L’autàrkeia è una condizione esistenziale tipica della nostra epoca, ma non mi pare si tratti dell’autàrkeia antica – piena autosufficienza ed autodeterminazione, che però sia basata sulla profonda conoscenza di se stessi e del proprio rapporto con l’ambiente esterno – quanto piuttosto di una forma radicale di individualismo ostentato, di narcisismo che non può fare a meno di salire su un palcoscenico, e che dunque non si bea soltanto di se stesso o della propria immagine, quanto del supposto e speculare bearsi del pubblico per quel sé e la sua aura così tanto ostentati. Un Narciso che non si specchia solitario nelle acque, ma nello sguardo degli altri.
Parto dall’annotazione di un amico, risalente a qualche tempo fa, che nell’incontrarmi per strada mentre ascoltavo musica con le cuffie, mi guardò divertito e mi diede dell’autarchico. In effetti, il gesto di sigillare la percezione quando si ascolta, ad esempio, della musica, è simbolico della condizione narcisistico-autarchica della nostra epoca (naturalmente non è possibile generalizzare o dedurre teorie universali da singoli fenomeni sociali). “Io sto ascoltando la musica giusta, tu non puoi ascoltare quel che ascolto io, e non puoi che ammirare il mio gesto” (salvo invertire le parti, e fare altrettanto).
Ma quel che mi fa sospettare che l’autarchia moderna sia radicalmente differente da quella classica, risulta visibile nel fenomeno apparentemente contrario dell’esibizionismo. In realtà i due comportamenti sono intrecciati e spesso convivono nelle medesime persone e pratiche sociali. Gli stessi sistemi tecnologici che sigillano (almeno in parte) i sensi, li ostendono poi urbi et orbi in una forma patologica di espressione di sé, ed in particolare del proprio mondo emotivo.
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Cupiditas: l’orcio, il piviere e la scabbia
[Quella che segue è una sintesi dell’introduzione con cui lo scorso lunedì ho aperto il Gruppo di discussione filosofica che si tiene mensilmente presso la Biblioteca di Rescaldina. Ho cercato di mantenere, per quanto mi è stato possibile nel passaggio alla stesura scritta, il tono colloquiale e il carattere divulgativo. Il tema in discussione era: (Iper)consumi: necessità, bisogni, desideri]
Partiamo dal titolo del nostro incontro: già il prefisso “iper” comporta un giudizio di valore (che è però tutto da argomentare). A tal proposito appare ovvio come ogni società umana (e dunque ogni singolo umano) non possa non consumare per sopravvivere. Senonché – anche questa è un’ovvietà – si sono date storicamente forme sociali diverse con modi diversi di consumare, uno dei quali è l’attuale, il tardo sistema capitalistico globale. Un sistema che non è eterno e che potrà in futuro essere modificato o sostituito. Questo modello viene da più parti denominato e caratterizzato come “consumistico” – ad indicare genericamente un eccesso di consumi, o un’eccessiva concentrazione sulla logica del consumo (senza magari farsi domande su motivazioni, radici, cause, effetti, ecc.). È comunque evidente che non ci sono mai state società in passato che abbiano consumato così tanto, così diffusamente ed intensivamente.
Ma la mia attenzione si volgerà piuttosto all’altra parte del titolo: necessità – bisogni – desideri, e verterà sul lato “soggettivo” più che oggettivo. Ci chiederemo cioè quali sono le spinte interne all’individuo che determinano la logica del consumo. E per far ciò partiremo dall’analisi di un celebre filosofo olandese del ‘600, autore di una interessante teoria della natura umana, ed in particolare delle “passioni” umane: Baruch Spinoza (1632-1677).
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UBERMENSCH A FUMETTI
Può sembrare bizzarro o fuori luogo parlare di un fumetto – anzi di un singolo albo di un fumetto – all’interno di un blog filosofico. Ma chi è aduso a leggere queste pagine di certo non si stupirà. Del resto la filosofia si annida ovunque, e poi ho smesso da molto tempo di contrapporre “alto” e “basso” in ambito culturale. Un mio amico superfilosofico sosteneva invece che il fumetto, per sua natura, non può essere filosofico, perché troppo invischiato col mondo delle immagini. Sarà…
L’ultimo numero di Julia (una serie della casa editrice Bonelli, quella di Tex e Dylan Dog) si intitola I superuomini e racconta di un trio di adolescenti il cui leader, Robin, ha fatto di alcuni passi di Nietzsche malamente intesi il proprio “credo”: “l’uomo è un cavo teso tra la bestia e l’oltreuomo, un cavo al di sopra di un abisso“; “il futuro influenza il presente tanto quanto il passato“; “cos’è male? tutto ciò che deriva dalla debolezza“; “bisogna avere in sé il caos... (questa la conoscono tutti ed è scritta dappertutto) – e così via.
Narcisismi 2 – L’anima, la maschera e i demiurghi della rete
Sommario
1. Caduta del pudore e “trivellazione delle anime”
2. Pornografia, idoli, immagini
3. La maschera di Rousseau
4. Essere o apparire?
5. Il palcoscenico digitale
6. L’occhio dilatato del potere
7. Una proposta oscena: ritrarsi e meditare
8. Veli e riflessi: una nota sulle fotografie di Ruggio [Ruggero Palazzo]) utilizzate
1. C’è un capitolo del libro di Galimberti, L’ospite inquietante di cui abbiamo già ampiamente discusso, che vorrei riprendere per allargare lo spettro della riflessione. Si tratta del capitolo 5, intitolato “La pubblicizzazione dell’intimo”, dove il filosofo sostiene che nella nostra epoca sia praticamente caduta l’antica barriera che separava l’interiorità dall’esteriorità, legittimando a tutti gli effetti la spudoratezza, da intendersi ora come messa in mostra dell’anima più che del corpo, con una perfetta corrispondenza tra esposizione di sé e voyeurismo. La continua “trivellazione delle vite private”, diventata ormai l’essenza del mondo televisivo, è l’emblema di questa neopornografia diffusa, più grave dell’antica pornografia per almeno due ragioni: prima di tutto perché denudare l’anima è un atto ben più osceno del denudare il corpo; in secondo luogo perché – aggiungo io – anche la distinzione tra vendita e indisponibilità di se stessi (corpo o anima che sia) è venuta ormai a cadere, cedendo all’omologazione mercificata imperante. Tutto è di tutti – ma ancor peggio tutto può essere venduto, persino l’ultimo neurone o frammento d’anima. Se poi qualcosa viene nascosto vuol dire che si ha qualcosa da nascondere, qualcosa di cui vergognarsi – e ciò è male. La caduta del pudore porta così con sé il più becero conformismo, se è vero che l’intimità e l’interiorità sono i nuclei profondi dell’essere individuale, ciò che lo fanno essere unico e irripetibile, e che la continua esposizione di sé, il concedersi a tutti indiscriminatamente – senza alcuna scelta e distinzione – non può che produrre un appiattimento generalizzato e un’omologazione dei modi di essere, i cui risultati sono già sotto gli occhi di tutti. A furia di trivellazioni l’anima finisce per dissolversi, proprio perché seppure il pudore sia un confine mobile socialmente determinato, quando i veli cadono tutti uno dopo l’altro, c’è il rischio che venga a mostrarsi infine il nulla che ci stava dietro. Succede un po’ come a Narciso, che alla fine, dopo essere stato fagocitato dalla sua stessa immagine e insensibilità, si lascia morire; o come a Eco, che si consuma fino a dissolversi nel filo di una voce. Oltretutto, corpi e anime denudati sono un po’ tutti uguali, e per ciò stesso poco desiderabili.
Detto questo, vorrei approfondire alcuni punti ed allargare il territorio di questa riflessione che nel testo di Galimberti mi pare troppo confinata all’ambito sociologico.
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NIETZSCHE E L’OSPITE INQUIETANTE
Durante il mio primo corso universitario di filosofia, nel lontano 1984, ricordo che al professor Piana piaceva infarcire le sue lezioni con bellissime metafore coniate dal filosofo austriaco Ludwig Wittgenstein. Una di queste mi rimase impressa: è il bambino che “scarabocchia” sul foglio a dover chiedere all’adulto “dimmi che cos’è?”, e non viceversa. Il suo è una sorta di diritto filosofico innato alla significazione.
In linea con l’allarme sociale degli ultimi tempi a proposito di giovani e comportamenti “deviati”, violenza, bullismo, autodistruzione, deresponsabilizzazione e quant’altro, Umberto Galimberti ha recentemente pubblicato per Feltrinelli un saggio dedicato al “nichilismo e i giovani”, così come recita il sottotitolo. Devo subito premettere che il tentativo dell’autore è quello di andare al di là dell’approccio puramente “psicologico” (con l’assunto dell’inadeguatezza o della transizione) o “sociologico” (con l’attenzione puntata sulla categoria di “devianza”), per indagare le cause epocali, “ontologiche”, culturali ed esistenziali dell’attuale stato di disagio in cui versa il mondo giovanile.
La prima impressione che ho ricavato leggendo il libro è che, banalmente, se è vero che le giovani generazioni sono messe così, allora la responsabilità è da imputare totalmente agli adulti, alle famiglie, alla scuola, alla società. Senza eccezione alcuna. Non si può costruire una filiera per “polli di allevamento” (come cantava Gaber negli anni settanta), figli noiosi e annoiati, seriali, ripetitivi, inerti quando non glaciali, talvolta assassini potenziali, e poi lamentarsi del prodotto finale. Naturalmente il problema, come sempre, è quello della generalizzazione: se responsabile è il “sistema” (un po’ come la camorra), in realtà responsabile non è nessuno. Tout comprendre pour tout pardonner!