Pensiero mediterraneo

Non mi son certo allontanato dall’Accademia reale per rinchiudermi in un’Accademia virtuale.
Più aria, luce, verditudine e moltitudine, percezioni a getto continuo (senza preoccuparsi di doverle subito catalogare).
Meno teorie, parole, concetti.
Più forme, linee, colori. Consegnarsi interamente al puro godimento estetico – quasi una resa all’immediatezza delle sensazioni, alla grandezza della physis, all’aisthesis.
Dunque, più vita e meno filosofia?

Hegel in Siberia

coverIn realtà era Dostoevskij a stare in Siberia, mentre Hegel l’aveva azzerata, cancellata, annullata, espunta dal suo sistema storico-filosofico. E dunque Dostoevskij non poteva che scoppiare a piangere.
Avevo letto di questo piccolo saggio di Làszlò Földényi da qualche parte, in non so più quale altro libro, e mi aveva molto incuriosito per il titolo. L’autore immagina quelli che poterono essere i sentimenti provati dal condannato ai lavori forzati Fëdor Dostoevskij nell’apprendere la brutale esclusione dall’economia del mondo del luogo dov’era stato confinato e recluso.
Il tutto in poche righe. Cominciamo con quelle di Hegel:
“Anzitutto dobbiamo escludere il declivio settentrionale, la Siberia. Per noi essa è fuori del campo d’osservazione. Tutta la configurazione del paese non è tale da poter essere teatro di civiltà storica, e quindi da farsi avanti con una sua propria fisionomia nella storia del mondo”. (Filosofia della storia, ed. Nuova Italia, vol. I, p. 264).
Ed ora Földényi:
“Possiamo immaginare lo sbalordimento di Dostoevskij quando lesse queste righe al lume di una candela di sego. E possiamo rappresentarci la sua disperazione mentre realizzò che nella lontana Europa, per le cui idee era stato prima condannato a morte e poi esiliato, le sue pene non avevano alcun significato. E solo perché lui viveva queste sofferenze in Siberia, dunque in un mondo che non faceva parte della storia. Per questo motivo, da un punto di vista europeo, non si poteva sperare neppure nella redenzione. Dostoevskij poteva sentire a ragione di non essere stato solo esiliato in Siberia, ma scacciato anche nella non-esistenza… Dove solo un miracolo poteva redimerlo, un miracolo, la cui possibilità veniva esclusa non solo da Hegel, ma da tutto lo spirito europeo contemporaneo” (p. 11).
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Lezione (hegeliana) di geografia

Quando mi misi a pensare all’argomento per la tesi di laurea – prima di focalizzare la mia attenzione su Rousseau, i selvaggi e l’antropologia – sottoposi a un docente germanofilo della cattedra di Storia della filosofia moderna e contemporanea dell’Università Statale di Milano, l’idea di vederci chiaro sul rapporto tra geografia e storia nella filosofia hegeliana. Un argomento non semplice, poco studiato in Italia, e che dunque avrebbe richiesto una buona conoscenza della lingua tedesca, ostacolo per me all’epoca insormontabile. Tra l’altro avrei dovuto leggermi alcuni saggi di geografi e storici tedeschi a cavallo tra ‘700 e ‘800 (tra cui quelli di un certo Ritter, geografo spesso citato da Hegel), che se andava bene erano stati tradotti in francese. Mi sarebbe poi piaciuto tirar dentro Johann Gottfried Herder, che aveva scritto due opere splendide dedicate alla filosofia della storia. Ma poiché ero già abbondantemente fuori corso, finii per lasciar perdere.
(Forse giocava anche un riflesso condizionato della mia passione di bambino per tutto ciò che aveva a che fare con la geografia e, soprattutto, con  le carte geografiche; senza ancora sospettare che la cartografia – e la crisi della ragione cartografica di cui parla ad esempio il geografo Franco Farinelli –  è cosa serissima, tanto più in epoca globale).
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JJR 2 – L’arcano della proprietà

Qualche giorno fa una ricca ministra del governo italiano in carica, rivendicava la propria ricchezza come “non peccaminosa”, e come qualcosa di cui non ci si debba vergognare. A parte l’interessante accostamento alla sfera del sacro, la suddetta ministra rimuoveva l’ovvietà (sepolta sotto anni di pesante restaurazione) di dover rendere conto delle cause e delle radici di quella ricchezza. Non tanto della sua propria – di cui m’interessa poco (e su cui i riccastri fanno di solito leva, per argomentare con la naturale passione umana dell’invidia) – ma, più in generale, della genesi e struttura della proprietà in quanto tale. Continuare a suonare la campana a morto del pensiero marxiano, che aveva messo il dito sulla piaga, non li esime  certo dal dover rispondere alla domanda essenziale: donde viene, qual è il senso storico, sociale ed antropologico della loro ricchezza? come si è originata ed accumulata? e che cosa se ne fanno?
Sono domande che, come appare evidente, esulano dalla sfera etica o morale. Non è con i sensi di colpa che si cambiano le cose, ma con il “movimento reale che abolisce lo stato di cose presente”. Togliere il velo dagli occhi di chi guarda e il velo dell’oblio dai rapporti sociali (cos’altro è la ricchezza se non questo?), è semmai il compito primario del pensiero critico.
Ascendendo di causa in causa, uno degli affluenti più importanti del fiume marxiano è proprio il pensiero politico-antropologico di Jean-Jacques Rousseau, in particolare quello del Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza fra gli uomini, la cui rilettura attenta consiglierei al ministro di cui sopra…

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