle gran dame altezzose, dei probi che stanno sulla cresta dell’onda – dei fâcheux, dei seccatori, degli stronzi e dei rompicoglioni. Poiché il vento se ne frega dei loro orpelli e della loro boria – è lui il vero borioso, e mentre fa volare gonne e cappelli, soffia forte in faccia ai potenti (anche quelli di piccolo calibro, che talvolta sono i peggiori) i suoi sberleffi. Perché lui è veramente maraud. Briccone, imprevedibile, marrano.
E allora c’è da augurarsi che il medesimo vento soffi forte in questi giorni sulle terre di Francia, e di riflesso sull’Europa, fino a lambire il nostro stanco 25 aprile.  E che furibondo si metta ad arruffare alberi, depredare tetti, sollevar vestiti. E allora sì che ce la rideremo di gusto: e io trovo – come canta il poeta francese – che sia semplicemente giusto.

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Le pudenda del re e gli umori elettorali

Pur astenendomi da ogni pronostico sull’esito della prossima tornata elettorale, non posso non registrare un certo cambiamento umorale nel corpo sociale (ammesso che questo sia riducibile al “corpo elettorale”). Non si tratta ancora della svolta definitiva, né di quella scossa che ci libererà una volta per tutte dal berlusconismo (che può peraltro sopravvivere benissimo al suo autore, così come era sorto già prima del suo avvento al potere). Ma certo qualcosa si è irreversibilmente incrinato.
Ho usato il termine “umorale” non a caso, poiché non si intravvedono ancora esiti politici (per lo meno nelle forme tradizionali) dell’attuale crisi – una crisi ormai pluridecennale che si è innestata alla crisi epocale della rappresentanza e della forma politica – né si è costituita all’orizzonte un’alternativa chiara e decente (e non mi sogno di parlare di “progetti di lungo periodo”); limitarsi d’altro canto a sostenere che qualsiasi cosa sia meglio dell’attuale governo (il peggiore da Mussolini in poi), non mi pare sia una risposta seria. Né la pasticciatissima politica del Pd, né i movimenti più virtuali che reali da Grillo al popolo viola, e nemmeno ancora una faticosa ricostruzione a sinistra dei cocci di un ventennio di disfacimento, sono all’altezza dei bisogni urgenti di questo derelitto paese: un programma di rifondazione di se stesso e del suo senso collettivo, che richiedono ben altro. Ma altro, per ora, non c’è. E di ben, manco a parlarne. Forse, però, un colpo d’arresto al processo di decomposizione è arrivato. E lo si vede, appunto, dagli umori elettorali.

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Se Milano

Se non fosse diventata la capitale immorale d’Italia.
Se non fosse diventata la città più triste d’Italia.
Se la sua illuminata borghesia non si fosse rivelata come la più ottusa e oscena delle borghesie.
Se il suo proletariato di ieri – un tempo progressivo – non si fosse fritto il cervello.
Se il suo vero proletariato di oggi – caotico e multilingue – non fosse escluso dalla cittadinanza e dal voto.
Se non fosse diventata la città della ferocia anti-rom.
Se non fosse antropologicamente diversa.
Se la ‘Ndrangheta non l’avesse ghermita come un cancro alla gola.
Se la Compagnia delle Opere non l’avesse ghermita come un cancro alla gola.
(chissà quale delle due è peggio, e chissà che non sia un unico male)
Se l’Unico Vero Cancro e Valore – i dané – non l’avesse devastata con le sue metastasi.
Se la sinistra non avesse smesso di fare la sinistra.
(e se anch’io, che mi ritengo di sinistra, non mi fossi ritirato in campagna)
Se la Milano da bere, la Milano da pippare, la Milano modaiola, la Milano creativa (di cazzate) non fosse diventata l’unica Milano.
Se i poveri bimbi di Milano non fossero così soli (e così pochi).
Se avesse ancora un senso, urbanistico architettonico estetico, e non fosse diventata una città senza capo né coda, senz’anima, pronta a farsi divorare dal lucroso affaire dell’Expo.
E se…
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