È probabile che abbia scritto e riscritto questo passo di Spinoza più di una volta. Però non l’ho ancora fatto nella versione di Mignini. E dunque riecco l’apologia del godimento, gioia e ri-creazione del corpo, umanità non ridotta a una sola dimensione secondo il sobrio ma vitalissimo Baruch:
«È proprio dunque dell’uomo sapiente servirsi delle cose e, per quanto è possibile, goderne (non certo fino alla nausea, perché questo non è prender diletto). È proprio dell’uomo sapiente, dico, ristorarsi e ricrearsi con cibi e bevande moderate e piacevoli, con profumi, con la delizia di piante verdeggianti, con gli ornamenti, con la musica, con gli esercizi ginnici, con gli spettacoli teatrali e con altre cose simili, delle quali ciascuno può fruire senza nessun danno altrui. Il corpo umano è infatti composto da moltissime parti di diversa natura che hanno continuo bisogno di nuovo e diverso alimento, affinché tutto il corpo sia ugualmente pronto a ciò che può seguire dalla sua natura e, quindi, anche la mente sia altrettanto atta a intendere più cose insieme».
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Non si poteva dir meglio del concetto di amore
Leibniz passa per un filosofo algido e calcolatore, oltre che cortigiano. Insomma, pur essendo stato un grande pensatore, di solito non ispira molta simpatia.
Eppure capita di leggere nei suoi scritti perle come le seguenti: «Amare… ossia aver caro è provar piacere della felicità di un altro, ovvero, che è lo stesso, accogliere nella propria la felicità altrui»; «Il bene altrui potrà infatti essere il nostro, ma come mezzo, non come fine. Io rispondo però: anche come fine, anche come ricercato di per sé, quando è portatore di gioia. Infatti tutto ciò che dà gioia viene cercato di per sé e tutto ciò che viene cercato di per sé dà gioia».
Il bacio spinozista di LudovicoVan
Oltre ai leggiadri valzer viennesi, per cominciare bene l’anno consiglio sempre l’ascolto della Nona sinfonia di Beethoven – in particolare di quel vertice musicale che è l’Inno alla gioia. All’Auditorium di Milano la sua esecuzione è consuetudine da molti anni – con più repliche a ridosso del vecchio e del nuovo anno, a mo’ di circolare auspicio di buona fine e buon principio – e io ci vado tutte le volte che posso. Quest’anno ho partecipato al rito come se fosse la prima volta, incantato più che mai dalla prima all’ultima nota, e percorso a più riprese da brividi che ho identificato come innocui spinococchi.
E del resto la poesia di Schiller An die Freude è una vera e propria ode spinoziana alla vita:
Gioia bevono tutti i viventi
dai seni della natura;
vanno i buoni e i malvagi
sul sentiero suo di rose!
…
Abbracciatevi, moltitudini!
Questo bacio vada al mondo intero!
…
Gioia si chiama la forte molla
che sta nella natura eterna.
Gioia, gioia aziona le ruote
nel grande meccanismo del mondo.
Insomma, un tripudio di perfezione ontologica percorre tutti i modi della sostanza, e ogni essere ed ogni vivente ne partecipa. Amicizia e amore e fraternità e bellezza e con-essere e profonda correlazione la fanno da padroni – peccato solo per quella nota stonata ed ombrosa:
Ontologico amore
(scrivendo qua e là frammenti – disiecta membra sorte da un unico martellante pensiero fisso – ne è venuta fuori la solita possibile triade che ogni tanto imperversa sul blog: il 3 è un numero fin troppo affollato di simboli, di fronte alla cui potenza non so resistere; eviterò però la numerazione, così da alleggerire il susseguirsi degli ontologici conati; sì, perché gira e rigira sempre lì la mente mi riconduce: a quel pensiero dominante che, con risorgente enfasi, denominiamo di volta in volta dio – sostanza – essere – eterno – fondamento – significato – verità – amore… beh, cominciamo con l’amore, poi si vedrà)
Nel Trattato teologico-politico, Spinoza affronta ad un certo punto il tema dell’amore – nella fattispecie dell’amore divino, che è insieme amore di e per Dio. Il ragionamento che qui viene condotto riguarda l’obbedienza che si deve a Dio, come essenza della fede, che si riduce e sostanzia nella legge amorosa – ama gli altri così come ami Dio. Questo criterio universale viene poi messo in pratica nella necessità di operare, poiché “la fede senza le opere è morta”. Spinoza cita Giovanni, là dove afferma che “Dio è amore” (charitas), dal che si conclude che, “nessuno percepisce o avverte Dio se non per mezzo dell’amore verso il prossimo, e [che] perciò nessuno può conoscere altro attributo di Dio all’infuori di questo amore, in quanto partecipiamo ad esso” (Tractatus, cap. 14, § 2).
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L’eco della cinciallegra
(Da qualche tempo mi frulla per la testa l’associazione tra filosofia e teatro: la discussione filosofica come drammatizzazione teatrale; il dilemma circa la verità come gioco di ruolo e delle parti; l’illusione puramente rappresentata di giungere a una qualche verità – ovverosia, la sua messa in scena; l’uscita da teatro come un ritorno filisteo alla vita che mediamente arranca; ed infine la vita stessa, come la filosofia, che è sogno. Teatro nel teatro…)
Mi ritrovo a Bose, senza sapere chi e di che cosa si parlerà. Mi ci ha trascinato un amico, che c’era stato tempo fa, il quale ha evidentemente ritenuto che dovessi andarci almeno una volta.
Massimo Cacciari era l’ospite d’onore – il grand’attore della messa in scena – invitato a parlare del senso epocale del cristianesimo (e dunque della sua possibilità). Enzo Bianchi, il generoso padrone di casa (il regista, suppongo).
Fragile gioire
Qualche giorno fa mi sono chiesto quante volte ho gioito in vita mia. Per “gioito” non intendo il buon umore, la contentezza, l’esser lieto, la felicità per qualcosa che ti è capitato, la positività, il godimento (sia fisico che spirituale), l’essere ben disposti, ecc. – tutte cose belle e buone ed auspicabili, s’intende. Il “gioire” cui qui alludo si disloca in un’altra dimensione, più vicina all’esultare (o all’esaltarsi) del tutto insensato ed irrazionale, senza alcun motivo o causa apparenti. Questa gioia nasce misteriosamente, come un fiore che sboccia nel deserto, all’improvviso, e fa smottare e deragliare ogni logica emotiva o sentimentale. Succede talvolta la stessa cosa, in termini rovesciati, con la malinconia (o l’angoscia), ma non voglio qui addentrarmi in territori ancor più complessi del già insidioso territorio delle passioni.
Torniamo piuttosto alla domanda iniziale: mi guarderò bene dal tediarvi con l’elenco (peraltro non lungo) delle volte che ho gioito o che sono “impazzito di gioia”. Ammesso, poi, che la memoria me ne restituisca dei quadri vividi e attendibili. Vorrei provare soltanto a darvene un assaggio, tramite la narrazione di quel che mi è passato per la testa (e per il corpo) durante un sabato pomeriggio di questo inizio (estivo) d’ottobre. Sono sicuro che sarà capitato anche a voi…
La schizofrenia ontologica – Oltrepassare Severino 2
Leggendo il libro di ricordi di Emanuele Severino – che com’è giusto che sia mescola esistenza e filosofia, affetti e ragionamenti, biografia e ontologia – si ha tuttavia l’impressione di una schizofrenia di fondo. Uso il termine nel suo significato originario (“divisione della mente”), senza dunque alcuna connotazione psichiatrica, per sottolineare una vera e propria Trennung filosofica, una scissione che non è soltanto quella convenzionale tra l’io e il mondo, l’individuo e la società, la finitezza della mia mente e l’intero universo nel quale quella mente si sente sperduta, ma che attiene al discorso filosofico essenziale di Severino. Lo esemplifico con due metafore da lui utilizzate nel testo:
la prima allude all’altalenante condizione del sogno e della veglia nella quale ci troviamo immersi, un tema che da Eraclito a Calderon de la Barca ha una lunga tradizione, ma che in Severino pare caricarsi di una inaudita radicalità: il sogno (“la terra isolata dal destino”) essendo la nostra condizione fondamentale, da cui emerge la via della veglia (e dunque della verità), che solo in quanto porta alla luce il sapere che l’apparire di quell’apparire non è un sogno, può indicare il “destino”, cioè lo stare assolutamente incondizionato;
la seconda metafora, di ascendenza evangelica, è quella del campo dove crescono il loglio e il grano: lo spazio dell’uno o dell’altro delimita rispettivamente quel che è proprio dell'”esser uomo” (quell’uomo errante che è Emanuele Severino), e quel che invece è “testimonianza del destino”, un Io-destino infinitamente altro dall’io-Severino. Il merito che Severino pare attribuirsi è quello che nel “suo” campo (ma è “suo”? e che cos’è il campo? – è lui stesso a chiederselo) è via via andato crescendo il grano, confinando il loglio in spazi sempre più ristretti.
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Oltre il biancospino
Se segui l’arco rosato delle nuvole, e riesci a scorgere, dopo una lieve sfrangiatura, la freccia che indica verso ovest; se abbandoni l’asfalto e le ultime case e t’inoltri nella boscaglia, ignorando le bottiglie di plastica sparse qua e là e i criminali depositi di eternit in disfacimento; se ti lasci rapire dal profumo del biancospino prima che venga sommerso da quello del fiore di robinia; se varchi illegalmente la rete tagliata a misura d’uomo e poi giri a sinistra seguendo i ciuffi di ginestra sul ciglio del dirupo, senza però farti distrarre dall’automobile abbandonata nel bosco ormai fitto, dove nessuna coppietta o nessuno spacciatore è in attività; se finalmente raggiungi il punto d’osservazione che la freccia di nuvole già ti aveva indicato senza che te ne fossi accorto, e ti metti a sedere…
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Lezione spinozista 8 – Sub specie aeternitatis
Philosophieren ist spinozieren
(G.W.F. Hegel)
Come farò a dire qualcosa di sensato sulla parte quinta dell’Etica?
C’è come una tensione sotterranea che corre in queste (peraltro non molte) pagine conclusive della grande opera di Spinoza, un voler riannodare tutti i fili, per farli convergere verso un esito unitario, che era poi anche il fuoco dell’inizio: quel Dio-sostanza da cui tutto era partito, contemplabile con un vero e proprio salto mortale ed attraverso una modalità inedita dello sguardo sulle cose e sul mondo – sub specie aeternitatis, nientemeno!
Com’è concepibile il punto di vista dell’eternità? Questo il nodo che Spinoza vuole qui sciogliere. Al che vien da chiedersi: che c’entra tutto questo discorso con quell’ampia parte dell’Etica che tratta di passioni, di corpi, di desideri, letizia, tristezza, e di tutte le forze che nel basso ventre della materia e della natura si agitano? Che rapporto possiamo mai avere – noi umani, animali tra gli animali, enti tra gli enti, modi transeunti e oscillanti dell’essere – con quella categoria altisonante che definiamo Eterno?
Come sempre la risposta (o meglio l’indizio per provare a rispondere) ci vengono dati lateralmente, in un qualche luogo del testo apparentemente secondario, magari uno scolio o un corollario, come ad esempio il seguente:
Ma si può obiettare che se intendiamo Dio come causa di tutte le cose, lo consideriamo, per ciò stesso, come causa della Tristezza. Ma a questo rispondo che, in quanto noi comprendiamo le cause della Tristezza, in tanto essa cessa di essere una passione, ossia cessa di essere Tristezza; e perciò, in quanto comprendiamo che Dio è causa della Tristezza, noi ci rallegriamo. (Scolio prop. XVIII)
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Lezione spinozista 6: lupi utilitaristi e gaudenti
C’è una proposizione della parte IV dell’Etica, la XXXVII, da cui vorrei partire per esaminare una delle questioni più importanti trattate qui da Spinoza, ovvero il concetto di utilità. Del tutto casualmente si tratta di una proposizione posta al centro esatto di questa parte, dedicata – lo ricordo – alla schiavitù umana causata dalla forza degli affetti, cioè dalle passioni. Quasi si trattasse di un grimaldello per entrare di soppiatto e capire meglio sia quel che viene prima che quel che viene dopo. Scrive Spinoza:
Il bene che chiunque, il quale segua la virtù, appetisce per sé, lo desidera anche per gli altri uomini, e tanto più quanto maggiore sarà la conoscenza che avrà avuto di Dio.
Questo passo è di una densità e di una potenza straordinarie, e sembra quasi voler mettere in relazione tutti gli elementi fin qui emersi (o, se si vuole, tutti gli elementi possibili): Dio (cioè la sostanza, cioè la natura in senso lato), gli appetiti e i desideri come modalità costitutiva e originaria dell’essere umano, la conoscenza razionale, il rapporto tra individuo e società. Ma è su quest’ultimo aspetto che vorrei appuntare l’attenzione, dato che si riaffaccia in più luoghi della parte quarta, quasi a costituirne un filo conduttore. Spinoza cita l’utilità fin dalle definizioni iniziali, legandola a ciò che è buono: “Per buono intenderò ciò che sappiamo con certezza esserci utile”.
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