Sto cercando di decifrare questa immagine, scattata durante i funerali pubblici per le vittime del crollo del ponte di Genova. Credo sia importante decodificarne il significato, anche se può sembrare marginale rispetto al compito primario di interrogarsi sul perché periodicamente questo scellerato paese debba fare i conti con le sue fragilità e debolezze endemiche: geologiche, strutturali ed infrastrutturali, economiche, istituzionali, culturali… l’elenco potrebbe continuare a lungo, a conferma di quel che un tempo si diceva di un’Italia insieme pre-moderna e post-moderna (e forse mai modernizzata davvero).
C’è qui una relazione immediata (o apparentemente tale) tra il sovrano e il suddito, che vengono amorevolmente ritratti insieme, laddove un tempo i potenti si facevano ritrarre in perfetta solitudine, a distanze siderali dal popolino (o dal popolaccio) – che in genere ricambiava detestandoli. Perfetta rappresentazione di quel che oggi viene definito “populismo”, peraltro quasi sempre con una certa sufficienza e approssimazione analitica.
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Il volto e il corpo dell’altro – 8. Freaks!
Il tema di stasera rappresenta una vera e propria summa delle tematiche sull’alterità/diversità, quasi una sintesi ideale del percorso fatto quest’anno: il freak – lo “scherzo di natura”, il mostro – rappresenta per antonomasia il più altro tra gli altri, l’alieno che raccoglie in sé le paure più ancestrali. Come vedremo, il vero freak abita nelle zone dell’interiorità, prima che nell’esteriorità del corpo mostruoso (e mostrato/esibito/rappresentato).
Partiamo da tre termini e dalla loro definizione:
Monstrum (dal latino moneo, monere – avvertimento, segno divino)
portento, prodigio, miracolo, cosa incredibile, meravigliosa
ma anche atto mostruoso (nefandezza), essere mostruoso
– ambivalenza del significato, con una successiva caratterizzazione di tipo morale che tende a sovrapporre se non a identificare la stranezza/mostruosità/deformità al male: dal kalòs kagathòs greco (ciò che è bello è anche buono) al rovesciamento cristiano: il brutto e il deforme che puzzano di zolfo, di diabolico, di maligno.
Freak – termine inglese traducibile con capriccio, bizzarria, anomalia, scherzo (di natura), mostruosità, fenomeno, associato prima ai freak show (gli spettacoli in voga nell’800-900 nei quali venivano esibite creature straordinarie, deformi, bizzarre, mostruose – non solo umane: i cosiddetti “fenomeni da baraccone”), e a partire dagli anni ’60 al movimento contestatario e anticonformista americano (da cui “frichettone”).
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Qui sotto non posterò nessuna fotografia scioccante, ma solo qualche ragionamento
Ascoltavo stamane su una radio molto attenta all’informazione, il dibattito (direi globale) seguito alla pubblicazione e circolazione virale della fotografia di Aylan, il bambino siriano proveniente da Kobane e annegato su una spiaggia turca. Io non so dire in maniera netta se sia stato giusto o sbagliato pubblicarla, o eticamente lecito cavalcarla per un supposto scopo umanitario (non voglio pensare che la gran parte di chi lo ha fatto abbia messo in conto maggiori copie vendute, maggiore visibilità, o un numero più alto di “mi piace” sulla propria bacheca, anche se qua e là, magari solo sotterraneamente ed in maniera inconscia, questi elementi avranno influito).
Quel che però oggi mi chiedo è la medesima domanda che mi ponevo ormai 6 anni fa, quando cominciava ad essere chiara la potenza invasiva dei social e la diffusione virale delle immagini (che peraltro aveva raggiunto un vertice ancora tutto televisivo con l’11 settembre) – a proposito della dittatura delle immagini:
«Perché c’è proprio bisogno di patire visivamente l’orrore per indignarsi? Non è che in questo modo, con un passaggio quasi solo emozionale dei messaggi prodotti dalle immagini, si tende a far fuori proprio il livello razionale (e dunque eventualmente risolutivo)?».
La Genesi e il perturbante
Proprio mentre stavo ammirando il fulgido lavoro di Sebastião Salgado intitolato Genesi – il progetto durato un decennio di catalogare fotograficamente (ma sarebbe meglio dire, nel suo caso, trasfigurare poeticamente) i luoghi naturali ed antropologici più lontani, irraggiungibili e pressoché incontaminati del pianeta – mi capita tra le mani un romanzo di Georges Simenon di cui non conoscevo l’esistenza, appena ripubblicato da Adelphi, ed intitolato Hôtel del ritorno alla natura (peccato che non lo conoscessi, visto che su questo tema ci avevo fatto la tesi). Il prolifico autore belga-francese lo aveva scritto a Tahiti negli anni ’30 (guarda caso, un luogo mitizzato proprio dalla cultura francese, da Diderot a Gauguin), prendendo spunto da un inquietante fatto di cronaca avvenuto in un altro luogo leggendario, quelle isole Galàpagos dove Darwin aveva trovato non pochi spunti per la sua rivoluzionaria teoria.
Nel catalogo di Genesi vi è un capitolo dedicato proprio alle Galàpagos, isole che ci vengono ritratte se non come un luogo paradisiaco senz’altro come una riserva naturale straordinaria, dove la terra, il mare, il fuoco, i venti si incontrano e danno luogo a sculture mirabolanti, e migliaia di specie animali convivono in pace (una pace che certo non esclude la legge ferrea dell’eterotrofia).
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La dittatura delle immagini
Che cos’è un’immagine? Questa la domanda a bruciapelo che mi venne fatta dal mio futuro mentore filosofico (che pure oggi fatico a definire “maestro”) durante il nostro primo incontro. Me la fece ridendo, e io non capii se stesse scherzando e balbettai irritato una qualche risposta a caso. Seppi poi che dietro quella domanda c’erano in realtà le sue letture dell’epoca, peraltro irrorate di whisky & birra in abbondanza, di alcuni dialoghi di Platone.
Naturalmente tutto parte da quella chirurgica separazione della realtà tra mondo delle idee e mondo sensibile, che sarebbe stata una delle dannazioni della cultura occidentale. Se la realtà è costituita da gradi di approssimazione al vero, dove il segno meno sta dalla parte delle cose e il segno più dalla parte dei concetti – ciò che è più astratto è in realtà il più concreto, ciò che è apparentemente più impalpabile è invece il più reale – quale sarà lo statuto delle immagini?
Dopo avere stabilito nel libro VI della Repubblica la gerarchia della conoscenza, secondo cui le immagini (eikasìa) e la facoltà immaginativa stanno al livello più basso, Platone torna nel libro X sull’argomento, parlando dell’imitazione come attività essenziale dell’arte. Gli esempi di cui si serve riguardano in particolare la pittura e la poesia, le quali vengono accusate qui non tanto o non solo di essere produttrici di realtà di terzo grado (essendo gli oggetti artistici copie di copie), ma soprattutto di risvegliare ed alimentare un certo elemento dell’anima che, così rinvigorito, rovinerebbe l’elemento razionale (605, b). Poco più avanti questo perturbamento dell’anima viene così chiarito:
IL VIANDANTE – parte seconda


IL VIANDANTE – parte prima
La Sicilia offre già di per sé molto materiale per la produzione di metafore; se poi le si affianca la figura del viandante, la metafora può essere elevata al quadrato o al cubo. Io l’ho veduta come un viatico per un rito di passaggio. Un attraversamento tra un prima e un poi, un tempo passato e uno a venire. In mezzo il dolore e la gioia, il bene e il male, la vita e la morte. Naturalmente ciascuno è poi libero di interpretare come crede…


Narcisismi 2 – L’anima, la maschera e i demiurghi della rete
Sommario
1. Caduta del pudore e “trivellazione delle anime”
2. Pornografia, idoli, immagini
3. La maschera di Rousseau
4. Essere o apparire?
5. Il palcoscenico digitale
6. L’occhio dilatato del potere
7. Una proposta oscena: ritrarsi e meditare
8. Veli e riflessi: una nota sulle fotografie di Ruggio [Ruggero Palazzo]) utilizzate
1. C’è un capitolo del libro di Galimberti, L’ospite inquietante di cui abbiamo già ampiamente discusso, che vorrei riprendere per allargare lo spettro della riflessione. Si tratta del capitolo 5, intitolato “La pubblicizzazione dell’intimo”, dove il filosofo sostiene che nella nostra epoca sia praticamente caduta l’antica barriera che separava l’interiorità dall’esteriorità, legittimando a tutti gli effetti la spudoratezza, da intendersi ora come messa in mostra dell’anima più che del corpo, con una perfetta corrispondenza tra esposizione di sé e voyeurismo. La continua “trivellazione delle vite private”, diventata ormai l’essenza del mondo televisivo, è l’emblema di questa neopornografia diffusa, più grave dell’antica pornografia per almeno due ragioni: prima di tutto perché denudare l’anima è un atto ben più osceno del denudare il corpo; in secondo luogo perché – aggiungo io – anche la distinzione tra vendita e indisponibilità di se stessi (corpo o anima che sia) è venuta ormai a cadere, cedendo all’omologazione mercificata imperante. Tutto è di tutti – ma ancor peggio tutto può essere venduto, persino l’ultimo neurone o frammento d’anima. Se poi qualcosa viene nascosto vuol dire che si ha qualcosa da nascondere, qualcosa di cui vergognarsi – e ciò è male. La caduta del pudore porta così con sé il più becero conformismo, se è vero che l’intimità e l’interiorità sono i nuclei profondi dell’essere individuale, ciò che lo fanno essere unico e irripetibile, e che la continua esposizione di sé, il concedersi a tutti indiscriminatamente – senza alcuna scelta e distinzione – non può che produrre un appiattimento generalizzato e un’omologazione dei modi di essere, i cui risultati sono già sotto gli occhi di tutti. A furia di trivellazioni l’anima finisce per dissolversi, proprio perché seppure il pudore sia un confine mobile socialmente determinato, quando i veli cadono tutti uno dopo l’altro, c’è il rischio che venga a mostrarsi infine il nulla che ci stava dietro. Succede un po’ come a Narciso, che alla fine, dopo essere stato fagocitato dalla sua stessa immagine e insensibilità, si lascia morire; o come a Eco, che si consuma fino a dissolversi nel filo di una voce. Oltretutto, corpi e anime denudati sono un po’ tutti uguali, e per ciò stesso poco desiderabili.
Detto questo, vorrei approfondire alcuni punti ed allargare il territorio di questa riflessione che nel testo di Galimberti mi pare troppo confinata all’ambito sociologico.
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JÜNGER, LA FOTOGRAFIA E IL MONDO MUTATO
Maurizio Guerri, filosofo e ricercatore presso la cattedra di estetica dell’Università Statale di Milano, studioso di Spengler, Jünger, Nietzsche, e della lettura filosofica del fenomeno guerra, ha organizzato un’interessante mostra fotografico-filosofica presso la ex-chiesa di San Carpoforo a Milano (zona Brera), edificio splendido, ma trascurato e sottoutilizzato. Accompagna la mostra un fittissimo calendario di incontri sul tema della violenza.
Ernst Jünger, filosofo tedesco del ‘900 (di tutto il Novecento visto che è vissuto fino a 103 anni), ha curato negli anni ’30 ben cinque volumi fotografici. Ma perché un filosofo si dovrebbe occupare di fotografia?
Tale interesse va senz’altro ricondotto alla genealogia del terrore e dell’ossessione securitaria che costituisce un capitolo essenziale delle ricerche jungeriane. L’attualità di Jünger sta proprio nell’aver capito come la “mobilitazione totale” dispiegata durante la prima guerra mondiale abbia chiaramente rivelato i caratteri della nuova scena mondiale che si andava costituendo: “un processo di fusione di guerra e lavoro che non dà come risultato la semplice somma delle due attività, ma segna una svolta epocale, una ‘mutazione genetica’ della storia, un nuovo scenario spazio-temporale fatto di normalità violenta in guerra e di violenza normalizzata in pace”.
Il lavoro, il controllo sociale (sempre più interiorizzato), l’intreccio di ordine e pericolo, la tecnica dispiegata sono gli elementi di un’ “opera di mutazione dei luoghi e delle culture del pianeta in un unico spazio uniformato e funzionale alla sperimentazione del sistema-lavoro” – al punto che l’attuale “scontro di civiltà” (o di inciviltà, come giustamente lo definisce la mia amica Nicoletta Poidimani), è solo fumo rispetto all’arrosto di quel che sta realmente accadendo.
E la fotografia? Secondo Jünger l’occhio telescopico e meccanizzato è sintomo e parte del processo, tutt’altro che neutrale. Anzi, è proprio questa neutralità anestetizzante (per esempio nella riproduzione/serializzazione del dolore, molto simile all’anestetizzazione medica dei corpi) ad essere uno dei sintomi principali dell’era globale della tecnica. C’è nella fotografia una dimensione “intrusiva”, “violenta”, che “tende ad abolire l’esperienza, la separazione tra pubblico/privato e compie il primo passo verso la realizzazione di una controllabilità globale, che si impone come unica risposta al terrore politico, sociale, igienico che assedia la vita contemporanea”.
Queste, in pillole, le tesi di Jünger, discusse e condivise da Guerri (si veda il saggio La violenza è normale? L’occhio fotografico di Ernst Junger, nel volume Il mondo mutato, edizione Mimesis, da cui sono tratte le citazioni), e su cui concordo in gran parte. Il fatto poi che talvolta mi ritrovi ad essere un entusiasta apologeta dello sviluppo tecnologico (convinto come sono che senza la tecnica noi saremmo tutta un’altra specie, tutta un’altra cosa, non saremmo umani), non mi fa certo chiudere gli occhi (per lo meno l’occhio della mente, dato che quello telescopico produce spesso uno sguardo passivo e un po’ ebete) di fronte agli immani pericoli che corriamo, proprio nei termini posti ormai 70 anni fa, con grande lungimiranza, dal filosofo tedesco.
Ma non mancherò di tornare sulla crescente divaricazione tra la superficie e l’interno, la “visione telescopica” e l’esperienza, la spettacolarizzazione/uniformazione del mondo e il vissuto dei corpi e delle relazioni. A tal proposito proprio ieri su Nazione Indiana è comparso un bell’articolo di Franco Arminio: http://www.nazioneindiana.com/2007/09/21/indignazione-e-gentilezza/
Per informazioni sulla mostra: http://www.junger.it/junger.swf