Mi ha sempre affascinato (e un po’ inquietato) la chiusura della Settima Sinfonia di Mahler: una poderosa, talvolta chiassosa e triviale ascesa verso la gioia più luminosa, che prima di assestare il colpo finale dell’orchestra evoca un’ombra sonora su tutte le cose, come a dire: non illudetevi, c’è luce e gioia, ma le tenebre e il dolore incombono, e con ogni probabilità saranno loro a dire l’ultima parola!
Del resto questa è la sinfonia mahleriana più “notturna”: sono ben tre le sezioni dedicate alla notte – le due Nachtmusiken (secondo e quarto movimento) che circondano lo Scherzo centrale, una danza macabra e grottesca, un vero e proprio sabba nel cuore della notte – che per certi aspetti è il vertice della sinfonia. Il primo movimento era stato un crescendo funesto e funebre (connesso senz’altro all’andamento emotivo della precedente sinfonia, la “Tragica”). Poi la lunga notte. Ed infine l’incedere della luce, che però richiama inevitabilmente l’ombra sul finale.
Nulla di nuovo nella concezione sinfonica mahleriana, che è essenzialmente dialettica, e che intreccia vita e morte e tutte le contrastanti e divenienti forme dell’essere: dalla Terza – sinfonia della creazione e della metamorfosi, dove la Natura sta ancora al centro della scena – fino alla Nona e a Das Lied von der Erde, i grandi canti del cigno, del congedo e della dissolvenza.
Ma torniamo alla notte: proprio mentre mi preparavo ad un nuovo ascolto della Settima sinfonia all’Auditorium di Milano, diretta dalla bravissima Zhang Xian, mi è capitato tra le mani un piccolo libro intitolato Elogio alla notte, un “inno a occhi socchiusi” di Claudio Marucchi.
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Tag: illuminismo
Intransigenza
Premesso che
1) sono molto rispettoso delle credenze e delle fedi di chicchessia
2) chiedo reciprocamente a chicchessia di esserlo del mio ateismo (anzi non-teismo) e del mio materialismo radicale
3) sono incline al relativismo piuttosto che all’antirelativismo
– non transigo tuttavia (e dunque su questo non sono per nulla relativista) sul principio illuministico, laico e libertario dell’assoluta neutralità statuale e politica per quanto concerne le suddette fedi e credenze (e ciò vale anche per le ideologie e le filosofie, naturalmente). Che dunque chicchessia può liberamente professare (se lo crede), ma senza imporle alle leggi e ai fondamenti dello Stato, né tantomeno agli altri cittadini. Su questo non transigo e sono disposto a fare le barricate: lo Stato deve rimanere non religioso, non etico, non morale, non teista, non ideologico. Senz’arte né parte. Senz’amore né sapore (nun avi né amuri né sapuri, dice il detto siciliano).
Poiché la globalizzazione impone convivenze e mescolanze forzose tra diversi, in assenza e però in attesa di future, sperabili ed utopiche armonie – molto meglio una società di cittadini che siano “stranieri morali” ma che non si facciano la guerra.
Rousseau è su Facebook! (e ci guarda)
Byung-Chul Han legge l’attuale società globale come pervasa dal mito della trasparenza.
Si attribuisce a questo termine, in genere, una caratteristica di positività: un potere trasparente, rapporti trasparenti tra le persone, maggiore trasparenza nell’agire pubblico dovrebbero in teoria giovare al buon funzionamento della società.
Salvo che, a ben vedere, La società della trasparenza (questo il titolo del suo recente saggio edito in Italia da nottetempo), proprio in quanto affetta da un eccesso di positività (tutto in evidenza, nulla in ombra, via ogni negativo) si trasforma in un dispositivo sociale quantomai oppressivo.
Han, com’è nel suo stile, abbozza molti argomenti senza approfondirli, esponendoceli in una serie di brevi capitoli per tesi e suggestioni. Sullo sfondo i concetti già esposti nel breve saggio La società della stanchezza (società della prestazione, iperpositività, autosfruttamento, ecc.).
Riprenderò qui alcuni riferimenti che potremmo definire “inquietanti” a proposito del concetto di trasparenza inteso come “far luce”, “illuminare”, “svelare”, significati tipici (se non archetipici) del pensiero filosofico da Platone in poi.
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JJR 4 – Sulla volontà generale
Meglio avrei fatto a non spingermi
tanto in là con lo sguardo.
Il problema della volontà generale in Rousseau deriva dal fatto che non ce ne viene fornita una definizione precisa. Nel Contratto sociale se ne parla a più riprese, come se però fosse una categoria di per sé chiara, autoevidente. Né il suo autore si preoccupa di analizzare i concetti che la vanno a comporre: anche in questo caso Rousseau deve aver pensato che i due termini presi singolarmente non avessero alcun bisogno di essere discussi.
Non possiamo quindi far altro che ricavarne obliquamente e allusivamente – o per differenza – il significato. Certo, il contesto risulta ben chiaro: il bene comune in contrapposizione ai singoli interessi privati, il generale contro il particolare, il sociale prima e più dell’individuale.
Ma è il termine “volontà” ad inquietare, dato che potrebbe apparire una sorta di metabasi in altro genere, il trasferimento cioè di un concetto in un ambito differente da quello per cui è stato coniato.
(Per quanto Schopenhauer andrà ben oltre, metafisicizzando la volontà in una sorta di forza primordiale che agita la materia e superagisce le individualità).
Qual è dunque il soggetto che vuole, nell’ambito della sovranità politica? E come può questo soggetto determinare ciò che vuole in modo definito? Ma soprattutto: che cosa ci garantisce che voglia il bene universale?
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JJR 3 – Rousseau reazionario
“Commencez par resserrer vos limites”
(J.J.Rousseau, Sur le gouvernement de Pologne)
Accanto ad un Rousseau rivoluzionario (quello del secondo Discorso e di alcune idee contenute nel Contratto Sociale) c’è un Rousseau altrettanto convintamente reazionario. Se ne trovano tracce un po’ in tutta la sua produzione filosofica e letteraria – ma direi che il testo che più rappresenta questo suo aspetto è il romanzo epistolare Giulia o la Nuova Eloisa, che fu tra l’altro un vero e proprio best seller per l’epoca.
Al di là della vicenda (abbastanza noiosa) ci viene descritta una comunità che nella mentalità di Rousseau assume caratteristiche archetipiche: quello di Clarens è un vero e proprio modello insulare di convivenza e di risoluzione delle controversie umane. A metà strada tra il naturalismo sauvage e il familismo patriarcale, Rousseau pare qui alludere al sogno di una convivenza fuori del tempo, autarchica, più Gemeinschaft (comunità, appunto) che Gesellschaft (società atomizzata), un idillio più che un progetto politico, una presa di distanza dalle affollate ed insensate capitali per immergersi nella ciclicità della vita rurale. Proprio per questo occorre un rigido ordine gerarchico: ruoli, riti sociali, differenza di genere, apologia del lavoro – tutto comporta una quotidianità pacificata, ed una tonalità reazionaria talvolta imbarazzante.
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VIVA LA VIDA Y LA REVOLUCION
And I discovered that my castles stand
Upon pillars of sand, pillars of sand
Anche se oggi è un po’ passato di moda parlare di rivoluzione, il 14 luglio rimane pur sempre una data importante che amo celebrare, e cui vorrei dedicare un brindisi. Ricordo che da bimbo il 1789 fu forse la prima data storica che memorizzai, e ricordo anche di averla immagazzinata una volta per tutte col trucco della numerazione progressiva. Fu forse da allora che subisco il fascino della parola “rivoluzione” con le idee e i termini connessi.
Crescendo, ho poi imparato che nelle rivoluzioni non è tutto rosa e fiori – anche perché scorre molto sangue (ma dove non scorre, sia nella storia che nel quotidiano?). Ma ancor più mi ha amareggiato il dover constatare che quasi (se non tutte) le rivoluzioni del passato sono state delle magnifiche promesse, degli inizi prodigiosi che (quasi) sempre finiscono per tradire le idee e i principi da cui sono sorte, e inevitabilmente sembrano destinate a degenerare. Letteralmente: a snaturare il senso della loro genesi. Dalla rivoluzione all’involuzione col blocco di ogni possibile evoluzione – sembra quasi una legge storica. Da un grande movimento orizzontale di popolo alla china di una qualche feroce dittatura o di un qualche ingessamento se non tradimento degli ideali. Questo non significa certo che non sia contento che le rivoluzioni siano accadute o che (speriamo) accadano ancora in futuro, è solo che sarebbe auspicabile che la loro forma venisse a sua volta trasformata e rivoluzionata. Una sorta di rivoluzione della rivoluzione! Gli è che le rivoluzioni, per loro natura, non sono certo programmabili, prevedibili o gestibili – se non in minima parte.
60 ANNI DI COSTITUZIONE – Teste vuote e tolleranza degli intolleranti
“E’ vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista” – così recita la XII disposizione transitoria e finale in coda alla nostra Costituzione.
Ricordo che uno dei primi dibattiti politico-teorici che molto mi appassionò verso i 14 anni, fu proprio quello che riguardava la libertà di espressione e di associazione per tutti coloro che vi attentano. Banalmente: i fascisti hanno diritto di parola, visto che me lo vogliono negare?
Gli articoli 17 e 18 della Costituzione garantiscono ai cittadini il diritto di riunirsi e di associarsi liberamente. L’articolo 21 garantisce il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero. L’articolo 49 sancisce il diritto di libera associazione in partiti “per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. Sembrano, questi, almeno in parte, in contrasto con la disposizione sopra citata. Un fascista, un nazista, un antidemocratico, un intollerante, uno xenofobo, un razzista hanno diritto di cittadinanza in uno stato libero e democratico? Cioè, possono liberamente predicare contro quegli stessi valori che gli consentono la libertà di espressione?
Ma, visto dall’altro lato, può il potere impedire ad alcuno di esprimere liberamente le proprie opinioni? Non è già questo un atto che mina le stesse fondamenta della convivenza democratica?
In nome della “ragion di stato” e della “difesa della democrazia” si possono commettere atti nefandi, e del resto succede di continuo (recentemente Guantanamo, la riabilitazione della tortura e Abu Grahib hanno gettato molto fango sulla democrazia più “avanzata” del mondo…).
D’altro canto, si può permettere a individui, gruppi e partiti – che utilizzano gli spazi democratici – di delegittimarli quando non di chiuderli?
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RELATIVISMO III – La pace di Westfalia e gli stranieri morali del Texas
Sto assistendo con noia e continui sbadigli al dibattito in corso, a proposito dei temi cosiddetti “sensibili” su eticità, stato laico e dintorni. La mia noia non nasce certo dal fatto che non ritenga importanti quei temi (e l’accesa discussione che talvolta anima questo blog ne è piccola testimonianza), quanto dall’ignoranza e dalla protervia che spesso mostrano i vari interlocutori. Che tanto per cominciare sembra non abbiano ben chiari nemmeno i termini basilari della questione e che parlino giusto perché ne hanno facoltà (come se non esistesse anche quella di tacere).
Bisognerebbe intanto che dessero una rinfrescata alla loro memoria storica, andandosi magari a rileggere il capitolo della storia europea intitolato Guerra dei trent’anni, con quel che ne seguì. Una delle tappe cruciali della costituzione del concetto di laicità è infatti la pace di Westfalia, che pose fine nel 1648 a quella guerra terribile e devastante, che, tra le altre cose, vide massacri senza fine tra protestanti e cattolici. L’Impero Asburgico, ci piaccia o no la sua idea, prefigura quel che lo Stato laico sarebbe diventato più tardi, e cioè il simbolo di unità e di garanzia al di sopra della molteplicità e del pluralismo politico, religioso e culturale. Proprio onde evitare l’infinita guerra civile che la diversità religiosa porta quasi naturalmente con sé, specie laddove si tratta di monoteismo.
Hugo Tristam Engelhardt jr., bioeticista “cattolico ortodosso texano” come si autodefinisce, sembra considerare irreversibile l’idea nata in quel di Westfalia, a differenza del papa e della proliferante coorte di politicanti devoti. Egli ritiene la società postmoderna una società inevitabilmente abitata da “stranieri morali”, cioè persone che non appartenendo alla stessa comunità, praticano scelte morali differenti, al punto da apparire reciprocamente immorali.
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FEDE E RAGIONE, ovvero dell’oxymoros perfetto
C’è una parola che va molto di moda da qualche tempo, che è “ossimoro”. Deriva dal greco oxymoros, ed è composta da oxùs, acuto e moròs, stupido: come dire capra con cavoli, cioè accostare due termini che non c’entrano l’uno con l’altro, o meglio che sono agli antipodi (basti come esempio quello della “guerra umanitaria”). Mi pare che parlare di “fede e ragione” sia uno dei tanti ossimori oggi ricorrenti. Proverò a mostrare perché.
Iuxta propria principia! – ecco che cosa dà sui nervi al conservatorismo teocratico di cui papa Ratzinger è l’estremo (e speriamo ultimo) celebre rappresentante – non diversamente dal “pensiero” di Osama Bin Laden, magari meno raffinato ma sostanzialmente identico. Tutto ciò che non è mosso dall’esterno (in ultima analisi da Dio: vi ricordate il detto “non si muove foglia che Dio non voglia”?), e che si prova a spiegare attraverso principi propri e razionali, ebbene ciò va respinto come foriero di relativismo e di nichilismo. Dalle concezioni cosmologiche all’autodeterminazione della donna, il fronte che separa l’eteronomia ecclesiastica e fideistica dall’autonomia umanistico-razionale sta tutta in quel principio discriminante.
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AUTODETERMINAZIONE
Il concetto di “autodeterminazione”, come forse tutti i concetti, ha una natura ancipite e bifronte. Mi spiego: se ne può tracciare un profilo puramente teorico, astratto, ma è nella prassi, nei movimenti storici e sociali che può essere scorto e osservato all’opera in tutta la sua sostanzialità.
Partiamo dal primo fronte, quello teorico. E’ forse per la prima volta in epoca illuministica che l’autodeterminazione viene teorizzata. Certo, non con questo nome, ma la critica radicale dell’autorità e della tradizione ne definiscono bene le coordinate di fondo. In particolare, la famosa definizione kantiana di illuminismo come uscita dalla minorità può attagliarsi benissimo a quel concetto: “illuminismo è la liberazione dell’uomo dallo stato volontario di minorità intellettuale che è l’incapacità di servirsi dell’intelletto senza la guida d’un altro; questa minorità è volontaria quando la causa non sta nella mancanza d’intelletto, ma nella mancanza di decisione e di coraggio nel farne uso senza la guida di altri. Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti del tuo proprio intelletto”. Mi pare che una definizione concettuale di “autodeterminazione” non potrebbe essere più precisa.