“La morte, stratagemma per ottenere molta vita”

XAM66129 Death and Life, c.1911 (oil on canvas) by Klimt, Gustav (1862-1918); 177.8×198.1 cm; Private Collection; Austrian, out of copyright

(traccia dell’incontro del Gruppo di discussione filosofica del 13 dicembre 2021)

Ci sono due modi fondamentali di considerare la morte: diciamo, per semplificare, uno oggettivo ed uno soggettivo. Il primo guarda la morte da lontano, come un fenomeno naturale, nel suo intreccio necessario con la vita e con il variare delle sue forme (ciò di cui ci siamo occupati la volta scorsa). È un guardare la morte come se non ci riguardasse: è una finzione consentita proprio dalla nostra facoltà cognitiva, dalla capacità di astrarre. Anche dal modo di funzionare della coscienza, dalla sua capacità di duplicazione – di scindere se stessa dal mondo, io dal non-io. In verità è un atteggiamento tipico della filosofia, ereditato poi dalla scienza nell’epoca moderna. Vedremo stasera come la filosofia degli inizi, in particolare quella dei presocratici, si occupò della morte in questi termini, come un elemento dialettico del divenire e dei processi naturali.
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Possibile che sia tutto qua?

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I nuovi bambini-philosophes con cui lavoro quest’anno hanno finalmente rotto il ghiaccio – però l’hanno fatto solo al quarto incontro, ieri mattina. Prima stavano evidentemente prendendo le misure. Poi è stato come un fiume in piena.
Non mi era infatti ancora capitato di partire dalla cosmologia di Empedocle e di arrivare alla questione spinosissima dell’aborto (tirata fuori da loro, lungi da me il solo pensarlo), passando per alcune domande tostissime sull’identità: quando dico “io” cosa sto dicendo/indicando? l’anima o il corpo? e che cos’è l’anima, dove si situa? nel pensiero, nel “cuore”… dove? ma esiste davvero?
Ecco perché amo filosofare con i bambini: tu puoi prepararti tutti gli schemi che vuoi, ma poi loro te li fanno a pezzi – magari utilizzando altri schemi, che di per sé sono sempre poco originali, anche perché quasi sempre indotti – però è il loro modo di usare ogni schema, ogni concetto, ogni parola a fare la differenza: un bambino, prima di diventare un fottuto adulto, è per sua natura creativo, innovativo, poietico. E lo è in maniera sorgiva, archetipica.
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“Tu guardala con la mente, e non lasciarti sbigottire dagli occhi”

Bisogna ascoltarli i primi filosofi – quei presocratici che forse erano più sapienti di quanto non fossero amanti (ed anelanti) di sapienza. Ancora oggi le loro parole – e le loro teorie fisiche un po’ strane per la nostra mentalità scientifica (che pure è intrisa fino al midollo dei loro concetti e del loro linguaggio) – quelle parole risuonano forti e chiare. E ci avvertono che nonostante la natura ami nascondersi, occorre un’ampiezza dello sguardo e una capacità di penetrazione fuori del comune per poter vivere in essa e convivere con essa. Le nostre società ultratecnologiche ed onnipotenti hanno imparato solo una parte della lezione. E tendono, sempre più, ad avere lo sguardo corto e  miope, ed anzi rivolto ormai quasi solo al proprio ombelico.
Empedocle è alla ricerca forsennata di questo sguardo lungo ed ampio, che si rivolge tutt’attorno alle cose, dentro le cose, fin dentro se stessi – fino a ricomprendere quello stesso sguardo che guarda se stesso. E ci parla di una natura quantomai irrequieta, che si svolge muta ed indifferente sotto quello sguardo (come già succedeva per Anassimandro, ed ancor più per Eraclito):
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Introduzione alla filosofia – 1. Gli inizi

(Pubblico qui, a beneficio dei miei “allievi”, la prima delle tracce del corso propedeutico alla filosofia che sto tenendo presso la biblioteca di Rescaldina. È un ciclo di sei lezioni – dunque la programmatica impossibilità di trattare esaurientemente uno qualsiasi dei pensatori, concetti o problemi della storia della filosofia. Diciamo che si tratta di un “aperitivo filosofico” per palati a digiuno, ma affamati e motivati dal desiderio di conoscere. Magari qualche lettore del blog, pur avendo ormai consumato parecchie cene, può trovarle utili o interessanti. Naturalmente saranno un po’ insapori e incolori, inevitabilmente “prosciugate” in favore della sintesi, oltre che prive del variegato gusto dell’oralità, delle digressioni, delle domande, del dialogo, dell’interazione tra le persone – insomma, più “lettera” che “spirito”).

***

1.
Di fronte al “mostro sacro”.
Già solo a sentir nominare la parola “filosofia”, si è portati a pensare a qualcosa di troppo difficile (se non incomprensibile), di astratto (se non astruso), lontano dalla realtà, per pochi, inutile…
C’è del vero, ma anche del falso in questi “luoghi comuni” (e così ci abituiamo fin da subito ad una delle specialità filosofiche: i paradossi!).
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Empedocle guerrafondaio ecologista

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Avevo già scritto a proposito delle cosmologie della guerra dei filosofi presocratici, in particolare in Anassimandro ed Eraclito. Ne avevo parlato qui e qui. Empedocle non fa eccezione.
Il filosofo-mago vissuto in Sicilia nel corso del V secolo a.C., viene di solito inquadrato nei manuali di storia della filosofia come “pluralista” e, secondo diversi interpreti, come colui che avrebbe fornito una sintesi risolutiva del grande conflitto ontologico apertosi tra e con Eraclito e Parmenide (naturalmente non è affatto così, Empedocle non ha risolto un bel niente, e magari non era sua intenzione nemmeno farlo).  Il suo sistema a due livelli sembrerebbe in effetti accogliere sia l’esigenza dei fisiologi e di Eraclito di garantire la diveniente molteplicità della physis, della natura e del mondo sensibile, sia quella parmenidea di un livello intangibile e incontrovertibile volto a garantire stabilità al mondo. I quattro elementi da una parte, il contrasto cosmologico di odio/amore dall’altro, sarebbero cioè in grado di spiegare la nascita, la morte e il divenire, non essendo essi a loro volta divenienti, né enti nati o destinati alla morte.  Partiamo dalle due forze cosmiche, motori del divenire.

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MEMORIA, IMMEMORIALITA’, POLEMOS: note a margine della “verità terribile” di Eraclito

“Sia come si vuole, sulle acque mosse dall’Oceano
prese a svelarsi la faccia umana; il mare apparve
lastricato di innumerevoli facce rivolte ai cieli;
facce imploranti, irose, disperate; facce che
emergevano a migliaia, a miriadi, a generazioni”.
(De Quincey, Confessioni di un mangiatore d’oppio)

Ciò che in genere più colpisce del discorso sulla guerra è quel tratto di “immemorialità” (e implicitamente di “naturalità”) che si tende ad attribuirle: c’è sempre stata… da che mondo è mondo… se ne ha da sempre memoria... – e dunque, necessariamente, non avrà fine a meno che non abbia fine il mondo. Si fa cioè di un elemento storico e determinato della storia umana – la guerra essendo violenza organizzata, tecnica, strumentale, politica, e non semplicemente il continuum biologico dell’aggressività e della lotta intraspecifica – un dato ontologico immodificabile. Esiste cioè, e precisamente nella tradizione filosofica occidentale, una vera e propria cosmologia e metafisica della guerra che va ancora meglio indagata.
I pensatori greci, e su tutti Eraclito, fanno del pòlemos un vero e proprio elemento fondativo-generativo degli enti e delle loro differenze. Al che la domanda da farsi è duplice: la guerra è davvero un modo necessario ed ineliminabile di funzionamento del cosmo? Da cui segue, se così fosse, il quesito circa una distinzione di vitale importanza, quella cioè tra guerra (distruttiva delle differenze) e conflitto (che oppone ma rispetta le differenze mettendole in movimento).
Per rispondere a queste domande, anzi per verificare preliminarmente che si tratti di domande fondate e ben poste, si deve innanzitutto riprendere in mano il testo di Eraclito, sforzandosi di penetrare quella aura misteriosa e sacrale che li pervade, quell’intrico di immagini allusive e talvolta oscure, e, insieme a tutto questo, l’ormai spessa stratificazione di interpretazioni che vi si sono addossate (già le diverse traduzioni sono a loro modo delle interpretazioni) – ma ciò non toglie che si debba provare oggi ad interrogare ancora quei frammenti, anche perché appare evidente come non ci si sia granché spostati da lì, come se ci fossimo incistati e bloccati sulla soglia di quel domandare originario.

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SICILIA FILOSOFICA

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La Sicilia ha un rapporto strettissimo con la filosofia fin dalle sue origini, e non poteva essere altrimenti visto che Grecia e Magna Grecia sono un unico mondo culturale e linguistico (una koiné, bellissima parola della lingua greca che indica ciò che viene condiviso, che è in comune). In particolare sono due i filosofi “siciliani” a spiccare: Empedocle e Gorgia, nati rispettivamente ad Agrigento e a Lentini.

Il primo fa parte della corrente cosiddetta “presocratica”, ed ha un posto di rilievo nella storia della filosofia per aver tentato di superare la grande diatriba teorica tra Eraclito (tutto si muove, scorre, diviene; tutto è polemos, conflitto) e Parmenide (l’unica verità possibile è l’essere, uno, stabile, immutabile). Empedocle, potremmo dire con un’espressione un po’ triviale, “salva capra e cavoli”: secondo lui esiste una dimensione di unità e stabilità (leggi ed elementi) in grado di garantire la molteplicità, il movimento e la rotazione delle cose. Universalmemente nota la sua teoria dei 4 elementi (l’acqua, il fuoco, l’aria, la terra: i principi o le “radici” materiali della realtà); meno noto il meccanismo che li regge: odio e amore, neikos e philìa, ciò che respinge e ciò che attrae gli elementi, ciò che li mette insieme (nascita) e che li dissolve (morte). Con questo 4 + 2 (che non è un’offerta dell’Esselunga), la realtà può insieme essere spiegata come stabile (gli elementi e la legge, l’arché, cioè il principio dei primi filosofi), salvandone nel contempo gli aspetti variabili e molteplici. Donde la teoria cosmologica con i suoi cicli di espansione e di contrazione. Bizzarra la morte di Empedocle, se è vero che si buttò platealmente nell’Etna (non poteva scegliere qualcosa di più tranquillo? ma forse il carattere “estremo” e insieme “barocco” dell’isola trova già qui una sua chiara anticipazione) – naturalmente di leggenda si tratta, tenuto poi conto che la sua figura veniva spesso associata alla magia e al misticismo.

Gorgia è meno “tradizionalista” di Empedocle e fa parte di quello straordinario movimento illuminista, contestatario e anche un po’ opportunista noto come “sofistica”. Sophistés a noi sembra un peggiorativo, in realtà è un migliorativo: significa “il più sapiente”, o anche “il più abile”. I sofisti erano dei chiacchieroni, avevano grandi doti oratorie (inventarono appunto la “retorica”, l’arte della persuasione) e per la prima volta insegnarono facendosi pagare. Del resto i rampolli della borghesia ateniese potevano permetterselo. Anche Socrate era un sofista, ma un po’ più quadrato e determinato, decisamente più pericoloso per l’etica corrente, tant’è che venne processato e mandato a morte. Ma stavamo parlando di Gorgia. Il succo della sua teoria sta in una famosissima triade di fronte alla quale o ci si rompe la testa o ci si mette a ridere. Egli sostiene infatti che:

1. Niente esiste

2. Se anche qualcosa esistesse non sarebbe conoscibile

3. E se anche fosse conoscibile non sarebbe comunicabile ad altri

Detto così sembra un gioco di parole filato dalla testa di un mentecatto. Invece, col cavolo! Gorgia è persona seria e di grande capacità argomentativa. D’altra parte sull’essere si erano già scervellati Parmenide e compagnia, e non è che fosse così semplice parlarne. Quando si evoca un concetto generale come quello di “essere”, ci si tira dietro tali e tante contraddizioni che forse è meglio lasciar perdere e dire che l’ “essere” è una chimera, non esiste: e infatti – sembra dire Gorgia – dov’è questo famoso “essere” se non nella mente bacata di qualche filosofo? Ma ciò che da lui viene più fustigato con determinazione è la pretesa umana di conoscerlo questo benedetto “essere” (conoscerlo nella sua totalità), e anche di pensare che il concetto che ne ho io sia condiviso e identico a quello che ne hanno gli altri. Una gran bella pretesa! Naturalmente, come già il suo contemporaneo Protagora, è la questione del relativismo e dello scetticismo ad essere posto per la prima volta con grande radicalità nella storia del pensiero. Gorgia si spinge anche più in là, tanto che potremmo considerarlo il primo nichilista. La verità non esiste, e se proprio se ne vuol parlare essa è poliedrica e risiede essenzialmente nel linguaggio, dunque attraverso il linguaggio può anche essere fatta fuori. Dico la verità e la contraddico, affermo la verità e la nego. Come in un circolo vizioso…

Dei viaggi politici di Platone a Siracusa, e della “vacanza” di Porfirio per guarire dalla depressione ho già detto. Bisognerebbe poi parlare di Archimede di Siracusa, e di altri pensatori cosiddetti “minori”… chissà, magari in un’altra occasione.

Adesso è ora di partire: la Sicilia filosofica, laggiù, mi attende.

(Immagine da http://mrnemo.splinder.com/archive/2006-12)