Una delle questioni che torna inevitabilmente alla ribalta nella guerra in corso (che ormai è del tutto fuorviante chiamare “russo-ucraina”), è la nostra posizione – degli antimilitaristi, della sinistra radicale, dell’Italia, ma anche dell’Europa – nei confronti degli USA, e della loro propaggine militare nel vecchio continente.
Dietro la facciata della Russia imperiale e aggressiva, si nasconde in realtà uno scontro a tutto campo tra potenze, con al vertice il destino del dominio globale americano.
L’America – che già nel nome è una sineddoche che si espande su tutto il continente, il caro vecchio “cortile di casa” – fin dalla fine della seconda guerra mondiale è andata consolidando un impero globale fatto di merci, finanza, basi militari (quasi 700 in oltre 70 paesi, con 270mila soldati dislocati), con una enorme capacità di diffondere e spesso imporre un certo immaginario e stile di vita, che nella sua narrazione sarebbe una sorta di compimento universale del meglio della storia umana, un vertice antropologico veicolato dall’Occidente.
Ma dietro questa colonizzazione dell’immaginario, c’è il dato duro e puro del controllo della materia (energia, mercati, denaro e – soprattutto – sistema militare: quando non basta la dissuasione morale o l’imperativo economico, si passa alla forza bruta: le guerre americane sono state innumerevoli: “Gli USA sono stati coinvolti in vari tipi di conflitto armato per 227 anni dei 245 della loro breve storia con circa 124 scontri armati”.)
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Le parole del contagio
La morte – come da un’alta vetta –
riformula i criteri di giudizio
e ciò che non credemmo
ora scorgiamo chiaro
(Emily Dickinson)
«Non ho visto, pertanto, nient’altro da fare che provare, come chiunque altro, a sequestrarmi a casa mia e nient’altro da dire che esortare chiunque altro a fare lo stesso», così scrive Alain Badiou.
E alla domanda: “Che cosa possiamo imparare dal virus?”, Massimo Cacciari risponde seccamente: Nulla. A stare fermi un po’. Cosa volete imparare? Basta con questa retorica che dalle difficoltà si esce migliori. Il nostro cervello è lo stesso di 100.000 anni fa…
Qualcuno si sarà senz’altro chiesto che cosa può dire o fare la filosofia di fronte ad un evento come quello che stiamo vivendo, così violento e inaspettato (uno dei problemi è anche quello della sua definizione e qualificazione). Hanno ragione Badiou e Cacciari: la filosofia non può nulla. La filosofia non può modificare il corso degli eventi, la filosofia non può prevenirli, la filosofia non può nemmeno consolare gli animi. Ciò che forse può fare la riflessione filosofica è aiutare le menti ottenebrate degli umani a vedere con maggior chiarezza quel che hanno davanti (o sotto i loro piedi o alle loro spalle o dentro di loro), anche se in un senso radicalmente diverso da quello della scienza. Ecco, la scienza può provare a prevenire, modificare, curare, salvare (anche se non è detto che ci riesca), la filosofia no. La religione può provare a consolare, confortare, rasserenare, ma non la filosofia. Compito della filosofia è solo quello di dire il vero, o di provarci. La verità, una parola che può anche svelare cose che non vorremmo né vedere né sapere.
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Analisi politica breve breve
Ci fu un tempo, intorno agli anni 2000, in cui sembrò ci potesse essere un’uscita da sinistra dalla dittatura globale del neoliberismo. Poi l’11 settembre, le guerre in Medio Oriente, la crescente precarizzazione sconfissero quei movimenti. Ora sembra imporsi un’uscita da destra in risposta al medesimo problema.
In particolare, la scena politica italiana si presenta come un vero e proprio laboratorio internazionale, col suo essere egemonizzata da due forze cosiddette “antisistema”, opposte e speculari: l’una con un’ascendenza di destra tradizionale, dura e pura, l’altra che si presenta come un movimento-contenitore post-ideologico, in cui ci può stare qualunque cosa – anything goes! Ciò che le accomuna, il loro collante al di là delle differenze, è stata la creazione del capro espiatorio perfetto: immigrati, profughi, tecnocrati, euro, vecchi partiti corrotti – anche qui, anything goes, la colpa è essenzialmente di ciò che da “fuori” mina sovranità e italianità. La presa del potere di queste due forze, senza colpo ferire, è avvenuta attraverso una forma inedita di comunicazione politica, che ha avuto nei social media – con l’appello diretto, quanto generico, al “popolo” – il suo strumento fondamentale (e del popolo paiono aver conquistato tutto – teste, cuori e pance).
In questa occupazione crescente dello spazio politico, che potrebbe arrivare ad intercettare il consenso di 2/3 dell’elettorato – e dunque prospettare o un’alternanza delle due forze, oppure l’antisistema che si fa sistema, con possibili esiti autoritari – ciò che rimane del tutto tagliato fuori sono le forze di sinistra. Quella governativa (che aspirava a rappresentare il medesimo contenitore nazionalpopolare), nata solo per governare, la darei per spacciata (dissoluzione di cui non mi dolgo). Rimangono frange antagoniste sparse, frammentate e carsiche, che al momento appaiono girare a vuoto, smarrite.
Al momento anch’io, altrettanto smarrito, giro a vuoto con loro. Mi rimane il pensiero critico, forte e chiaro. Che forse non è poco di questi tempi.
#200Marx – La borghesia
6. Il bisogno di sbocchi sempre più estesi per i suoi prodotti spinge la borghesia per tutto il globo terrestre. Dappertutto essa deve ficcarsi, dappertutto stabilirsi, dappertutto stringere relazioni. Sfruttando il mercato mondiale la borghesia ha reso cosmopolita la produzione e il consumo di tutti i paesi.
(Manifesto del partito comunista)
7. Le condizioni borghesi di produzione e di scambio, i rapporti borghesi di proprietà, la moderna società borghese, che ha evocato come per incanto così potenti mezzi di produzione e di scambio, rassomigliano allo stregone che non può più dominare le potenze sotterranee da lui evocate (Manifesto del partito comunista)
8. Abolizione della famiglia!
Su che cosa si basa la famiglia odierna, la famiglia borghese? Sul capitale.
Il matrimonio borghese è, in realtà, la comunanza delle mogli.
(Manifesto del partito comunista)
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Il volto e il corpo dell’altro – 2. Stranieri, xenìa e homo migrans
“Straniero” è parola che viene dal latino extraneus, che sta per esterno, esteriore, di altri. Medesima origine ha l’aggettivo “strano” (che invece in latino era reso dalla parola novus, nel significato di insolito) – convergenza ed assonanza che dovrebbe far riflettere.
Lo straniero è così ciò che sta fuori dei confini (familiari, nazionali, etnici, culturali, linguistici, ecc.) e che è affetto da stranezza, diversità, non familiarità. È l’estraneo che provoca turbamento.
I greci avevano invece coniato una parola – “barbaro” – che definiva lo straniero come colui che non parla la lingua greca, che letteralmente “balbetta” (bàrbaros è parola onomatopeica).
Molto diverso – e altrettanto interessante – il significato della parola greca xénos, che sta sì a designare l’altro-straniero (addirittura il nemico, come in Omero), ma con sfumature molto ampie che ricomprendono anche la figura dell’ospite: xenìa indica infatti il vincolo di reciproca ospitalità. Quasi che in questa parola si accenni alla condizione universale di estraneità che può colpire in qualsiasi momento gli umani costretti a lasciare, per qualsiasi ragione, la loro casa, la loro terra, il loro paese, e che trovano confortante l’idea che da qualche parte ci sia uno straniero-ospite pronto ad accoglierlo (molto interessante a tal proposito l’ambivalenza della parola “ospite”, che indica sia il soggetto che ospita che quello ospitato).
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Proletari di tutto il mondo nazionalizzatevi
Confesso che la vittoria di Trump (così come la Brexit di qualche mese fa) non mi ha punto sconvolto, anzi. Mi ha convinto ancor più che occorre andare a fondo nell’analisi di quel che sta accadendo, cambiare paradigmi, rifondare la stessa idea di politica – in un certo senso è come se il mio pensiero critico fosse più eccitato di prima, nonostante l’orrore antropologico che provo per il nuovo presidente della potenza americana. Ma sono più che mai convinto che occorra scindere l’aspetto emotivo (l’orrore, appunto, o il disgusto) dal ragionamento e dall’analisi, che devono farsi più lucidi che mai.
Era stato Slavoj Zizek a dichiarare qualche giorno fa che il voto per Trump avrebbe avuto un significato dirompente sul piano politico – in un’ottica che in passato sarebbe stata etichettata come logica del “tanto peggio tanto meglio”. Ecco, credo che ora l’ottica sia radicalmente cambiata, e quella formula non valga più. Trump rappresenta piuttosto la sintesi, la punta di diamante (o di merda, se la metafora non piace) di un processo che appariva inarrestabile dai lontani decenni del neoliberismo anglosassone (do you remember il vangelo thatcheriano-reaganiano?).
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Intransigenza
Premesso che
1) sono molto rispettoso delle credenze e delle fedi di chicchessia
2) chiedo reciprocamente a chicchessia di esserlo del mio ateismo (anzi non-teismo) e del mio materialismo radicale
3) sono incline al relativismo piuttosto che all’antirelativismo
– non transigo tuttavia (e dunque su questo non sono per nulla relativista) sul principio illuministico, laico e libertario dell’assoluta neutralità statuale e politica per quanto concerne le suddette fedi e credenze (e ciò vale anche per le ideologie e le filosofie, naturalmente). Che dunque chicchessia può liberamente professare (se lo crede), ma senza imporle alle leggi e ai fondamenti dello Stato, né tantomeno agli altri cittadini. Su questo non transigo e sono disposto a fare le barricate: lo Stato deve rimanere non religioso, non etico, non morale, non teista, non ideologico. Senz’arte né parte. Senz’amore né sapore (nun avi né amuri né sapuri, dice il detto siciliano).
Poiché la globalizzazione impone convivenze e mescolanze forzose tra diversi, in assenza e però in attesa di future, sperabili ed utopiche armonie – molto meglio una società di cittadini che siano “stranieri morali” ma che non si facciano la guerra.
Pòlemos, sempre lui, il maledettissimo padre-padrone di tutte le cose
È da almeno un trentennio che rifletto e mi angoscio – insieme ad altre e ad altri, non certo in solitudine – sul fenomeno-guerra e sulla sua sostanza. Ve n’è un riflesso anche su questo blog, dove sono andato archiviando scritti più o meno sistematici (miei o di altri) che risentono della temperie di questo passaggio di secolo (e di millennio). Dalla politica muscolare di Reagan e dal rambismo degli ’80, passando per le guerre del Golfo, il macello balcanico, il Ruanda e la Somalia, l’11 settembre e le infinite guerre mediorientali – solo per citare quelle più eclatanti: e già il termine “eclatante” (che ho scoperto derivare dal francese éclater, ovvero “scoppiare”, dunque brillare di evidenza per un momento per poi dissolversi), pone un problema, poiché esistono guerre visibili e guerre che non lo sono. Guerre che suppurano in superficie ed altre che ribollono nelle profondità degli inferi socioeconomici; guerre che servono e sono utili al sistema ed altre inservibili – ma tutte ci dicono la nuda e cruda verità ontologica: la guerra è la modalità essenziale delle relazioni politiche globali. Vi è anzi contiguità ed intercambiabilità, se non sovrapposizione tra guerra e politica: non solo e non tanto la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi – come pretendeva Clausewitz – semmai le due realtà si tengono e sono consustanziali. La guerra è l’essenza del sistema globale, e che non sempre ciò risulti chiaro ed evidente fa parte del suo modo di essere e di funzionare: la pace non è la norma e la guerra non è l’eccezione, è vero piuttosto il contrario.
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Ridda
Pare finita l’epoca in cui nell’estate italiana furoreggiavano gialli intriganti, torbidi omicidi di contesse o avventurose fughe in catamarano. Ora tutti sembrano occuparsi di cose serie, in primo luogo di economia e di mercati valutari.
Sto seguendo questo mutamento un po’ distrattamente dalla lontananza vacanziera, filtrata dalla lieve foschia dello scirocco che sta morbidamente avvolgendo la mia isola (e il mio isolamento) in questo inizio di settembre. Così come seguo con un certo torpore tutta la ridda di provvedimenti governativi di politica economica delle ultime settimane. E devo dire che se il termine “ridda” si addice bene, quello di “politica economica” molto meno.
Ancor più distrattamente seguo la versione internazionale di tutto questo affannarsi: altra ridda di cifre, listini, grafici e panico in borsa, ondivaghe fluttuazioni, con tanti bei nomi e sigle a nascondere il vero ed essenziale nodo della speculazione (l’eterna astrazione del denaro e del capitale di cui avevo parlato qui).
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Brucia l’identità
(mentre scrivo queste note, è la brutale realtà a bruciare: esplodono le sacrosante rivolte dei migranti reclusi nei campi di concentramento a Bari e a Capo Rizzuto, o quelle dei neoschiavi di Nardò; contemporaneamente altri muoiono soffocati nei campi galleggianti che fanno la spola tra una sponda e l’altra del Mediterraneo)
Noto con un misto di rammarico, stupore – e però anche, devo confessarlo, con una punta di eccitazione intellettuale -, che nulla come le radicali critiche alle identità, la loro revoca in dubbio, suscita reazioni altrettanto viscerali. Su questo blog in genere si discute pacatamente, anche quando non si è d’accordo, senza mai strillare. Le uniche volte in cui i toni si sono davvero accesi, andando sopra le righe, si è trattato di questioni identitarie: era successo qualche tempo fa con la “questione maschile” (ho addirittura dovuto chiudere ai commenti i 2 post, cosa mai successa); è capitato di nuovo, anche se in maniera più circoscritta, con la questione del “multiculturalismo” o del “meticciato” dopo i fatti di Norvegia.
Questi due episodi possono anche non indicare nulla (e del resto questo blog è piccola cosa nel mare magnum delle discussioni in rete), e tuttavia mi fanno sospettare che il concetto di identità sia un nervo scoperto, qualcosa che brucia e che tocca sensibilità profonde. Anche, se non soprattutto, quando non riguarda (almeno apparentemente) la propria ma quella altrui – poiché è sempre l’alterità ciò che insinua dubbi, come se il volto dell’altro restituisse un’immagine diversa di sé. Se n’è già discusso in altre occasioni, soprattutto in riferimento all’interminabile riflessione sulla natura umana, ma credo occorra ritornarci.
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