Dai Palestinesi all’estinzione dello Stato

1. L’attuale fase della crisi israeliano-palestinese è generata dall’illusione che dopo 75 anni potesse essere messa in sordina o addirittura estinguersi la rivendicazione del diritto ad esistere e ad autodeterminarsi da parte della nazione o comunità palestinese. Un’illusione che i governi israeliani dopo Rabin hanno finito per condividere con un Occidente sempre più distratto.
In realtà quel territorio è un cuore-polveriera che dalle peggiori tragedie del Novecento tracima inarrestabile anche nel XXI secolo.

2. Questo ci porta ad una considerazione di ordine generale (e di metodo dell’analisi storico-politica) circa la genesi e la struttura dei conflitti: essi hanno radici e diramazioni che non possono mai essere semplificate o ridotte di complessità. Se qualcosa non viene compreso, conosciuto (e ri-conosciuto) non potrà mai essere risolto.
Chi si appende all’orrore del momento e alle passioni che esso suscita – e che può essere amplificato o rimosso ad arte dal potere mediatico e dalla macchina della propaganda – può certo approfittarne per un riposizionamento tattico, ma strategicamente e sul lungo periodo non otterrà nulla.

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Ecoansia

L’episodio della giovane che, in lacrime, confessa al ministro dell’ambiente Pichetto Fratin di essere affetta da “ecoansia”, è una limpida rappresentazione di quel che ci attende nei prossimi tempi in tema di transizione “verde”, clima e dintorni. Non tanto per la manifestazione emotiva – per certi aspetti comprensibile – quanto per la reazione di colui che in quel momento rappresentava il potere: si può anche pensare che soggettivamente il ministro si trovasse in una situazione “empatica” con la giovane spaventata, ma la scena ci dà la misura plastica dell’uso che oggettivamente il potere (i corposi interessi che ne sono espressione) farà della paura dei sudditi.
Senza voler scomodare Spinoza, ogni volta che la sfera del politico si lascia condizionare dalle passioni tristi – dalla paura, dall’angoscia, dall’ansia e da tutte le consimili sfumature emotive – abdica a quella che è la sua funzione fondamentale, ovvero la capacità di analisi, conoscenza e trasformazione razionale della realtà.

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Filosofie della storia – 3. Nuovi mondi: le Americhe, l’Oriente. “Selvaggi” e civilizzati

[traccia dell’incontro del gruppo di discussione filosofica del 16.01.2023]

Questo e il prossimo si possono considerare un unico incontro da suddividere in due puntate: tratteremo dell’istituirsi, con la modernità occidentale a partire dalla fine del XV secolo, di quella visione geostorica che via via si allargherà all’intero globo terracqueo, e che darà luogo ad una vera e propria filosofia della storia occidentale, tra Illuminismo ed epoca dell’ascesa della borghesia industriale. L’arco che ci interessa va dunque dalla “scoperta” dell’America di Colombo fino al Manifesto del partito comunista di Marx ed Engels, un arco di 350 anni il cui processo condurrà fino alla globalizzazione del tardo Novecento – e alla sua crisi negli anni ‘20 del XXI secolo.
Se nello scorso incontro ci siamo concentrati su alcuni elementi fondativi della visione storica occidentale, in particolare per quel che riguarda la temporalità e la visione “progressiva” e diveniente, ci concentreremo ora sullo spazio, ovvero sugli aspetti geografici, geostorici ed antropologici – elementi che confluiranno, tra l’altro, nella visione geopolitica contemporanea.
L’annuncio di quest0 nuovo mondo è ben testimoniato dal filosofo inglese Bacone, che vede con acume visionario nelle vele e nei cannoni – e più in generale nella tecnica – i soggetti principali di una epoca di grande trasformazione: vele e cannoni viaggiano su mari e oceani, ed è proprio questa la chiave di volta di un’accelerazione temporale della storia e di un suo allargamento spaziale come mai prima nella storia umana.

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L’epoca della guerra giusta

(Ultime – scomode – considerazioni dell’anno, sulla guerra russo-ucraina)

Imputo la mancata empatia di una parte dell’opinione pubblica, e di non pochi “compagni”, con la cosiddetta “resistenza” ucraina – nonostante l’impegno profuso quotidianamente da stampa, media, potere politico (non ultimo il servile e militarista governo Meloni) – ad un equivoco di fondo, che peraltro caratterizza il fenomeno-guerra in Occidente da oltre 30 anni: la “moralizzazione” valoriale del conflitto, col preciso scopo di camuffarne i caratteri geopolitici.
Ci troviamo cioè del tutto immersi nell’epoca della “guerra giusta” (quella esibita dall’Occidente a guida americana): mentre la Russia neoimperiale mostra la classica faccia muscolare e brutale della guerra (quella che si conduce sempre in continuità con la politica) che dominò nell’Ottocento e in larga parte del Novecento, gli Occidentali hanno vieppiù sovrapposto ai conflitti, elementi etici e metafisici volti a nasconderne la vera natura. Lo sappiamo bene dal ciclo di guerre mediorientali, poi dalle guerre jugoslave, dall’Afghanistan, dalla Libia e dall’infinita guerra al terrorismo lanciata da Bush.
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Impronte globali

Qualche considerazione sparsa sullo Strategic Concept NATO 2022.

1) Ne vien fuori una sorta di documento ideologico-strategico a tutto campo, nel quale si sostiene – in soldoni – che di qua c’è il bene e di là c’è il male. Noi siamo benigni, loro sono maligni. I nostri sono i valori buoni, i loro no.

2) In prima istanza “loro” sono i cattivi del momento (Russia – descritta come il nemico numero 1, il grande destabilizzatore dell’ordine internazionale – a seguire una non meglio specificata minaccia terroristica, Iran, Corea del Nord, insomma i soliti stati-canaglia, cui aggiungere a piacere varie entità non-statali).

3) Ma l’articolo 13 del documento – che indica nella Repubblica Popolare Cinese la principale sfida sistemica – ne esplicita il cuore: “La RPC usa una vasta gamma di strumenti politici, economici e militari per aumentare la sua impronta globale (global footprint)” – anche se (sottinteso: a differenza nostra che siamo trasparenti) il suo progetto strategico resta opaco.

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Migranti di tutti i paesi, unitevi!

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La “questione migranti” (e/o profughi) revoca in dubbio in maniera radicale il senso stesso della comunità politica (sia essa europea, nazionale o transnazionale). Non solo: revoca ognuna delle questioni – politiche, sociali, economiche, antropologiche, etiche, simboliche.
Proverò ad allinearle per sommi capi, in un quadro sintetico e non certo esaustivo. Una sorta di promemoria, di memorandum (o meglio, di contromemorandum).
È però necessaria una premessa volta a sgombrare il campo da un equivoco linguistico (la lingua, com’è noto, non è mai neutra). Distinguere tra profughi e migranti, come se solo i primi fossero investiti da un’emergenza umanitaria, è del tutto insensato: ogni migrante è un pro-fugo, un umano, cioè, che cerca scampo, in fuga da una situazione che percepisce come pericolosa se non mortale per sé e i propri cari – siano esse guerra, scarsità di cibo, avversità climatiche, mancanza di libertà/possibilità. Gli umani sono animali costituenti la propria possibilità di vita – è questo il senso profondo del concetto aristotelico di zôon politikòn – e ogni qualvolta tale possibilità viene chiusa o negata, essi hanno necessità vitale di riappropriarsene – in qualunque altro luogo e modo.
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