Leggerezza

La “leggerezza” di cui parla il nostro primo concittadino ammesso ad usufruire del diritto – sancito dalla Corte costituzionale, ma non da un pavido Parlamento – di suicidio assisitito, non è certo una forma di leggerezza “leggera” o frivola. Ed anche la leggerezza che sento io, insieme a molte altre persone – e che in teoria dovrebbero sentire tutti – è una leggerezza pensosa. Come quella di cui parlava Calvino.
È piuttosto la liberazione da un vicolo cieco nel quale la società ipertecnologica e medicalizzata, che pure ci allunga la vita, ci fa talvolta finire. Perché occorrerà pur decidere qual è il confine tra corpi e macchine – o tra coscienza e tecnica. E se ciò che un tempo si diceva “naturale” sia definitivamente sussunto sotto la specie “culturale”.
So anche che esistono cose e casi indecidibili in etica – com’è possibile decidere una buona morte per qualcuno che non può nemmeno comunicarci la sua intenzione? La stessa autodeterminazione e sacrosanta indisponibilità a delegare ad altri (medici, stato, preti) il proprio destino biologico, non può non tener conto della rete sociale, amicale, affettiva nel quale si è da sempre implicati. La vita è appiccicosa, ma la morte è quanto di più solitario ci sia.
Ma per tornare alla leggerezza: c’è nella morte una sorta di “leggiadria del disfacimento”, per usare una modalità espressiva tipica di Lucrezio, che dovrebbe stornare dai nostri occhi il terrore, e lasciarci sereni e sazi di giorni. Pietosi verso l’altro che muore, che anticipa la nostra stessa morte.

La soglia

Allüberal und ewig
blauen licht die Fernen!
Ewig… ewig…

[Ho scritto buona parte di queste note – note finali su un plotiniano inconsapevole asceso alle azzurre trasparenze mahleriane – domenica 28 maggio, durante il viaggio in treno – l’ultimo viaggio – che mi portava al feretro di mio padre nella sua e nella mia terra. Ma i pensieri che in quelle dolenti ore mi sovvenivano alla mente erano più in generale il frutto di anni di rielaborazione del rapporto con lui e, soprattutto, della sua (e della mia) crescente consapevolezza del declino dell’esistenza, dell’apoptosi di ogni essere e della sua ineluttabilità]

L’ultima immagine che voglio ricordare di mio padre – che rappresenta quest’ultimo tratto del suo viaggio sulla terra e che insieme mi addolora e mi fa tenerezza fino allo struggimento – è il vederlo andare sulle sue gambe incerte verso la sala operatoria (a questo punto, e a posteriori, il suo patibolo) dove gli avrebbero asportato la laringe, insieme alla voce (e a un pezzo d’anima). Era la mattina del 6 marzo di quest’anno. Le volte successive che l’ho visto – quasi sempre allettato, sofferente e implorante a gesti la morte, fin dal suo risveglio nella sala di rianimazione del Policlinico di Messina – le vorrei rimuovere dalla mia memoria. Tutte quante. E siccome mi è stata risparmiata l’agonia degli ultimi giorni (e ringrazio gli dèi che sia stata breve) – per me lui è ancora lì, incerto e malfermo sulla soglia, che dirige smarrito lo sguardo verso di me, che accanto a mia madre cerco di rassicurarlo, e poi va dritto verso il suo destino.

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(Onni)potenza medica

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Abbiamo un problema con la medicina. Che è poi il medesimo problema che abbiamo con la tecnica, ovvero un crescente delirio di onnipotenza (ed una corrispettiva sensazione di impotenza)
Non è qui in discussione che la medicina di tipo organicistico-positivistico abbia conseguito enormi successi. Per lo meno sul piano quantitativo (l’ambito qualitativo è un’altra faccenda): antibiotici e vaccini hanno condotto un’immensa guerra batteriologica dell’umanità contro il resto del mondo, mai vinta del tutto ma sicuramente efficace (non saremmo altrimenti sette miliardi, quasi otto). La chirurgia ha plasmato e riplasmato i corpi. Siamo ormai sulla soglia del corpo ibrido, biomeccanico.
Tuttavia, proprio questo indiscutibile successo ha finito per far montare la testa al potere medico (e farmaceutico): ospedalizzazione, medicalizzazione e farmacologizzazione integrale degli umani non bastano più, ora si entra anche nel territorio liminale di vita e morte.
Già in passato ho discusso di eutanasia, su questo stesso blog, a partire dalle riflessioni di Hans Jonas – che proprio del rapporto tra etica e medicina si è molto occupato. È un argomento su cui occorre essere molto cauti, ma avevo concluso (cosa di cui sono ancora convinto) che è di esclusiva pertinenza del soggetto vivente/morente decidere sui limiti della propria vita/morte: la sfera della sua autodeterminazione non può mai essere violata, e soprattutto non deve esserlo in nessun caso dal potere medico. I medici indagano, diagnosticano, curano – ma è il “malato” a dover decidere su di sé, e deve poterlo fare quando è in grado di intendere e di volere (espressione di volontà che, ovviamente, può presentare problemi, motivo per cui è necessaria più che mai una legge che regolamenti tali volontà, in forma di “testamento biologico” o altro).
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Amour

Credo si tratti di uno dei film più devastanti che abbia mai visto. E ho scelto il termine “devastante” non tanto perché è piuttosto in voga – usato com’è spesso a sproposito, sull’onda della spettacolarizzazione televisiva – ma in un’accezione che, pur figurata o traslata in ambito letterario, possiede una sua precisione descrittiva: sconvolta l’anima di chi assiste alla storia, svuotati gli occhi per la visione di quei volti e di quei corpi, che sono a loro volta deturpati da quel che sta loro inevitabilmente accadendo. Forse la mia devastazione è stata accresciuta dal fatto che: 1) sto assistendo all’inesorabile declino dei miei genitori; 2) sto invecchiando io stesso; 3) da anni, anche su questo blog, vado con voi meditando dolorosamente su vita e morte, etica e bioetica, e sul senso profondo di tutto questo. E siccome sempre più mi si affaccia alla mente che tutto questo è parecchio insensato – vorremmo tanto che non lo fosse, come dice in un verso Wislawa Szymborska, che preferirebbe “la possibilità / che l’essere abbia una sua ragione”, ma siamo pur sempre noi a volerlo – la devastazione raggiunge livelli al limite della sopportazione.
E non c’è pietas, non c’è compassione, non c’è scampo né salvezza – nulla c’è che possa anche solo addolcire o smussare o far dimenticare l’effetto di quella inarrestabile opera distruttiva che Georges e Anne – i due anziani protagonisti della storia, interpretata a livelli ineguagliabili da Riva e Trintignant – subiscono impotenti.
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Zingari del cosmo

Qualche tempo fa mi ponevo alcune domande circa la possibilità di una razionalizzazione di quel fenomeno sfuggente e talvolta insondabile che è il suicidio. E scrivevo:

“Chi si suicida che cosa effettivamente fa, che cosa revoca in dubbio, da che cosa si distacca davvero?
Il suicidio non è una morte come un’altra (naturale o spirituale che sia), cioè il succedersi biologico o culturale di un ordine, la sua incessante riaffermazione, l’andarsene ordinatamente di una cellula o di una tessera del mosaico per lasciare il posto alla seguente. Vuole essere semmai la rottura di quell’ordine, la ridiscesa nel caos o, specularmente, la denuncia dell’illusione dell’esistenza di un cosmo, di un ordine, di un senso”.

Ciò che, ad esempio, si è creduto per una vita – la possibilità di trasformare il mondo conferendogli un ordine più giusto, facendolo in vitale compagnia d’altri, magari con un forte senso degli affetti, dell’amicizia e della comunità – tutto ciò si infrange ai confini di un territorio che non avevamo previsto. Ci si ritrova non soltanto soli, ma esseri vaganti in un cosmo di cui non comprendiamo più il significato.
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Frammenti monicelliani

Chiedi quale sia la strada per la libertà?
Una qualsiasi vena nel tuo corpo

(Seneca)

Un gesto secco. Silenzioso e però assordante. Insieme un “mi sottraggo a questo stillicidio” e un “andate tutti affanculo”. Tragicomico?

Amarezza. La parola che Davide mi manda a dire dalla Roma degli studenti in piazza senza che io gli abbia risposto. È forse anche un po’ colpa di Mario. Sua, non mia.

Riso amaro. Commedianti della vita, che arrancano come sempre, come tutti. Ridicolmente piccoli, perché si sentono pacchianamente al centro del mondo. Grillocentrici.

Rappresentare la comédie humaine non è facile. Lui l’ha saputo fare. Anche gettarsi da una finestra è comédie humaine. Profondamente humaine.

Speranza: parola da abolire, invenzione dei padroni. Un po’ come dire state bboni! Incazzatevi davvero o andate in malora!

Insondabilità del gesto, si suol dire. Rispetto per chi sceglie di farsi fuori – a 15 come a 95. Anche se la seconda evenienza è un po’ più digeribile. Su tutto, il composto sudario della pietas.

Ma quale eutanasia! Sempre a disseminare cazzate ideologiche a spanne e a piene mani. Buona vita, buona morte. Parole-involucri da lasciar seccare.

E allora, me la fate o no ‘sta rivoluzione? Forza armatevi, voi nuovi Brancaleone!

Aforisma 13

L’eutanasia non è riducibile a mera questione tecnico-morale. Il suo vero concetto è una buona fine di una buona vita – qualcosa come un circolo sensato. Non è concetto giuridico, né concetto etico. E’ posizione filosofica, parte di una concezione cosmologica, puro panteismo. Meglio ancora pura ontologia. Non è però concepibile né decidibile se non è chiaro cosa si intenda per “bene”, “vita”, “cosmo”, “essere”. Dunque non è decidibile.

INDISPONIBILE

Io sottoscritto Domina Mario,
nel pieno delle mie facoltà mentali, e allo scopo di salvaguardare la dignità e l’integrità della mia persona, intendo con questo documento disporre quanto segue circa il compimento della mia vita:

1. In caso di stato irreversibile di incoscienza che mi impedisca di prendere decisioni, dispongo di interrompere ogni terapia medica e di non utilizzare alcun dispositivo artificiale, destinati al mero prolungamento della mia vita vegetativa;
2. Chiedo che, in caso di malattie terminali, vengano intrapresi tutti i provvedimenti atti ad alleviare le mie sofferenze, compresi i farmaci oppiacei, anche qualora ciò significasse un’anticipazione della mia morte;
3. Non intendo usufruire di nessuna assistenza religiosa, né in vita né dopo la morte;
4. Il mio corpo potrà essere donato per trapianti e utilizzato per scopi scientifici;
5. Voglio essere cremato;
6. Chiedo che le mie ceneri vengano portate nella mia Sicilia e disperse in uno qualunque dei luoghi cui ero legato;
7. Non voglio nessun tipo di funerale, né religioso né civile. Se qualcuno mi vorrà ricordare potrà farlo a suo piacimento, magari con una bella festa in cui ci siano vino, musica e poesia.

***

Questo il testo che ho redatto e sottoscritto il 31 dicembre scorso, e consegnato a due persone di fiducia che garantiranno per l’esecuzione delle mie volontà.

La mia coscienza e il mio corpo, che sono tutt’uno e dei quali non sono certo “padrone e signore”, e che però sono, fino a prova contraria, sottoposti alla mia volontà, sono insieme ciò che costituisce la mia specifica quanto provvisoria e diveniente individualità e singolarità: ritengo questi confini invalicabili, e quindi del tutto indisponibili per gli ideologi della vita, i difensori dei sacri e inviolabili diritti della “persona”, quegli stessi sepolcri imbiancati amici dei negazionisti e dei guerrafondai, misogini, omofobi,  difensori dei preti pedofili e aguzzini, da sempre massacratori di streghe, inquisitori, colonizzatori… Non voglio che questa marmaglia metta su di me le sue sudicie mani, né ora né mai!

BIOETICA: 4 PUNTI IRRINUNCIABILI

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Avevo già scritto in alcuni precedenti post quel che pensavo a proposito di:
eutanasia
testamento biologico
autodeterminazione
tentando così di tracciare alcune coordinate del dibattito bioetico in corso.
Se c’è un campo filosofico nel quale le domande e i dubbi superano di gran lunga le risposte e le certezze è proprio questo. Pur tuttavia devo ribadire alcuni punti fermi, affermazioni e pezzi di ragionamento che nella mia mente sono chiari e distinti e che, almeno per me, rappresentano delle ancore nel mare di incertezze (e di stoltezze). Li sintetizzo brevemente in 4 proposizioni:

1. Principio di autodeterminazione. Ogni individuo deve essere rigorosamente tutelato nel poter decidere autonomamente e in piena coscienza su se stesso e di se stesso, del proprio corpo, della propria salute (fisica e psichica), della vita e, conseguentemente, della morte. Non potrà mai essere un altro a decidere per lui o per lei, perché non si comprende a quale titolo questo altro potrà farlo meglio. Continua a leggere “BIOETICA: 4 PUNTI IRRINUNCIABILI”

EUTANASIA

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Non enim vivere bonum est, sed bene vivere.

Poi, dopo una breve passeggiata, mi si sono chiarite le idee. Forse per effetto dell’aria luminosa e dei colori brillanti e dorati dell’autunno. E per quanto si possa avere le idee chiare in casi come questi. Ma a una conclusione sono giunto: l’eutanasia è un’ipotesi (chiamiamola così, per ora) applicabile solo in un ambito ben preciso di soggetti e a determinate condizioni. Innanzitutto solo chi è in grado di scegliere consapevolmente può invocarla. E’ eticamente inammissibile, quindi, esercitarla su soggetti non consapevoli o irresponsabili (bambini nati con gravi malformazioni o disabili gravi, ma anche, ahimé, malati terminali e incoscienti che non abbiano espresso volontà in proposito): in tal caso sarebbe omicidio, anche nei casi più “pietosi” si tratterebbe pur sempre di omicidio. Nessuno può decidere per me, ma io non devo poter decidere per altri non in grado di farlo. Ai medici, poi, deve essere vietato nella maniera più assoluta di intervenire nei casi di eutanasia. E’ ammissibile, infine, che io deleghi qualcuno a decidere per me nell’impossibilità eventuale che lo possa fare io. Questi sono i confini, mi pare al quanto ristretti, che per ora sono riuscito a tracciare.

(Due postille sono però doverose. L’inammissibilità etica a proposito di bambini malformati, non può essere estesa agli embrioni, dove prevale la priorità etica dell’autodeterminazione: la donna è un soggetto che crea vita, non un’incubatrice, e le spetta di diritto di decidere su di sé e sulla vita che è dentro di sé, che è ancora parte di sé. L’aborto non è mai un omicidio, ma la scelta di non far nascere. Seconda cosa: chi poi, una volta introdotto il doveroso testamento biologico, dovesse in tutta coscienza decidere di voler rimanere in vita grazie alle macchine per un tempo irragionevole, magari qualche decennio, dovrebbe anche porsi la domanda (etica né più né meno come la sua scelta) a proposito delle risorse sottratte ad altri; se però non se lo chiede, dovrebbe farlo la legge, magari preventivamente, non a cose fatte).

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