Doveva essere l’anno accademico 1986/87. Era il periodo della mia vita in cui mi ero gettato a capofitto nello studio forsennato della filosofia – e non intendo solo universitario e finalizzato agli esami (d’altra parte tutti noi studenti di filosofia eravamo così, alternativi, appassionati, un po’ snob). A novembre avevo cominciato a frequentare il corso di Filosofia della scienza di Giulio Giorello. Avevo sentito dire che era un tipo bizzarro – ma di docenti strani ce n’erano non pochi in quel periodo in Statale, e di ognuno si raccontavano aneddoti gustosi. Lui era un fiume in piena, anche se ogni tanto le parole gli si ingarbugliavano in bocca: stava per lo più in piedi e in movimento, agitando quel suo caschetto lucido di capelli che un po’ ci faceva sorridere.
Ricordo che fece venire un paio di volte il suo maestro marxista Geymonat, già molto anziano, a tenere delle lezioni speciali: lo chiamava Jemonà, e si divertiva a mettere in scena la loro diatriba su giustizia e libertà – accento sull’una o sull’altra. Dato che ero un collettivista convinto, ma nello stesso tempo gelosissimo della mia indipendenza, dovetti trovare in quel piccolo teatro filosofico elementi interessanti per la mia personale dialettica su eguaglianza e libertà.
Ricordo che non fu solo Geymonat ad intervenire nei suoi corsi, anche altri: di sicuro Salvatore Veca (che una mia amica definì “parrucchiere” per come era vestito e si atteggiava) e mi pare anche Remo Bodei. A pensarci oggi, era un’ottima idea quella di far intervenire altri docenti nei propri corsi, animando le lezioni e ampliando nello stesso tempo gli orizzonti degli studenti.
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Quel dito puntato sulla fronte di mio padre
“Canto chi mi ha preceduto […]
L’amore non cantarlo, è un canto di per sé
più lo si invoca meno ce n’è”
(Montesole, PGR)
(quando ho cominciato a scrivere queste note, non avrei mai pensato che sarebbero diventate una sorta di diario… come chiamarlo?… bioaffettivo? bioemotivo? una cronaca a metà tra la riflessione e la passione-pietà, schizzi disordinati sulla vita, la malattia, la fragilità dell’esistenza – e la paura della morte – con un unico filo: il volto smarrito di un padre, la sua indecifrabile agitazione interna; e gli occhi ondivaghi di un figlio, che talvolta fissano quel volto e talvolta deviano lo sguardo; forse ci sarebbe anche da riflettere sulla relazione insieme biologica e affettiva tra genitore e figlio, sul detto e non detto che comporta, su sangue, istinto e cultura – ma forse è meglio, per questa volta, lasciare tutto ciò tra parentesi)
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Siculo-lombardo (e un po’ africano)
Nacqui, casualmente, tra gli ulivi dei Monti Nebrodi. Migrai e mi ritrovai a vivere, altrettanto casualmente, in una pianura un po’ più a Nord. Mi sento quindi, dacché io mi ricordi, un po’ siciliano, un po’ arabo, normanno e africano, terrone, meridionale, un tantino lombardo e molto milanese (magari non proprio meneghino), mediterraneo, europeo, occidentale, umano e terrestre. Sono un miscuglio di tutte queste cose, e altre ancora.
Il filosofo della scienza Paul Feyerabend delinea nella sua opera di disarticolazione del metodo e di demitizzazione della ragione, un modello di società libera di tipo democratico-relativistico: “Una società libera è una società nella quale tutte le tradizioni hanno uguali diritti e uguale accesso ai centri dell’istruzione e ad altri centri di potere”. Non solo: una società libera deve essere fondata sulla scissione tra Stato e scienza, Stato e religione, Stato e (qualsiasi) ideologia – e dunque Stato e razza, Stato e cultura, Stato e civiltà, ecc. ecc. Durante una discussione pubblica Feyerabend dichiarò: “La società, lo Stato di cui parlo, sarà ben presto la Terra intera“.
Mentre l’afroamericano (occidentale, terrestre e tutto il resto) Barack Obama si impegna, per lo meno nelle intenzioni, a promuovere quel modello di società in chiave planetaria, il ridicolo-patetico ducetto italiano, con la complicità di una banda di razzisti ricolmi di livore, delinea in alternativa il suo: un modello sociale ad alto contenuto etnico e razziale, e a bassissimo tasso di intelligenza, prospettive e creatività. Un’ idea di Italia meschina, asfittica, esangue, autarchica, micragnosa, avida, chiusa, triste, rancorosa, impaurita, ricolma anch’essa di livore.
Et voilà, il piatto del futuro di questo paese è in tavola! Ingozzatevi tutti quanti: italioti, lumbard, camicie verdebrune, e gggente comune!