Il volto e il corpo dell’altro – 3. Follia, (a)normalità, istituzioni totali, antipsichiatria

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“Io voglio entrare fuori”
(uno dei matti di Basaglia)

Diversi gli approcci e i discorsi possibili sulla follia, che è quanto di più sfuggente e storicamente determinato ci sia: di ordine psicologico, antropologico, sociologico, medico – ma anche, anzi direi prima di tutto filosofico. D’altro canto chi definisce dissennato qualcuno se non il pensatore in grado di argomentare? che cos’è la follia se non l’antagonista della ragione?
Eppure filosofia a follia sono legate fin dalle origini, ma in tutt’altro senso rispetto a quel che potrebbe sembrare “normale”. Anzi, è proprio quella normalità che viene messa in discussione, se è vero che il filosofo tende a scardinarla fin dalle fondamenta, per gettare una luce straniante sul mondo, sulle cose, sulla realtà.
Già nell’aneddoto di Talete – il “primo filosofo” – che mentre osserva gli astri cade in un pozzo, è iscritta la stranezza originaria del pensiero filosofico: la serva tracia lo prende in giro perché mentre guarda in su (altrove), egli non vede quel che ha davanti a sé. Il sapiente fin dalle origini non ha i piedi per terra, ma la mente tra le nuvole, e da lì – straniato – guarda il mondo.
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L’atroce gorgo del nulla

Da Silva_La partita a scacchi

È un racconto tra i più belli che abbia mai letto, questa Schachnovelle di Stefan Zweig: non solo per la costruzione formale, peraltro riuscitissima (l’autore ci tiene incollati dalla prima all’ultima riga), ma anche per la particolarissima convergenza di temi. Si potrebbe pensare che il gioco degli scacchi sia un pretesto, ed in parte lo è – anche se nell’economia del racconto costituisce il filo conduttore, dal principio alla fine. Ma nella narrazione, sospesa e misteriosa e beccheggiante (tanto più che ci troviamo su un piroscafo) si inserisce una seconda narrazione, un racconto nel racconto, che costituisce in realtà il nucleo essenziale della novella.
Ed è proprio questo controracconto a precipitarci inesorabilmente nel gorgo terribile nel nichilismo nazista, e poche altre volte credo sia stato descritto in tal senso – nichilismo allo stato puro – con tale precisione.
Il dottor B., l’insospettabile sfidante della gara di scacchi che si svolge febbrilmente sulla nave, sta fuggendo dalla sconvolgente esperienza di prigionia che gli è occorsa non già in un campo di concentramento, bensì in un albergo di Vienna: egli non è un perseguitato politico o un soggetto col triangolo sulla casacca da internare, ma un agiato borghese austriaco recluso per di più in un albergo lussuoso, che viene messo sotto torchio dalla Gestapo che vuole arraffare l’ingente bottino finanziario e bancario (specie ebraico), all’indomani dell’Anschluss austriaca.
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Kindertotenlieder

(ai bambini della Sandy Hook di Newtown, ma anche a tutti gli altri sparsi per il mondo, vittime inermi inghiottite dalla follia del nichilismo)

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Io penso spesso: sono solo usciti,
presto saranno di ritorno a casa!
Il giorno è bello. No, non angosciarti,
fanno solo una lunga passeggiata.

Ma sì: semplicemente sono usciti,
ora, vedrai, ritorneranno a casa.
Non angosciarti, la giornata è bella!
Fanno due passi, là, su quelle alture!

Sì, sono usciti un po’ prima di noi,
e non faranno più ritorno a casa!
Su quelle alture li raggiungeremo,
in pieno sole! La giornata è bella
su quelle alture.

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Seconda obiezione: metànoia o paranoia?

«Nella verità appare anche che l’isolamento della terra dal destino è destinato al tramonto, e il tramonto è l’avvento della terra che salva. Prima di tale avvento è necessario che la situazione di minorità, di assoluta marginalità del linguaggio che indica attualmente il destino, si rovesci nella situazione in cui i popoli, dico tutti, diventino testimoni del destino. Se vogliamo parlare di “autoeducazione”, l’autentica autoeducazione è questa metànoia – questa sì radicale – in cui il linguaggio testimoniante il destino dominerà la totalità dei linguaggi. Questo, prima dell’avvento della terra che salva». (Educare al pensiero, pp. 101-2)

Dopo di che l’intervistatrice chiede conto al maestro dell’avvento di questa non ben precisata “terra che salva” (che, evidentemente, dovrà interessare i popoli tutti, non si sa bene per quale ragione, e anche se il concetto di “popolo” non viene chiarito), e ne chiede conto perché se fosse un processo – come tutti i processi storici fin qui occorsi – sarebbe allora… un “divenir altro”, e tutto il castello logico andrebbe in mille pezzi – eh no! chiosa Severino, si tratta invece del “sopraggiungere degli eterni”. Nientemeno!
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Il logos razziale

vu cumprà – extracomunitari – extraeuropei – clandestini – stranieri – razze – etnie – diversi – negri – di colore – tutti questi albanesi – zingari – nomadi – campi – rubinetti da chiudere – vasche da svuotare – centri di permanenza temporanea – identificazione ed espulsione – rom romeni rumeni – ronde padane – sicurezza – ci stuprano le nostre donne – per mano di ignoti – fuoco – decoro urbano – impronte digitali – schedare – senza permesso – illegali – musulmani che inzuppano la terra – complotto giudaico-massone –  aiutiamoli a casa loro…

La parola filosofica arché evoca, insieme al principio, alla causa, al flusso ed alla fonte originaria delle cose – di tutte le cose – anche il comando, il potere, l’autorità. Avere questo potere significa innanzitutto nominare le cose: potere che si identifica, dunque, con il logos, la parola che è anche ragione. Al principio c’è il logos. Dio nomina le cose creandole, Adamo le ri-crea nominandole a sua volta. Anche nella lingua aramaica l’espressione Avrah KaDabra (da cui probabilmente deriva abracadabra) significa Io creerò come parlo: indica cioè il potere di fare attraverso la facoltà di linguaggio.
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La schizofrenia ontologica – Oltrepassare Severino 2

Leggendo il libro di ricordi di Emanuele Severino – che com’è giusto che sia mescola esistenza e filosofia, affetti e ragionamenti, biografia e ontologia – si ha tuttavia l’impressione di una schizofrenia di fondo. Uso il termine nel suo significato originario (“divisione della mente”), senza dunque alcuna connotazione psichiatrica, per sottolineare una vera e propria Trennung filosofica, una scissione che non è soltanto quella convenzionale tra l’io e il mondo, l’individuo e la società, la finitezza della mia mente e l’intero universo nel quale quella mente si sente sperduta, ma che attiene al discorso filosofico essenziale di Severino. Lo esemplifico con due metafore da lui utilizzate nel testo:
la prima allude all’altalenante condizione del sogno e della veglia nella quale ci troviamo immersi, un tema che da Eraclito a Calderon de la Barca ha una lunga tradizione, ma che in Severino pare caricarsi di una inaudita radicalità: il sogno (“la terra isolata dal destino”) essendo la nostra condizione fondamentale, da cui emerge la via della veglia (e dunque della verità), che solo in quanto porta alla luce il sapere che l’apparire di quell’apparire non è un sogno, può indicare il “destino”, cioè lo stare assolutamente incondizionato;
la seconda metafora, di ascendenza evangelica, è quella del campo dove crescono il loglio e il grano: lo spazio dell’uno o dell’altro delimita rispettivamente quel che è proprio dell'”esser uomo” (quell’uomo errante che è Emanuele Severino), e quel che invece è “testimonianza del destino”, un Io-destino infinitamente altro dall’io-Severino. Il merito che Severino pare attribuirsi è quello che nel “suo” campo (ma è “suo”? e che cos’è il campo? – è lui stesso a chiederselo) è via via andato crescendo il grano, confinando il loglio in spazi sempre più ristretti.

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Deriva patologica

La prima cosa che mi è venuta in mente vedendo il volto insanguinato del sovrano – il corpo del sovrano violato ed esposto con le sue stimmate – è stata, come immagino per altri, il detto popolare chi semina vento raccoglie tempesta.
Il problema è che chi, come me, intendeva (ed intende ancora) la politica come la sapiente arte di mettere insieme il lato razionale e quello passionale, si trova forse un po’ spiazzato di fronte a quel che accade oggi. Poiché di razionale è rimasto ben poco – per lo meno in superficie, dato che poi la gestione degli interessi materiali mantiene sempre una sua logica ferrea; mentre il lato “passionale”, quando ancora c’è – l’appassionarsi alle idee e al tentativo di metterle in pratica per trasformare l’esistente – sembra ormai consegnato alla sfera del patologico.
Se è vero che alcuni fatti sono densamente popolati dai simboli, allora la maschera di sangue del quasi monarca italiano ne raccoglie davvero tanti. Innanzitutto quella forma estrema di patologizzazione della forma del politico e del suo linguaggio: le dinamiche amico/nemico e soprattutto amore/odio, che pure in politica non sono mai assenti, tendono a polarizzare e semplificare ogni discorso e ogni modalità relazionale della società civile e del suo esprimersi pubblicamente. Una forma patologica, che è se vogliamo psicopatologica: non intendo usare il termine “follia”, che detesto proprio perché generalmente imposto da un potere normativo che definisce folle ciò che sfugge alla sua ortodossia, ma non c’è dubbio che una certa irrazionalità (peraltro mai disgiunta dagli affari) che circola nella testa del capo provvidenziale, unto, miracolato e quant’altro, finisce poi per attrarre e innescare meccanismi psicosociali imprevedibili.

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