Filosofie della storia – 4. Da Rousseau a Marx

[traccia dell’incontro del gruppo di discussione filosofica del 13.02.2023]

È a partire dal ‘700, il secolo dei Lumi, che in Europa si viene formando una coscienza storica (e filosofica) che mette insieme quei salti temporali e spaziali che avevano preparato l’epoca moderna: l’idea, cioè, di un tempo lineare e progressivo e di uno spazio geografico globale, insieme al problema crescente della relazione tra le diversità culturali ed antropologiche, trovano una prima grande sistemazione concettuale nei filosofi a cavallo tra XVIII e XIX secolo, in un arco che va da Rousseau a Marx. Già Vico, poco prima, aveva chiamato non a caso “scienza nuova” la storia – l’unica scienza rigorosa possibile: se è vero che verum e factum corrispondono, e che la natura è fatta da Dio e solo Dio può conoscerne le leggi interne, allora ciò deve valere per la storia in relazione agli uomini, che proprio perché la fanno possono conoscerla dall’interno. Manca ancora un passo, che verrà fatto solo nel secolo successivo: poiché gli uomini fanno la storia, possono eventualmente anche disfarla e deviarne il corso.
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Filosofie della storia – 1. Il tempo umano: storia, memoria, oblio

[traccia dell’incontro del gruppo di discussione filosofica del 14.11.2022]

1. Quella che si vuol condurre in questo ciclo di incontri è un’indagine sulla storicità, ovvero il tentativo di andare a vedere quali sono i fondamenti della propensione umana a fare storia, a muoversi su linee del tempo, trasformando se stessi, gli ambienti naturali, le organizzazioni sociali.
La storicità è un portato “ontologico”, “naturale” dell’essere umano? Una sua facoltà costitutiva ed originaria, così come il suo essere politico per Aristotele? Oppure esistono culture senza storia, civiltà che della storia hanno fatto il loro fulcro e civiltà immobili, società fredde e società calde, per usare la distinzione dell’antropologo Lévi-Strauss?
Ovviamente non potremo non chiederci che cos’è la storia, anche se è alle sue spalle (o alle sue radici) che proveremo a muoverci, con la consapevolezza che proprio lo storicizzare, il concepire cioè ogni manifestazione umana e naturale come “storica”, sia parte essenziale della nostra mentalità (nella fattispecie della civiltà occidentale, che ha inevitabilmente condizionato gran parte delle culture e civiltà moderne): dunque ci chiederemo da storicizzati che cos’è che storicizza e rende storico il modo di guardare al mondo, un’operazione ai limiti dell’equilibrismo.
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“L’uomo libero a nessuna cosa pensa meno che alla morte”

(traccia dell’incontro del Gruppo di discussione filosofica del 10 gennaio 2022)

Nonostante Canetti dica in maniera tranchant che la filosofia non ha nulla a che spartire con la morte (semmai la religione), fin dagli inizi i filosofi non hanno fatto altro che misurarsi con la morte e la finitezza umana. Lo hanno fatto nelle maniere più diverse: sostenendo che meditare la morte sia utile al fine di prepararsi ad affrontarla, oppure che sia meglio non pensarvi affatto e rimuoverla dal nostro animo, oppure identificandola come il senso profondo dell’esistenza umana. Ho individuato 7 filosofi (meno uno che non lo è di professione) per 7 idee sulla morte, che ci danno conto di questa varietà di vedute e di sensibilità. Il primo paradosso è che sette morti ci dicano qualcosa sulla morte – e la dicano proprio a noi che non potremo mai saperne nulla, essendo vivi. Per ora. La morte è una soglia che sfugge del tutto alla nostra comprensione.

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“La morte, stratagemma per ottenere molta vita”

XAM66129 Death and Life, c.1911 (oil on canvas) by Klimt, Gustav (1862-1918); 177.8×198.1 cm; Private Collection; Austrian, out of copyright

(traccia dell’incontro del Gruppo di discussione filosofica del 13 dicembre 2021)

Ci sono due modi fondamentali di considerare la morte: diciamo, per semplificare, uno oggettivo ed uno soggettivo. Il primo guarda la morte da lontano, come un fenomeno naturale, nel suo intreccio necessario con la vita e con il variare delle sue forme (ciò di cui ci siamo occupati la volta scorsa). È un guardare la morte come se non ci riguardasse: è una finzione consentita proprio dalla nostra facoltà cognitiva, dalla capacità di astrarre. Anche dal modo di funzionare della coscienza, dalla sua capacità di duplicazione – di scindere se stessa dal mondo, io dal non-io. In verità è un atteggiamento tipico della filosofia, ereditato poi dalla scienza nell’epoca moderna. Vedremo stasera come la filosofia degli inizi, in particolare quella dei presocratici, si occupò della morte in questi termini, come un elemento dialettico del divenire e dei processi naturali.
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“Innumerevoli forme e meravigliose”

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La vita ha qualcosa di inafferrabile. Fa parte di quella categoria di concetti che, per l’eccessiva generalità o profondità, sfuggono alla possibilità di essere definiti – un po’ come succede coi concetti di essere o totalità o natura: tutti sappiamo che cosa si intende con quei termini, ma volendoli definire ci si avvolge in difficoltà… tipicamente filosofiche. «Benché sperimentiamo la vita quotidianamente – scrive il chimico e divulgatore scientifico Jim Baggott – e siamo in grado di riconoscerla facilmente quando la vediamo, in effetti non sappiamo davvero che cosa essa sia».
Nel caso del fenomeno della vita, è stata la scienza a prendere il sopravvento in epoca moderna (già era successo con il mondo fisico, lasciando alla filosofia le briciole dei concetti poco interessanti per la vita pratica degli umani). Per la biologia moderna la vita diventa un problema da risolvere, mentre per la filosofia rimane un enigma che non può essere sciolto. Noi qui ci occuperemo innanzitutto del problema, lasciando ai margini l’enigma (e il fascino del mistero), anche se vedremo come nel linguaggio scientifico finiscano poi per ricorrere termini e categorie di ordine filosofico.

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Crescere in leggerezza

Il ciclo di incontri che – covid permettendo – darà vita quest’anno al Gruppo di discussione filosofica, giocherà sull’opposizione gravità/leggerezza. Lo spunto viene dalla prima delle Lezioni americane di Italo Calvino (l’espressione “crescere in leggerezza” che dà il titolo al ciclo, si trova nelle Città invisibili). Ma non sono in grado di anticipare molto, prima di tutto perché non c’è alcuna tesi precostituita, bensì solo un insieme di spunti da cui partire, una direzione possibile da prendere, e alcuni testi che ci potranno aiutare; in secondo luogo perché di leggerezza parlerò più specificamente nel secondo incontro, quello dedicato al testo di Calvino e alle suggestioni (letterarie, ma non solo) intorno ai concetti di leggerezza e di invisibilità.
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7 parole per 7 meditazioni – 6. Spazio

Premessa inevitabile e contingente: stiamo sperimentando in questi giorni una forma molto particolare (e inaspettata) di spazio – quella della distanza di sicurezza, della misura che ci allontana dall’altro e ci protegge (o, viceversa, protegge l’altro) dal contagio.
Esiste dunque anche uno “spazio” e, addirittura, una “metafisica” della peste. Ne ha parlato, ad esempio, Sergio Givone in un bel saggio di qualche anno fa. Lo spazio, in questi termini, ci appare come uno “spazio vitale” (Lebensraum era parola terribile dell’ideologia nazionalsocialista) – lo spazio che ciascun vivente occupa e che non può essere condiviso con un altro vivente, il quale si deve tenere a debita distanza. Viviamo nell’epoca per antonomasia dell’immunizzazione e della biopolitica: lo stato istituisce e gestisce lo spazio vitale nel quale i corpi che lo compongono (vedi Hobbes!) devono essere sani e immuni. La cultura sembrerebbe non essersi poi così allontanata dalla natura.
D’altro canto lo strato sterile ed immunizzante che ci avvolge – l’igiene, il mondo artificiale, la tecnologia, le macchine, gli algoritmi – crea l’illusione di una separazione (e protezione) dalla natura e dai suoi pericoli. L’ecumene, lo spazio umano, sovrasta la biosfera, lo spazio naturale. Ma è sufficiente un virus – o un piccolo sommovimento della sfera terrestre – a sconvolgere le nostre certezze, e a riprecipitarci nell’angoscia originaria. Lo spazio torna a contrarsi, se non a sbriciolarsi.
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7 parole per 7 meditazioni – 5. Superuomo

[mentre esponevo questa introduzione al pensiero di Nietzsche, guardando i volti pur attenti dei presenti, cresceva in me la sensazione di una lontananza abissale tra le loro – le nostre – vite e quel pensiero, sensazione che si è acuita durante l’imbarazzata discussione, specie quando il Superuomo ha preso a stagliarsi lì nel mezzo, con tutte le sue ambiguità; vero è che è la natura stessa della filosofia a rappresentare questa apparente lontananza, resa plasticamente fin dalle origini con l’immagine della serva tracia che sbeffeggia Talete caduto in un fosso per aver guardato il cielo; questa sensazione di disagio e di straniamento nel caso di Nietzsche cresce a dismisura, perché il suo pensiero e il suo linguaggio sono ben più che abissali, e finiscono per erodere il terreno sotto i nostri piedi, provocarci le vertigini e lasciarci senza appigli; se le domande filosofiche sono troppo radicali e hanno la forma di espressioni perturbanti – che ne è della tua vita e del suo senso? dove poggiano e dove vanno i tuoi piedi? che fine hanno fatto le tue certezze e verità? guarda che dio è morto! sicuro della tua nicchia, del tuo spazio, delle tue comodità? d’ora in poi si naviga a vista! – e se poi sono formulate nel modo più paradossale, elitario e supponente, ci fanno storcere il naso; ma a ben pensarci solo un pensiero così terribile, che ci scuote fin nelle fibre più interne, ci può indurre a pensare in grande; del resto nessun medico, né del corpo né dell’anima, ce lo prescrive, e si può vivere benissimo (o malissimo o metà e metà) anche senza leggere gli urticanti aforismi nietzscheani, anche se… fatti non foste a viver come bruti, né tantomeno in forma di gregge o meccanismo…]

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7 parole per 7 meditazioni – 4. Persona

Il concetto di persona ci svela fin dall’etimologia il problema riguardante le teorie dell’individualità: persona è, letteralmente, maschera (dal greco prosopon mediato forse dall’etrusco phersu), termine teatrale che allude alla duplicità, se non addirittura alla doppiezza, o comunque alla stratificazione e molteplicità di quella parte di noi stessi che denominiamo “io”. Pare che il primo filosofo ad utilizzare “persona” sia stato lo stoico Panezio, nel II secolo a.C.: interessante notare come gli stoici concepissero il ruolo dell’individuo in termini di “parte” (moira) nel destino del mondo – un po’ come la maschera svolge un ruolo nella scena teatrale.
Già tutti questi termini – io, me stesso, individuo (non-diviso, equivalente latino del greco a-tomos), persona, cui possiamo aggiungere soggetto, anima, coscienza – non sono affatto sovrapponibili, ciascuno di essi allude a significati o sfumature diverse; in ogni caso, quando parliamo di noi stessi, la prima cosa che salta agli occhi è proprio questa molteplicità : io sono io, ho un’identità (il nome è già una definizione di singolarità), ma se vado poi a vedere che cosa c’è in questo contenitore individuale – cosa c’è dietro la maschera-persona – scoprirò una varietà di elementi, spesso contraddittori. Io sono vasto, contengo moltitudini, dice Walt Whitman.

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