Qualche sera fa, nel corso di un incontro “antagonista” su salute pubblica, pandemia, guerra, scienza e controllo sociale, nel dibattito seguito alla relazione è emerso il tema delle “sfumature”.
La relatrice – l’amica Nicoletta Poidimani – aveva evocato nel suo lungo e articolato intervento la questione del riduzionismo: in questi mesi di delirio guerrafondaio si è parlato spesso di “complessità” e del rischio di semplificare il reale, fino a renderlo incomprensibile (o una pappa sentimentale fatta di buoni e cattivi).
Nel biennio pandemico – sindemico e pandelirante – abbiamo assistito e vissuto sistematicamente a fenomeni di riduzione binaria, contrapposizione amico/nemico, simulazione di guerre civili, creazione di capri espiatori, streghizzazione, militarizzazione (nel linguaggio e nella prassi: occorre ricordare che la vaccinazione di massa in Italia è stata gestita da un generale).
Poi la guerra, che cova sempre, anche se da qualche altra parte, è arrivata. E allora il binarismo, lo stare di qua o di là, il bianco e nero, lo schema guelfi/ghibellini, si è riproposto pari pari.
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Filosofia in 100 corti – 58
Le foglie di Hume
Foglie di aceri, betulle, carpini, sambuchi, roveri… di tali e tanti colori cangianti e sottili sfumature, da non essere nemmeno nominabili – a maggior ragione in questo passaggio di stagione. Un’accelerazione sfuggente del divenire delle cose. Ed insieme, un tentativo vano di afferrarne – e di fissarne in parola – senso e sembianza. Nominare qualcosa che è già altro da quella nominazione. Dire qualcosa che è già oltre quel dire. Vedere qualcosa che è già diventato invisibile.
Un millennio fa, durante il mio primo esame di filosofia, il professor Giovanni Piana mi fece una domanda a tal proposito. Credo fosse in relazione ad un testo di Hume sulla percezione, e sulla nostra capacità di graduarne le infinite possibilità. O qualcosa del genere, dato che – all’epoca digiuno di filosofia – non ci capii un accidente.
Ora forse ne afferro un po’ di più il senso. Ma è il senso della domanda ad essermi chiaro – mentre la variopinta moltitudine dell’essere continua a sfuggirmi, come è bene che sia. Eppure è in questo gioco di fuga e definizione – in questa dialettica eterna – che solo si può cogliere quella moltitudinaria espressione dell’essere. Altro non ci è dato.
Routinari
Era stato David Hume a focalizzare l’attenzione sul concetto di abitudine – custom in lingua inglese – ritenendola una delle spiegazioni fondamentali del comportamento umano, e riducendo addirittura ad essa gran parte delle categorie scientifiche e metafisiche (con la mediazione della constant conjunction, anch’essa piuttosto abituale). Siamo, appunto, abituati a veder sorgere e tramontare il sole, e dunque siamo certi – certezza che facilmente diventa legge causale, verità, necessità assoluta – che questo continuerà ad accadere. Si tratta, secondo Hume, di abituali e costanti associazioni.
In questi giorni ho sentito parlare di abitudine in due contesti molti diversi – uno strettamente letterario, nel corso della lettura piacevolissima ed intelligentissima del celebre Discorso sulla servitù volontaria di Étienne de la Boétie: “ma senza dubbio l’abitudine, che in ogni campo esercita un enorme potere su di noi, non ha in nessun altro campo una forza così grande come nell’insegnarci la servitù”.
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Quinta parola: libertà
[Sommario: Libertà e filosofia – L’uomo-misura di Protagora – Socrate eroe classico della libertà – Diogene hippy e cosmopolita – Il giardino di Epicuro – La catena degli stoici – Il libero arbitrio di Agostino – L’uomo proteiforme di Pico della Mirandola – Necessità e libertà in Spinoza – Stato e individuo: il liberalismo – Libertà, natura e spirito – L’oltreuomo nietzscheano – Sartre e l’esistenzialismo: libertà come possibilità – Libertà moltitudinaria – Responsabilità, alterità e libertà]
Il concetto di libertà è piuttosto sfuggente e, soprattutto, cangiante: epoche e culture diverse intendono questo termine in maniere inevitabilmente diverse. Ma senza voler entrare nella molteplicità dei significati e delle sfumature, evocare la libertà nel campo filosofico significa evocare nello stesso tempo una delle condizioni essenziali del pensiero: di libertà i filosofi hanno bisogno come l’aria, senza libertà di pensiero non ci può essere filosofia.
Ma di che cosa realmente parliamo quando parliamo di libertà? Da che cosa (o di che cosa) siamo (o dobbiamo) essere liberi? E poi: possiamo davvero esserlo, o si tratta di una pura illusione?
Ci faremo queste domande scorrendo velocemente il pensiero di alcuni filosofi o correnti filosofiche, dalla grecità all’epoca contemporanea.
Quinto lunedì: la fiducia, cura delle passioni tristi
[Utilizzerò come traccia il saggio di Michela Marzano Avere fiducia, che ha un taglio divulgativo, anche se talvolta disomogeneo e dispersivo – un testo che comunque offre molti spunti di riflessione interessanti, che credo saranno utili alla nostra discussione].
Farò due esempi per cominciare, uno personale l’altro tratto dalla Marzano:
-l’esercizio della caduta
-il dilemma del prigioniero
Il primo esempio ci offre un taglio emotivo ed istintivo della fiducia, mentre il secondo ce ne offre un profilo squisitamente razionale.
Anni fa, ad un laboratorio teatrale cui partecipavo, i conduttori ci fecero fare un esercizio in cui ciascuno avrebbe dovuto lasciarsi cadere all’indietro, di schiena, confidando nel fatto che qualcun altro del gruppo lo avrebbe preso. Non tutti riuscirono ad eseguire l’esercizio: tanto il gettarsi, quanto il bloccarsi avevano probabilmente a che fare con dei gesti istintivi, di cieca fiducia (per quanto simulata) nel primo caso, di paura nell’altro.
Michela Marzano ci parla ad un certo punto del “dilemma del prigioniero”, un celebre problema matematico-probabilistico della teoria dei giochi: due criminali vengono arrestati, separati e fatta loro una proposta di confessione così concepita: se uno confessa e l’altro no, il primo viene liberato e l’altro condannato a dieci anni; se entrambi confessano verranno condannati tutti e due a 5 anni; se nessuno dei due confessa, dovranno scontare 1 anno di prigione. In questo caso (tralasciando la casistica e la discussione sulla probabilità delle scelte, che oscilla dall’egoismo della prima opzione al solidarismo della terza), ciò che emerge è piuttosto l’aspetto razionale e di calcolo della fiducia (per chi volesse approfondire il dilemma, è consultabile la voce su wikipedia, anche se con una formulazione diversa, mentre la Marzano ne parla alle pagine 39-40).
Entrambi gli esempi si reggono sulla fiducia, che pare però oscillare tra l’istinto e la decisione razionale, non essendo riducibile a nessuna delle due dimensioni.
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JJR 6 – Rousseau psicopatologico
«È come un uomo che si trovasse nudo, non solo di vestiti, ma della sua stessa pelle e così si trovasse a dover lottare contro le intemperie e i turbini, che perpetuamente agitano questo basso mondo» – il giudizio di David Hume su Rousseau, dopo il non facile sodalizio dell’esilio inglese del 1766, ha l’aria di un “crudo referto clinico”. Il Rousseau degli ultimi anni si sente un proscritto dal genere umano, è preda di varie manie e fobie, e vive in un vero e proprio contesto di sovreccitazione psichica. Intendiamoci: lungi da me voler patologizzare (e men che meno psichiatrizzare) il filosofo ginevrino e la sua biografia. Prima di tutto perché, almeno in parte, aveva ben ragione di sentirsi perseguitato, visto che era stato condannato nel 1762 e, durante il soggiorno parigino, era sottoposto a stretto controllo poliziesco. E, in secondo luogo, è proprio della natura del pensiero roussoiano il non voler espungere da sé gli elementi passionali e spuri, sporchi e talvolta incontrollabili – il mondo inconscio e sentimentale nella sua irriducibilità alla ragione.
Non è un caso che l’ultimo Rousseau sia quello insulare, narcisista e ipertrofico delle Confessioni, dei Dialoghi e delle Reveries – un vero e proprio catalogo di scritture che testimoniano un forsennato lavorìo di scavo su di sè, un irrequieto ed interminabile monologo interiore.
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Il riso inestinguibile degli dèi
[Sommario: Il cominciamento – Certezza e verità – La questione gnoseologica – Adaequatio rei et intellectus – Lo scacco empirista – La soluzione kantiana – La circolarità hegeliana – Sostanza che si fa soggetto – La fatica del concetto – La dissoluzione del fondamento – Petitio principii in Schopenhauer]
E’ proprio del discorso filosofico interrogarsi sul problema del cominciamento. Anzi, di più: è la ragione essenziale dell’esserci della filosofia. Senza la domanda sul cominciamento non c’è domanda filosofica. Non è un caso che fu la domanda essenziale che si posero i primi filosofi, alla spasmodica ricerca dell’arché. Senonché la natura di quel concetto, e il problema che esso pone, ci interroga sul senso stesso del domandare – a prescindere dal domandato. Cominciare un discorso filosofico significa, formalmente, dar conto di quel che si dice, non presupporre nulla che non sia chiarito. Tuttavia il cominciamento di cui qui si parla non è solo un problema di forma, bensì di sostanza: non è solo la giustificazione soggettiva, ma anche quella oggettiva del cominciare. E il problema sta proprio in questa apparente divaricazione originaria tra forma e contenuto – quella che Hegel definisce opposizione di certezza e verità. Di che cosa si accerta il filosofo, se non della verità che evidentemente è già data per intero? Il cominciamento è dunque l’approccio soggettivo a quell’intero, la modalità particolare di accesso (o di non accesso) all’universale – che è come dire che una parte si annette l’intero.
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Introduzione alla filosofia – 4. La filosofia moderna
Il nodo principale che affronteremo questa sera, e che attraversa tutta la filosofia moderna, specialmente da Cartesio in poi, riguarda il rapporto tra soggetto e oggetto. La costituzione di questi due termini e la loro cangiante e problematica relazione.
1. Medioevo e modernità
Ma facciamo prima qualche passo indietro.
Ci siamo lasciati alle spalle un intero millennio, quello che è stato definito Medio-evo, età di mezzo. L’età che separa l’antichità (o la classicità) da quella che evidentemente si ritiene una nuova era (guarda caso in concomitanza con la scoperta – o meglio, la conquista – di un Nuovo Mondo).
Possiamo schematizzare questo passaggio con una successione categoriale di ciò che catalizza l’attenzione dei filosofi, e di ciò che finisce per caratterizzare lo spirito delle epoche che si vanno succedendo:
Dio – natura – uomo
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