La vita (dis)continua

Se c’è un’espressione che detesto è la vita continua.
Ti è successo questo, ti è successo quest’altro – ma la vita continua.
Ti è morto un genitore, un figlio/a, un amico/a, un compagno/a (valgono anche gli animali) – eppure la vita continua. Ci sarà sempre qualcuno che userà questa espressione trita, banale e stupidamente tautologica – volta forse a nascondere da una parte l’imbarazzo e l’incapacità di dire cose sensate di fronte ai lutti o alle tragedie, e dall’altra il sospetto che sempre alligna nella mente di chi la dice che quella vita che si vuole così continua e lineare sia in realtà un abisso di orrori.
Una vita come tanteA Little Life nell’edizione americana originale – romanzo della scrittrice di origini hawaiane Hanya Yanagihara, sembra quasi voler rispondere, e ci mette oltre mille pagine per farlo, alla banalità di quell’espressione – perché la vita non continua.
A dispetto della sua mole fluviale, potremmo ridurre l’intreccio narrativo a due semplici e però essenziali domande: la prima – che cos’è il male? – è inscritta nel destino toccato in sorte a Jude, l’infelice protagonista (ma chi è felice?), ovvero il male come indebolimento dell’altro, diminuzione sistematica della sua potenza vitale – quasi a dimostrare che nella vita di ogni umano c’è sempre un genio maligno che ha la funzione di inoculargli sottopelle un siero, con la precisa funzione anti-spinoziana di indurgli passioni tristi e inibirgli passioni liete. Progettare l’infelicità dell’altro – come ebbe a suggerire il filosofo amico dei lupi Mark Rowlands.
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Presi gli arcobaleni per cose usuali

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La felicità è come la brevità –
o ad essa proporzionale,
direbbero le scuole –
il modo dell’arcobaleno –
Un velo
colorato, spiegato dopo la pioggia,
avrebbe la stessa chiarezza
non fosse la fuggevolezza –
che è alimento –

“Potesse durare”
chiedevo all’Oriente
quando la striscia curva
accendeva il mio infantile
firmamento –
e io, dalla gioia,
presi gli arcobaleni per cose usuali,
e i cieli vuoti
per eccezionali –

[Emily Dickinson. Immagine: Sul tetto del mondo, di Girolamo Peralta]

Settima parola: bene

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(Vista la vignetta dei Peanuts qui sopra, mi toccherà forse parlar male del bene…)

Nel termine latino bonum (aggettivo bonus) ci sono tutte le caratteristiche con le quali viene comunemente utilizzato il concetto di bene: dal summum bonum, all’essere retti e onesti, alla felicità, utilità, prosperità, ecc.
Senonché dire:
il Bene
-fare il bene (o meglio, buone azioni)
-io sto bene
sono espressioni molto differenti, che si riferiscono ad accezioni parecchio diverse della medesima parola.
Che alludono ad una diversa caratterizzazione del bene a seconda che esso venga inteso in termini oggettivi (il bene come idea-valore in sé) o in termini soggettivi, e dunque relativi a situazioni sociali e storiche determinate, o più semplicemente concernenti le relazioni intersoggettive (utilità, felicità sociale e individuale, ecc.).

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Terza parola: felicità

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“Ho riconosciuto la felicità dal rumore che faceva allontanandosi”
(Prévert)

Strana cosa la felicità, inafferrabile e sfuggente, ma soprattutto incerta com’è: eppure non c’è cosa che di più occupi la nostra anima e il nostro corpo se non la ricerca del piacere e, per suo tramite, di quello stato emotivo che definiamo, appunto, “felicità”: per certi versi potremmo dire che scopo principale del nostro agire è raggiungere, o avvicinarsi il più possibile, a quello stato di grazia. Parrebbe la cosa più ovvia e naturale, eppure…
Ma cerchiamo di dare uno sguardo (e di mettere un po’ di ordine) nella questione così come la filosofia l’ha considerata.

1. I filosofi come “medici” dell’anima?
In effetti Ippocrate, il primo grande medico greco, aveva stabilito un nesso tra psiche e corpo, vita mentale e vita sensibile, le quali avevano bisogno di un certo equilibrio, di un’armonia: equilibro tra umori interni del corpo e con il mondo esterno, il clima, ecc.
Col che si genera uno strano paradosso: nel momento in cui la filosofia viene intesa come “cura”, sembra quasi voler presumere una condizione di malattia ed infelicità originaria (“ontologica”, cioè costitutiva del nostro essere e legata alla natura umana in quanto tale).

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(In)utilità della filosofia

[Riporto la traccia del mio intervento all’ultimo incontro del Gruppo di discussione filosofica, presso la biblioteca di Rescaldina. I Lunedì filosofici riprenderanno in autunno]

 

“La filosofia è quella cosa con la quale o senza la quale tutto rimane tale e quale”.
“La nottola di Minerva inizia il suo volo soltanto sul far del crepuscolo”.
Due frasi – una dal sapore popolaresco e canzonatorio, l’altra corrucciata dalla serietà hegeliana – che giungono ad una medesima conclusione: la filosofia come qualcosa di inutile, cioè privo di uno scopo determinato (non ha importanza qui il contenuto dello scopo; ciò che importa è che vi sia una finalizzazione dell’attività: faccio questo per ottenere quest’altro, purché mi sia utile, cioè vantaggioso, che mi apporti dei benefici – anche se poi esistono scopi reconditi, eterogenesi dei fini, beni che si rivelano mali, insomma una casistica esageratamente varia).
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L’insostenibile gravità dell’esistere

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Pochissimo s’è parlato in questo blog di Søren Kierkegaard. Solo fugaci citazioni, in 4 o 5 occasioni, nulla di più. Il 5 maggio scorso ricorreva tra l’altro, nel più assordante dei silenzi, il bicentenario della sua nascita.
Del resto il filosofo danese non è di sicuro nelle mie corde – ed anzi, ricordo che all’università, io e un mio compagno con il quale ho avuto il piacere di condividere anni di forsennata passione filosofica (e di grandi bevute), eravamo soliti sbeffeggiare il povero Søren, in particolare per quella sequela di titoli angosciosi e funesti – Timore e tremore, Briciole filosofiche, Il concetto dell’angoscia, La malattia mortale… – a nostro avviso ben poco filosofici, e comunque lontani dal nostro stile irruento e vitale (io poi ero all’epoca un temibile estremista hegeliano!).

[En passant, Briciole di filosofia fu, se non erro, il primo blog filosofico che incontrai sul web, subito dopo aver aperto La Botte. Quasi una nemesi].

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Introduzione alla filosofia – 3. Cinici, stoici, epicurei: la filosofia come stile di vita

Potremmo sottotitolare questo incontro con l’espressione “la filosofia come stile di vita” (che è poi il titolo di un interessante libro scritto anni fa da Màdera e Tarca). Ci occuperemo cioè questa sera di quelle correnti filosofiche della tarda filosofia greca (siamo a cavallo tra il IV e il III secolo a.C.), che mettono al centro la questione etica e la libertà dell’individuo – in estrema sintesi è questa la domanda che ci porremo: come possiamo vivere saggi e felici in questo mondo? Domanda piuttosto impegnativa, visto che il mondo fa di tutto per distrarcene (o per darci delle risposte pronte, preconfezionate e spesso a loro volta infelici).

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Quinta cronaca: congedo con ciliegie

Qualche giorno fa ho incontrato per l’ultima volta la classe di bambini di quinta (dunque ormai ragazzi) con i quali ho svolto nel corso dell’anno scolastico il mio consueto  esperimento filosofico, e di cui ho qua e là dato qualche resoconto in forma di “cronaca”.
Ho chiesto loro, a mo’ di congedo, di prendere un foglio bianco e di scriverci sopra due cose: su un lato la parola che più li aveva colpiti durante i nostri incontri, e sull’altro una breve frase che sintetizzasse quel che, a loro giudizio, il termine filosofia racchiude. Una sorta di definizione, cercando di ripercorrere il nostro cammino fin dall’inizio. Arché. Un duplice sforzo di memoria e di sintesi.
Quel che ne è uscito – che ovviamente è stato subito dopo commentato e discusso, abitudine consolidata e affinatasi nel tempo – non mi ha sorpreso, se non per la sua “pulizia” concettuale. Mi ha cioè dato la misura del percorso fatto, del loro impegno nell’accettare una cosa così strana (una “specie di materia”, come alcuni l’hanno definita) che prevedeva di incontrarsi ogni due settimane per parlare di cose piuttosto astratte, e nello stesso tempo la piena comprensione che si tratta comunque di una cosa “vitale”, che li riguarda e che si depositerà da qualche parte nella loro mente.
Le parole-chiave scelte hanno risentito del lavoro svolto sulla felicità (che sta partorendo un vero e proprio libro illustrato autoprodotto), e di fatti 9 di loro l’hanno indicata come parola preferita. Anche il concetto di nulla li ha colpiti (4). Le altre sono state: vita, essenza, interiorità, fede, credere, amicizia, senso. Continua a leggere “Quinta cronaca: congedo con ciliegie”

Quarta cronaca: bambini prospettivisti e (poco) licitazionisti

Li guardo ad uno ad uno e in silenzio mi dico “che belli!”,
un po’ come le gemme sui rami di questi giorni,
e dispero – pensando al mondo che è
e spero – pensando al mondo che può essere.

Ci siamo un po’ allontanati dalla natura (esterna) per dedicarci alla natura (interna) – cercando di non perdere mai di vista il nesso. Dopo qualche vagabondaggio su emozioni, passioni e dintorni, i miei bambini spinozisti sono approdati alle soglie della felicità – del chiedersi cioè che cosa essa sia. Curioso che, quando socraticamente ho posto loro l’esigenza di trovarne una definizione univoca, generale e che valga per tutti, qualcuno, per differenziare tale livello da quello più soggettivo (la mia visione di felicità) abbia utilizzato i termini di paragone grande/piccolo. Un concetto grande di felicità è più ampio, comprensivo e generale di un suo concetto piccolo – mi pare abbastanza ovvio! Abbiamo quindi discusso e condiviso la cosa, e ci siamo accordati che quella che ciascuno di loro avrebbe cercato sarebbe dovuta (o potuta) essere una definizione “grande” di felicità, qualcosa cioè che potesse valere per chiunque altro.
Compito a casa (o per strada o dove pareva a loro): scrivere su un foglio la definizione di felicità. Ed ecco ora, sul mio scrittoio, le 23 definizioni. Il paradosso è che sono sì tutte “grandi” (cioè, dicono tutte qualcosa di universale, o, se si preferisce smorzare i toni, di condiviso dalla specie), ma al contempo dicono tutte cose diverse. Sono, cioè, maledettamente prospettiviste, come se i miei bambini da spinozisti si fossero ora trasformati in nietzscheani impenitenti e relativisti.
Ecco, allora, che cosa ho fatto.

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