L’angelo del focolare

Domenica scorsa ho visitato la retrospettiva milanese dedicata a Max Ernst (è a Palazzo Reale fino a fine febbraio e consiglio di non perderla).
Tra le opere esposte c’è questa, importantissima, del 1937, dipinta da Ernst al termine della guerra di Spagna, con doloroso presentimento di quel che si stava scatenando in Europa:
«L’angelo del focolare è un titolo ironico per una specie di trampoliere che distrugge e annienta tutto quello che incontra. Questa era la mia impressione di ciò a cui il mondo stava andando incontro, e ho avuto ragione» – avrebbe poi dichiarato.
La NATO e la Russia si stanno mobilitando per una guerra di lungo corso (la Russia intende mobilitare un milione e mezzo di soldati, l’Europa intende aumentare la sua produzione di armi – ma non sappiamo ancora se, oltre alle armi, manderà i suoi giovani a morire per Kiev e per i “valori” sbandierati ogni giorno). La guerra ucraina potrebbe essere l’innesco, così come lo fu la guerra di Spagna: riusciremo, almeno questa volta, a smentire le visioni di Ernst e a ricacciare indietro i suoi mostri tutt’altro che surreali?
Ogni giorno che passa lo credo sempre meno.

L’epoca della guerra giusta

(Ultime – scomode – considerazioni dell’anno, sulla guerra russo-ucraina)

Imputo la mancata empatia di una parte dell’opinione pubblica, e di non pochi “compagni”, con la cosiddetta “resistenza” ucraina – nonostante l’impegno profuso quotidianamente da stampa, media, potere politico (non ultimo il servile e militarista governo Meloni) – ad un equivoco di fondo, che peraltro caratterizza il fenomeno-guerra in Occidente da oltre 30 anni: la “moralizzazione” valoriale del conflitto, col preciso scopo di camuffarne i caratteri geopolitici.
Ci troviamo cioè del tutto immersi nell’epoca della “guerra giusta” (quella esibita dall’Occidente a guida americana): mentre la Russia neoimperiale mostra la classica faccia muscolare e brutale della guerra (quella che si conduce sempre in continuità con la politica) che dominò nell’Ottocento e in larga parte del Novecento, gli Occidentali hanno vieppiù sovrapposto ai conflitti, elementi etici e metafisici volti a nasconderne la vera natura. Lo sappiamo bene dal ciclo di guerre mediorientali, poi dalle guerre jugoslave, dall’Afghanistan, dalla Libia e dall’infinita guerra al terrorismo lanciata da Bush.
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La verità (orwelliana) della guerra

Visto ciò cui abbiamo assistito in questi 9 mesi (ma direi in questi ultimi anni), e andando con un po’ di memoria alla storia, ciò che ci dovrebbe agghiacciare è l’esilità del concetto di verità. Non sto parlando di “verità assolute”, ma di verità fattuali, verificabili con i sensi e con la ragione.
Basti pensare alle variabili narrative dell’incidente polacco dell’altro ieri: ciò che lì conta non è davvero quel che è successo, ma quel che si decide che sia successo – quel che il soggetto o i soggetti che hanno il maggior interesse e la maggiore potenza di fuoco propagandistica per affermare quell’interesse, decidono che sia la verità del momento.
La memoria va alla pistola fumante di Bush (e dell’alleato Blair), le fialette di antrace esibite per giustificare e scatenare la seconda guerra all’Irak.
Il fatto che in questa fase Biden abbia deciso di bloccare il delirio guerrafondaio di Zelensky o che il governo polacco abbia fatto una frettolosa retromarcia, non modifica la sostanza del problema – e ciò vale anche per l’altro fronte propagandistico, dove la guerra continua ad essere pervicacemente denominata “operazione speciale” secondo una neolingua di stampo orwelliano.
Ma ciò era chiaro (o doveva esserlo) fin dall’inizio: la guerra semplifica/distorce la realtà e riduce la verità a sua volta ad uno strumento di guerra. La guerra uccide la ricerca della verità. Siamo così appesi al filo delle verità decise di volta in volta dai guerrafondai. Verità brandite, plasmate, nascoste – che forse un giorno gli storici proveranno a ricostruire e decifrare. E i filosofi a criticare e ripensare – sul volo crepuscolare della nottola di Minerva. Ma oggi sono “verità” che si tramutano nel giro di un lancio d’agenzia in bombe, missili, distruzione e morte.

Pòlemos

«In caso di attacco (non sporadica cannonata) al territorio russo, la Russia risponderà come ogni potenza nucleare risponderebbe nello stesso caso. Non è mai la prima opzione, per ovvi motivi, ma è una delle opzioni. Poi per carità, facciamo sempre finta che Putin sia un buffoncello che strilla a vuoto. Finora ciò che ha detto lo ha fatto. Io, a differenza di chi vuole chiamare il bluff sperando sia tale, spero che tutto questo sia propedeutico a un congelamento del conflitto. Io voglio che la guerra finisca, altri vogliono fare le gare».

Così lo storico Francesco Dall’Aglio.
Anch’io temo i folli che “vogliono fare le gare”. Che vogliono vincere. A tutti i costi.
Ma è la guerra – ora è chiarissimo, e non bisognerebbe mai dimenticarsene nemmeno negli apparenti tempi di pace – a costituire l’intelaiatura del mondo.
È modificabile questo mondo? Sì. Ma è dalla distruzione di quella tela malata – massima (ed eraclitea) espressione dell’ingiustizia e della dismisura – che occorre sempre ripartire.

Dopo due mesi

Guerra-matrioska, mobilitazione emotiva, ipocrisia neoliberale, “naturalità” della guerra, antimilitarismo unica opzione.

La guerra sta rapidamente cambiando natura, obiettivi, strategie, persino attori (o meglio: sta emergendo ciò che in origine era poco chiaro o in seconda linea). Questa sua rapida trasformazione da apparente guerra locale a guerra potenzialmente globale, se non smonta il mantra aggressore/aggredito della prima ora, lo complica, anche perché la moltiplicazione dei fronti (e delle linee gotiche) rende ormai pressoché impossibile – salvo per gli amici guerrafondai degli imperialisti dei due fronti – schierarsi da una parte o dall’altra. Ma, ancor di più aumenta il rischio che chi non vuole la guerra, ne venga stritolato. Gli antimilitaristi devono perciò elaborare una teoria e una prassi all’altezza di una situazione cangiante e in continua evoluzione.
Ma proviamo a fare un minimo di analisi e a fissare alcuni punti.

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Non stuzzicate l’orso russo

Mettere in fila i fatti, andare alla radice dei processi, ricercare le cause di quel che accade oggi – è l’unico modo per non ritrovarsi con lo sguardo ebete e lacrimoso che la propaganda e la narrazione occidentale a reti e media unificati ci vogliono imporre (poi, dall’altra parte della nuova cortina di ferro la stessa cosa starà facendo la propaganda russa).
Ma i fatti parlano chiaro (e se avete pazienza di guardare fino in fondo questo documentario – della durata di un’ora e 15 minuti – qualche idea in più ve la potrete fare, anche se in verità sarebbe bastato avere un po’ di memoria storica e un occhio più attento alla politica internazionale degli ultimi 30 anni, ed essere meno pigri).
Riassumendo: il processo di nazificazione della sfera politica ucraina è un fatto incontestabile; così come altrettanto incontestabili sono state le manovre americane volte a portare l’Ucraina ad ogni costo nel campo occidentale – Nato compresa, e con la collaborazione diretta, sul campo, dei gruppi nazisti e sciovinisti. Parlare di “eterodirezione” sembra quasi un eufemismo.
La politica imperiale americana è riassunta dallo slogan neocon “quando hai un martello tutti i problemi cominciano ad assomigliare a dei chiodi”. La loro opinione nei confronti dell’UE è riassunta dal celebre “Vaffanculo all’Europa” della Nuland. La russofobia dilagante dopo il 2014 trova un vertice nell’espressione “la biomassa amorfa di stomaci viventi che parla russo”, pronunciata da uno dei tanti apologeti di Stepan Bandera.
La scellerata politica occidentale della “porta aperta” della Nato all’ultimo pezzo di Europa volta a prendere per il collo la Russia e a piazzargli i missili a un tiro di schioppo da Mosca, ha totalmente ignorato i continui appelli di Putin: come stupirsi che dopo tutto questo abbia scelto l’opzione militare?
“Non stuzzicate l’orso russo”: lo disse Bismarck, che se ne intendeva.

Logica di potenza

Quel che ho capito (fin qui) di questa guerra, in 17 punti

1. Premessa: per capirci qualcosa spegnere la TV e, soprattutto, ricordarsi che l’informazione in questa fase è essenzialmente propaganda.
2. Seconda premessa: Putin non è pazzo, e psichiatrizzare (o animalizzare) i “nemici” non solo è una strategia perdente e un po’ infantile, ma ci riporta al punto 1 con enorme danno per la comprensione.
3. Lo scontro è essenzialmente geopolitico, solo in seconda battuta economico e in terza valoriale, anche se in una guerra contano tutte le variabili e gli elementi in campo, senonché questi possono essere percepiti diversamente dai vari attori.
4. La posta in gioco la conoscono ormai anche i bambini: la Russia non può tollerare che venga completato il puzzle di accerchiamento ai suoi confini, innanzitutto da parte della NATO.
5. L’invasione dell’Ucraina non ha lo scopo di conquistare l’Ucraina (tranne per la Crimea, già annessa nella precedente guerra, e immagino una zona di collegamento con la Russia), altrimenti l’esercito russo avrebbe adottato tutt’altra strategia e potenza di fuoco.
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Le faglie della guerra

La guerra irrompe e, come sempre, rovescia i tavoli, spariglia le carte, sconvolge gli equilibri. Lascia attoniti e crea sconcerto – soprattutto in chi non ne sa riconoscere i segni e la fenomenologia: la guerra è l’intelaiatura profonda della vita e delle società umane, esattamente come la morte lo è per la vita. In tal senso, la guerra incombe perennemente su di noi. Ma ora si è mostrata di nuovo col suo vero volto, in fatti, carne e sangue.
Quando la guerra irrompe crea immediatamente due epifenomeni che le sono congeniti: una cortina fumogena diffusa, che confonde ancor di più il contorno delle cose; una radicale semplificazione delle cose, un’ontologia del bianco e nero, dell’amico/nemico, del di qua o di là. Nonostante essa sia il portato della complessità (e tragicità) del mondo, al contempo si presenta come la grande negatrice della sua complessità.

Fatte queste premesse generali, occorre però provare a dissolvere quella cortina e, senza lasciarsi condizionare dalla retorica bellica della semplificazione, accingersi ad un minimo di analisi che tenga fuori ogni emotività.
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