JJR 2 – L’arcano della proprietà

Qualche giorno fa una ricca ministra del governo italiano in carica, rivendicava la propria ricchezza come “non peccaminosa”, e come qualcosa di cui non ci si debba vergognare. A parte l’interessante accostamento alla sfera del sacro, la suddetta ministra rimuoveva l’ovvietà (sepolta sotto anni di pesante restaurazione) di dover rendere conto delle cause e delle radici di quella ricchezza. Non tanto della sua propria – di cui m’interessa poco (e su cui i riccastri fanno di solito leva, per argomentare con la naturale passione umana dell’invidia) – ma, più in generale, della genesi e struttura della proprietà in quanto tale. Continuare a suonare la campana a morto del pensiero marxiano, che aveva messo il dito sulla piaga, non li esime  certo dal dover rispondere alla domanda essenziale: donde viene, qual è il senso storico, sociale ed antropologico della loro ricchezza? come si è originata ed accumulata? e che cosa se ne fanno?
Sono domande che, come appare evidente, esulano dalla sfera etica o morale. Non è con i sensi di colpa che si cambiano le cose, ma con il “movimento reale che abolisce lo stato di cose presente”. Togliere il velo dagli occhi di chi guarda e il velo dell’oblio dai rapporti sociali (cos’altro è la ricchezza se non questo?), è semmai il compito primario del pensiero critico.
Ascendendo di causa in causa, uno degli affluenti più importanti del fiume marxiano è proprio il pensiero politico-antropologico di Jean-Jacques Rousseau, in particolare quello del Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza fra gli uomini, la cui rilettura attenta consiglierei al ministro di cui sopra…

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Ciclohasard!

Mi hanno sempre colpito il concetto di caso (e quello collaterale anche se non coincidente di contingenza), così come la categoria logica di necessità (piuttosto freddina e austera) e quella un po’ irrazionale, ma tanto utilizzata dagli umani, di destino. Sia in ambito storico che nelle nostre piccole e poco importanti vicende quotidiane, ne facciamo abbondante uso. Il nostro esserci, in quanto esser nati, è molto contingente (l’estro  momentaneo o la sbronza di una sera, più l’incontro del tutto casuale di materia organica), ma una volta che siamo al mondo ci sentiamo legati dalla necessità (dobbiamo nutrirci, respirare e prima o poi morire). Tra l’inizio e la fine, poi, arzigogoliamo e ricamiamo ed immaginiamo non poco su quell’arco vitale, cui cerchiamo di dare un senso, una direzione, farfugliando talvolta la parola “destino”.
Io credo tanto poco al destino quanto a babbo natale – se per destino si intende una sorta di pre-scrittura della trama, un disegno anche solo abbozzato. Certo, le condizioni date ci faranno andare in una direzione piuttosto che in un’altra, ma poi c’è sempre quell’elemento contingente e casuale (il lucreziano clinàmen) ad intervenire e a scompaginare i piani: l’incontro con una persona, con un evento – od anche con un macigno che ci cade sulla testa…

Il cappello serviva ad introdurre una specie di riflessione generale su questi temi, che parte dall’analisi particolare del mio quarto incidente (non devastante) in bicicletta, e che intende usarlo, insieme ai tre precedenti, come ausilio esemplificativo. Non so dove condurrà, ma mi affascina sapere che anche tale minuscolo fatto occorsomi, sottosta alle categorie di cui sopra, e nonostante si tratti  di una cosetta da nulla  (visto che ne sto scrivendo qui e ora). Tanto più che è accaduta contemporaneamente ad altri miliardi di fatti (altra cosa sorprendente), una pressoché illimitata serie che va dalla caduta di una briciola alla chiusura di una fabbrica alla morte per fame di un certo numero di persone, fino all’esplosione dovuta a una supernova in qualche remoto angolo dell’universo. Dal punto di vista di quelle categorie (così come dell’essere) tutti quei fatti, ci piaccia o no, si equivalgono.

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