Le parole del contagio

La morte – come da un’alta vetta –
riformula i criteri di giudizio
e ciò che non credemmo
ora scorgiamo chiaro
(Emily Dickinson)

«Non ho visto, pertanto, nient’altro da fare che provare, come chiunque altro, a sequestrarmi a casa mia e nient’altro da dire che esortare chiunque altro a fare lo stesso», così scrive Alain Badiou.
E alla domanda: “Che cosa possiamo imparare dal virus?”, Massimo Cacciari risponde seccamente: Nulla. A stare fermi un po’. Cosa volete imparare? Basta con questa retorica che dalle difficoltà si esce migliori. Il nostro cervello è lo stesso di 100.000 anni fa…

Qualcuno si sarà senz’altro chiesto che cosa può dire o fare la filosofia di fronte ad un evento come quello che stiamo vivendo, così violento e inaspettato (uno dei problemi è anche quello della sua definizione e qualificazione). Hanno ragione Badiou e Cacciari: la filosofia non può nulla. La filosofia non può modificare il corso degli eventi, la filosofia non può prevenirli, la filosofia non può nemmeno consolare gli animi. Ciò che forse può fare la riflessione filosofica è aiutare le menti ottenebrate degli umani a vedere con maggior chiarezza quel che hanno davanti (o sotto i loro piedi o alle loro spalle o dentro di loro), anche se in un senso radicalmente diverso da quello della scienza. Ecco, la scienza può provare a prevenire, modificare, curare, salvare (anche se non è detto che ci riesca), la filosofia no. La religione può provare a consolare, confortare, rasserenare, ma non la filosofia. Compito della filosofia è solo quello di dire il vero, o di provarci. La verità, una parola che può anche svelare cose che non vorremmo né vedere né sapere.
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Auferstehung!

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Io non credo nella resurrezione, tanto meno in quella cosa stupida e un po’ noiosa che è l’immortalità. Non ci credo perché sono convinto che non ci siano ragioni sufficienti per ritenerle cose logiche e razionali. Al più potrei concedere – dal punto di vista logico e razionale (cioè dall’unico che conosco e su cui sono in grado di argomentare) – che vi sia qualcosa come l’eternità. Un concetto peraltro algido, insapore e incolore – un po’ come l’essere. Ma non la resurrezione, così come viene religiosamente intesa. Che senso ha morire per poi risorgere? Risorgere dove, poi? Ecco, sono un immanentista materialista razionalista radicale.
Però Mahler dava molto credito alla favola della resurrezione, tanto da dedicarvi una delle sue più vaste sinfonie – la Seconda, nota appunto come Auferstehungs-Symphonie.
In questi miei fortunati anni mahleriani – ormai due decenni di ascolto appassionato, spesso dal vivo, e di meditazione – non mi era ancora capitato di scrivere qualcosa su questa sinfonia: ho parlato in questo blog – mi pare – della Prima, senz’altro della Terza, della Sesta (che avrò la fortuna di riascoltare domani), dell’Ottava (evento della stagione musicale milanese), della Nona, del Canto della terra, ma non della Resurrezione.
Si tratta di una sinfonia programmatica, che già annuncia l’intero progetto estetico mahleriano, fin dalle parole scritte nella guida all’ascolto (poi fortunatamente soppressa): all’eroe titanico della prima sinfonia, ora morto, viene posta la grande domanda: perché sei vissuto? perché hai sofferto? è tutto questo solo un grande, atroce scherzo?
Mahler intende rispondere con l’ultimo movimento della sinfonia (una conclusione sofferta e a lungo ricercata) – quel vasto poema sinfonico a quadri che si chiude con i versi del poeta tedesco Klopstock:

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Tirar fuori le idee dal naso

Un fiume in piena di sensazioni e di progettualità – questa è la forza della musica e dell’arte, che dalla vita partono e che alla vita ritornano, potenziandola; dandole più gusto e più sapore; più bellezza. La vita è bella? Sì, ma lo sarebbe meno senza l’arte.
A tal proposito, l’ascolto (dal vivo, tempo fa) di alcuni brani tratti da Il naso di Shostakovich, mi ha sollecitato un’intera gamma di possibili applicazioni estetico-pedagogiche. Che vorrei condividere con gli amici insegnanti (ma non solo) in ascolto. Nessun programma o consiglio didattico – per carità! Solo qualche anarchica suggestione creativa.

Ecco di che si tratta, brevemente.
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Berluskocrate

Leggo e ascolto in questi giorni – anche se distrattamente – analisi varie sulla resistenza ad indignarsi da parte degli italiani a proposito del loro amorale presidente del consiglio. A parte l’antico familismo altrettanto amorale di tanta parte del belpaese (insieme a un bel po’ di ipocrisia gesuitico-papista), mi è inavvertitamente passata per la testa una iperbolica ed irriverente spiegazione di tale deprecabile italico immobilismo.
Sentite un po’ qua: in realtà gli italiani nella stragrande maggioranza non s’indignano, poiché riconoscono nel loro attuale ducetto (come già nel precedente) un immorale ed anarcoindividualista novello Socrate. Tesi strampalata, direte voi. Eppure, provate a cimentarvi in qualche paragone…

A Socrate piacevano i “giovinetti”. A Berlusconi pure (vabbé, “giovinette”, ma sempre di carne fresca si tratta).
Socrate partecipava molto volentieri ai simposi. Anche il festaiolo Berlusconi non ne perde uno.
Socrate venne accusato di avere corrotto i giovani ateniesi. Berlusconi ha fatto molto di più: ha corrotto un intero paese.
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