Immensa dispensatrice di gioia

Philadelphia_Orchestra_at_American_premiere_of_Mahler's_8th_Symphony_(1916)

Ho realizzato un sogno ormai ventennale lo scorso 23 novembre, quando finalmente ho potuto ascoltare dal vivo per la prima volta l’Ottava sinfonia di Mahler – l’unica che mi mancava, la più complicata da intercettare (non solo in Italia), dato l’organico immenso che richiede.
I mahleriani sanno bene che si tratta di un vero e proprio monstrum della storia musicale e sinfonica, passato alla storia come “sinfonia dei Mille” (l’idea venne all’impresario che ne organizzò a Monaco la prima esecuzione, il 12 settembre 1910, con direzione dello stesso Mahler, il quale si trovò di fronte oltre mille tra musicisti e cantanti e qualcosa come 3000 persone nel pubblico, tra cui parecchi celebri musicisti dell’epoca, scrittori del calibro di Thomas Mann, principi, ministri e compagnia cantante – è proprio il caso di dirlo).
Al centro congressi del MiCo, nell’area della vecchia fiera di Milano, erano 570 e a dirigere c’era Riccardo Chailly: un evento memorabile che difficilmente si ripeterà nello stesso decennio (l’Ottava mancava da Milano da ben 27 anni).

[Rileggendo quel che ho scritto finora mi rendo conto che è il parossismo il filo conduttore: è troppo, eccessivo, eccezionale, oltremisura, esagerato… qualcosa che le parole non riescono nemmeno a contenere; oppure, viceversa, che alimenta il loro stesso carattere retorico e parossistico, quasi che siano loro a prendere il volo e a gonfiarsi più del dovuto].

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Secondo lunedì: éros e agàpe

Amore-e-psiche-Canova

[Quella che segue è la traccia del mio intervento al Gruppo di discussione filosofica tenutosi lo scorso lunedì 18 novembre, cui è seguito il contributo dell’amico e teologo Marco Paleari. Che ci ha consegnato una visione tutt’altro che eterea dell’amore cristiano – éros come un uscire da sé e andare verso l’altro – che affonda le proprie radici in una complessa tradizione religiosa e spirituale non riducibile a quella occidentale o al cattolicesimo, con interessanti riferimenti all’arte, all’iconografia, al misticismo e ad un pensiero teologico più propenso ad indicare che a prescrivere, decisamente più comprensivo che moraleggiante. È stata una serata ricca di spunti, con una partecipazione davvero straordinaria – fin nel numero di presenze, che ha superato le 30 persone, ma che ha scontato l’ovvio limite dell’ampiezza del tema e della pochezza del tempo a disposizione: troppa carne al fuoco, insomma, anche se preferirei un’altra metafora, visto il mio vegetarianesimo…]

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Cominciamo dalle parole e dai loro significati originari. Ne metto in gioco tre, tutte della lingua greca:

érosphilìaagàpe

(in verità quest’ultima è pochissimo usata, ed entrerà nel vocabolario religioso quando si tratterà di tradurre in lingua greca il concetto dell’amore di Dio nei confronti degli uomini).
Questo il significato delle due parole più utilizzate:
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Catalogo delle passioni – Necrobiofilia

Deviando dalla lucreziana lezione sulla lontananza contemplativa del dolore altrui (e forse anche dalla precisazione che non per sadismo ma per scampato pericolo tale distanza di sicurezza ci allieta, e dunque per un istinto vitale), vorrei brevemente addentrarmi nelle torbide acque del lato oscuro di certi nostri umanissimi comportamenti, tutt’altro che lontani e ben più che contemplativi, direi anzi al limite del più turpe voyeurismo. Situazione invero paradossale di questa che è la bioepoca per eccellenza, che vede da una parte una grave rimozione della morte, e dall’altra un suo ripresentarsi negli aspetti più morbosi, in forma appunto di necrofilia – tanto che vien da pensare che è proprio lo squilibrio tra bios e thànatos a tener banco.
Pietro Citati dice a proposito di Leopardi, che “pensare – anche le cose più terribili – gli dava gioia”; ora non credo che questa immersione nella mota delle passioni più inconfessabili possa procurare molta letizia in me o in chi leggerà, ma a) è necessario farlo e b) di gioia teoretica semmai si tratta, più mentale che corporea, al limite dell’impalpabilità, e piuttosto illusoria (l’illusione, cioè, di poter controllare proprio la fonte di tutte le passioni, anche di quelle più basse ed istintive). Certo un conto è discettarne, un altro è sentirne direttamente gli effetti – sulle carni o nella psiche – così come altro conto ancora è assistere morbosamente ai loro effetti sugli altri, cosa di cui la cronaca nerissima da cui siamo invasi ci informa (e per lo più deforma) ogni giorno. Lucrezio uscito dalla porta rientra così dalla finestra, puntando il dito proprio sulla spettacolarizzazione macabra del dolore e della morte.
Naturalmente non possiamo che cominciare con il riferirci a Spinoza, com’è ormai tradizione per il nostro compilando catalogo degli affetti umani…

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Twilight, fiaba filosofico-reazionaria

“L’aspirazione all’immortalità personale
altro non è se non una ripresentazione
della massima Begierde animale,
quella dell’autoconservazione“.
(Luciano Parinetto a proposito di Schiller)

Naturalmente bisognerebbe prima intendersi per lo meno su due termini: fiaba e reazionario (tralasciando il terzo, che forse è un po’ abusivo in questo caso, ma pure cercherò di spiegarne la presenza). Mettiamola così, senza troppe complicazioni: fiaba – secondo Propp, Bettelheim, ecc. – è all’ingrosso quella struttura narrativa e simbolica diffusa in tutte le culture che mette in scena i conflitti esistenziali di base (bene/male, vita/morte, paura, felicità) secondo uno schema dialettico più o meno ricorrente e ripetitivo. Storie orali semplici da mandare a memoria, adatte anche ai bambini. Cappuccetto Rosso ne è l’incarnazione archetipica perfetta, direi. Mentre la reazione è – appunto – una reazione allo scardinamento della fissità, delle tradizioni, del consolidato: un fissarsi su valori (più o meno apparenti) che si presume vengano messi in discussione. E un movimento di ritorno e di ripristino.
Ed ora veniamo alla grande saga del crepuscolo che tanto sta facendo impazzire gli adolescenti di mezzo mondo (ma non solo, tanto per tornare a quel che si diceva qualche post fa). Gli ingredienti di cui sopra ci sono tutti: la bella e la bestia (oltretutto la protagonista si chiama Bella, da Isabella), il conflitto tra bene e male, l’amore e la morte, il tutto amplificato dalla figura terrifica del vampiro, che non comincio nemmeno ad analizzare (il sangue, la soglia vita/morte, la notte, la metamorfosi, l’eros, ecc.). Continua a leggere “Twilight, fiaba filosofico-reazionaria”