Il biopunto in 11 punti: il virus come iper-oggetto

[Sommario: Il peso dell’incompreso – La forma del virus – Iperoggetti – Le tesi biopolitiche di Foucault – Masse biologiche e masse psichiche – Corpi sani, corpi potenziati – Homme-machine – Riduzionismo: ta stoicheia – Limite, Hybris, Aidos – Meccanizzazione  e addomesticamento – Pesantezza della tecnica – Bioetica ristretta e Bioetica generale – In bilico]

1. Non avrei voluto scrivere più nulla sul virus e sulla pandemia, almeno per qualche tempo, dato che già lo sento come un peso che grava quotidianamente, ma l’impulso a riflettere, pensare, scrivere, e così facendo liberarsi dei pesi dell’incompreso (o almeno provarci) non è controllabile, viene e basta, e occorre obbedirgli. E poi il primo anniversario poteva anche essere un’occasione buona per fare il punto sulla situazione. Cosa che risulta non meno problematica oggi di un anno fa, quando marciavamo verso l’ignoto, mentre ora ci viene detto che si sta per uscire dal tunnel e che l’immunizzazione arrecata dai vaccini sarà la luce che ci salverà.
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Epoché

Non è particolarmente originale questo trattatello antropologico-pandemico, scritto a tre mani da Aime, Favole, Remotti. Del resto il suo intento è divulgativo con una forte caratura etica, più un’esortazione che un’analisi puntuale, con molte citazioni e divagazioni – dalla letteratura etnologica a Greta Thunberg, da Latouche a Gosh, dalla Bibbia a Kopenawa.
Leggendolo un po’ di corsa mi sono chiesto se nei comitati scientifici anti-covid siano stati chiamati degli antropologi: credo che qualcosa da dire l’avrebbero anche loro.
I 3 autori si concentrano su 3 questioni essenziali:
1. La categoria di limite: tutte le culture hanno sempre avuto dei riti di “autosospensione”, siano essi autoimposti o indotti da traumi (persino Dio al settimo giorno si riposò).
2. Un’etnografia del confinamento: tutti i termini delle relazioni intraumane raggruppati sotto i concetti di esotico, frontiera, capro espiatorio, rito, prossemica, nel corso della pandemia sono slittati, quando non si sono rovesciati. “Straniero” ora sei anche tu che stai nella fortezza, non solo l’Altro che bussava alla tua porta.
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JJR 7 – Rousseau segreto, minore, svagato

“Mai ho pensato tanto, esistito tanto, vissuto tanto
mai sono stato tanto me stesso […]
come nei viaggi che ho fatto solo e a piedi.
La marcia è qualche cosa che anima e ravviva le mie idee:
non posso quasi pensare quando sono fermo,
il mio corpo deve essere in moto
perché vi metta il mio spirito”.

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Concludo l’anno roussoiano (il 300° dalla nascita, che in Italia è passato senza che quasi nessuno se ne accorgesse), con qualche nota sparsa sul Rousseau meno noto, soprattutto quello né politico né antropologico.

1. Vorrei però partire da quella che potrebbe essere considerata quasi la fondazione di un mito. Ad ulteriore conferma del fatto che Rousseau (anche se l’Europa non se lo fila) è massimamente presente nella fibra della sua sensibilità, qualche giorno fa leggevo una recensione sull’ultimo libro del filosofo tedesco Peter Sloterdijk (quello della ragion cinica e della teoria antropologico-ontologica delle sfere), intitolato Stress e libertà, dove inevitabilmente saltava fuori proprio Rousseau. Il filosofo cioè che più di ogni altro ha associato il filosofare all’andare, all’uscire dalla società stressata (per guardarla da fuori) e forse ancor più allo svagare la mente: le sue Rêveries, passeggiate (o fantasticherie) solitarie, scritte in punto di morte (1777-8, tanto che l’ultima viene interrotta), sono un vero e proprio manifesto del diritto alla spensieratezza, e stanno lì a dimostrarlo.
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Tessiture epocali e capocchie di spillo

(si tratta di un post che riprende molte delle cose già dette e discusse sull’annosissima questione ontologica – dunque non è un numero 2, che segue all’amore spinozista, ma un numero ‘n’; apparirà pertanto un po’ involuto ed ellittico agli occhi di chi quelle discussioni e quelle riflessioni non ha seguito; e poi non ho voluto tirarla troppo per le lunghe; l’essere – non la mia capocchia di spillo – si scusa per l’eventuale disagio mentale)

Vorrei provare a ragionare sulla tessitura degli enti (cose, fatti, eventi) a partire dalla base ineffabile dell’essere: ciò che potremmo intendere come nuove relazioni e nuovi intrecci – trame impreviste ed imprevedibili nella loro totalità dalla mente temporale (e qui bisognerebbe riflettere sulla inaggirabile conformazione temporale della sfera umana, nonché su quello che Heidegger chiama Dasein, esserci – ma dopotutto su Heidegger e sulle sue gettatezze e deiezioni possiamo anche soprassedere).
Il non-essere è (e qui mi dovrei fermare, perché come fa il non-essere a essere qualcosa?) – dicevo, il non-essere è a ben vedere questo non-ancora emerso dal mondo relazionale, dagli incroci contingenti dei modi e delle forme dell’essere. Noi possiamo fingere che ci sia un punto di vista assoluto: chiamiamolo occhio di Dio (ne abbiamo evidentemente facoltà), un ente immaginario che sappia prevedere quelle trame (o che addirittura le abbia già tutte scritte), e che può anche prendere le sembianze dei tradizionali concetti di fato o destino, che poi in ambito logico denominiamo necessità. Laddove quella trama che sorge – l’incessante e multiforme tessitura dell’essere – proprio in quanto sorgente e fluente è dominata dal regno della possibilità.

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Straniamento

Ma ciò di cui il filosofo si meraviglia
non è lo straordinario, bensì l’abituale
.
(R. Ferber)

Periodicamente occorre tornare alle radici della filosofia. Per lo meno, io sento questa esigenza. Ma credo si tratti di una necessità teoretica, più che di un vezzo soggettivo. A rigore, bisognerebbe farlo ogni volta che si filosofa, ma anche filosofare segue un suo trantran (parola detestabile, che però rende bene l’idea), e pure l’attività noetica più rarefatta può precipitare nella piatta routine della quotidianità e delle sue abitudinarie ricorrenze. E in effetti non è che tutte le volte che si apre un testo, o si scrive o pensa qualcosa, oppure si critica, si discute, si fa lezione e quant’altro, ci si può permettere il lusso di fermarsi, quasi bloccarsi di colpo e chiedersi – ma perché lo sto facendo? che cosa sta alla base di questa mia attività?  Sarebbe un po’ come voler arrestare la vita che fluisce chiedendosi di continuo che cosa essa sia e perché fluisca: che vita sarebbe in tal caso?
Eppure la filosofia, sempre a rigore, funziona esattamente così e, contrariamente alla vita, si arresta e chiede conto di ciò che essa è. Il problema, non piccolo, è che l’interlocutore a cui chieder conto non sta da nessuna parte, o meglio, non può essere altri che se stessa: insomma è il medesimo soggetto che fa le domande e che si dà le risposte, voce nella notte cui solo la sua eco può rispondere. Se lo si potesse chiedere a qualcun altro, questo dovrebbe mettersi a filosofare, e chiedersi perché lo fa, e così via all’infinito.

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