Il giovane Karl Marx

Ho molto apprezzato il film del regista Raoul Peck sul giovane Marx, uscito in questi giorni nelle sale cinematografiche, proprio alla vigilia del bicentenario della nascita. Certo, sarebbe stato meglio omaggiare il barbuto di Treviri con una bella rivoluzione – cosa di cui ci sarebbe un gran bisogno – ma per ora dobbiamo accontentarci delle rievocazioni. Che peraltro appaiono molto meno spettrali di qualche decennio fa, quando, dopo il crollo del mondo sovietico, i sicofanti delle magnifiche sorti e progressive del liberismo si erano affrettati a suonare la campana a morto del comunismo e del suo più importante pensatore. Dimenticandosi che si possono anche nascondere sotto il tappeto gli effetti collaterali ingiusti del loro mondo a senso unico – ma se la merda, l’alienazione e l’infelicità mortifera prodotti dal capitale continuano a crescere insieme al valore e alla ricchezza, prima o poi qualche crepa si aprirà.
Ed è esattamente questo il momento in cui si cominciano a fare i conti con trasformazioni che, come ai tempi di Marx, potrebbero essere foriere sia di immani disastri che di future rivoluzioni. Tempi quantomai ancipiti, dunque, che, al netto di una certa misantropia e di un crescente fastidio per la cancrena antropomorfica, possono persino risultare belli da vivere. Giusto per vedere cosa potrà succedere. E, tornando al film, è proprio ciò che lo rende più interessante: concentrarsi sul pensiero sorgivo di Marx, una potente anticipazione (purtroppo talvolta scambiata per fede o profezia) dei tempi a venire.
Al di là di questa atmosfera generale che vi si respira, il film ha altri meriti (anche teorici, cosa non semplice per una pellicola) che è bene porre in evidenza:
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Se questo è un uomo

Il derelitto, De Pisis

Non credo di avere mai incontrato un umano più derelitto. E sì che di luoghi di miseria e di derelizione ne ho frequentati nella mia vita. Gli mancava una gamba e si reggeva malamente sulle stampelle, ubriaco e maleodorante, gli occhi gonfi e tumefatti, i capelli arruffati e sporchi, la bocca deforme a farfugliare parole incomprensibili. Un senso di profonda sgradevolezza e di disarmonia emanava dalla sua figura, quasi che ogni dettaglio fosse stato studiato per respingere gli altri umani.
Ho provato lo stesso ad avvicinarlo.
Veniva dalla Romania – se ho capito bene – da dove dev’essere stato cacciato, probabilmente in qualità di rom, e, sempre se ho capito bene, la gamba gli è stata maciullata da un treno, dalle parti di Parma. Per uno che si muove quasi solo lungo i binari della ferrovia ad elemosinare, magari ubriaco fradicio, dev’essere una possibilità da mettere in conto, evidentemente.
Parlava di un amico (un connazionale?) che – qui proprio non sono riuscito a capire – o lo ha spinto o lo ha trattenuto, oppure è stato trattenuto da lui. Mimava insistentemente il gesto di afferrare qualcosa, e poi piangeva. Anzi, piagnucolava.
Brutto, sporco – non certo cattivo. O non più di altri. Di certo abbrutito dalla vita.
-Cu cazzu sì? – gli ha urlato un simpaticone di passaggio sul corridoio del treno. Più stronzo che simpatico, direi.
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Brexit (di piacere)

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Ad esser sincero, quando stamane ho appreso i risultati del referendum sulla Brexit, ho sentito un brivido di compiacimento. Non so da cosa sia derivato: forse dalla mia antica propensione al conflitto e allo scompaginamento di giochi e strutture consolidate – non certo da ponderato ragionamento. Più pancia (o cuore) che cervello, insomma. Fatto sta che ho detto: te va! gli inglesi (ma non gli scozzesi e non gli irlandesi) hanno dato un bello scossone a questa Europa così poco amata, vituperata, burocratizzata. Parrebbe più i vecchi che i giovani, più le campagne che le città.
Non ho competenze (o sfere di cristallo) per dire cosa succederà, se sia bene, male o indifferente. Ma non ce l’hanno nemmeno i più insigni economisti ed opinionisti (spesso pagati profumatamente per dire banalità). D’altro canto la Gran Bretagna ha sempre avuto un piede fuori e uno dentro l’Unione europea, e si teneva stretta la sua sterlina, quindi non è che sia poi tutta questa rivoluzione (e comunque le rivoluzioni le fanno i popoli, mica i mercati).
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Lucrose carni

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Ad alcuni umani succede questo.
Nascono, balestrati dal caso e dalla fortuna, in certe terre e/o nazioni anziché in altre.
Vengono trafitti da guerre e miserie, che certo non hanno scelto né sono cadute dal cielo.
Fuggono terrorizzati verso altre terre e/o nazioni e nel corso del viaggio si trasformano in lucrosa carne da trasporto.
Se non crepano per strada o per mare, giungono in queste nuove terre dove subito si trasformano in lucrosa carne da carità e, nel medesimo tempo e luogo, in lucrosa carne politica ed elettorale.
Se hanno superato tutte le precedenti prove, avverrà l’ultima e definitiva metamorfosi: al dio capitale piacendo, diventeranno lucrosa carne da lavoro.

Filosofi, maghi, deboli e prepotenti

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«Ci sono fondati motivi per credere, anzitutto in base agli insegnamenti della storia, che realtà e verità siano sempre state la tutela dei deboli contro le prepotenze dei forti. Se viceversa un filosofo dice che “la cosiddetta ‘verità’ è una questione di potere” perché fa il filosofo invece che il mago?».

[Maurizio Ferraris, Manifesto del nuovo realismo]

Seconda parola: lavoro

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Utilizzerò come filo conduttore per la serata alcuni testi piuttosto classici, anche se molto diversi tra di loro, non prima però di aver dato uno sguardo all’origine etimologica della parola lavoro, per la quale mi limito a riportare la relativa voce di wikipedia:

“Il termine lavoro riporta al latino labor con il significato di fatica. Sono noti i detti della letteratura classica “durar fatica” e “operar faticando“. Ancora oggi in alcuni dialetti si utilizzano i termini “faticare”, “andare a faticare”, per intendere “lavorare” e “andare a lavorare”. Altro termine di parlate italiane per “lavoro” è travaglio, dal latino tripalium (strumento di tortura), per esempio in siciliano “lavorare” si dice “travagghiari” e in piemontese “travajè ecc.”

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La cacciata dal paradiso terrestre

Cominciamo col più classico dei libri:

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Pòlemos, sempre lui, il maledettissimo padre-padrone di tutte le cose

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È da almeno un trentennio che rifletto e mi angoscio – insieme ad altre e ad altri, non certo in solitudine – sul fenomeno-guerra e sulla sua sostanza. Ve n’è un  riflesso anche su questo blog, dove sono andato archiviando scritti più o meno sistematici (miei o di altri) che risentono della temperie di questo passaggio di secolo (e di millennio). Dalla politica muscolare di Reagan e dal rambismo degli ’80, passando per le guerre del Golfo, il macello balcanico, il Ruanda e la Somalia, l’11 settembre e le infinite guerre mediorientali – solo per citare quelle più eclatanti: e già il termine “eclatante” (che ho scoperto derivare dal francese éclater, ovvero “scoppiare”, dunque brillare di evidenza per un momento per poi dissolversi), pone un problema, poiché esistono guerre visibili e guerre che non lo sono. Guerre che suppurano in superficie ed altre che ribollono nelle profondità degli inferi socioeconomici; guerre che servono e sono utili al sistema ed altre inservibili – ma tutte ci dicono la nuda e cruda verità ontologica: la guerra è la modalità essenziale delle relazioni politiche globali. Vi è anzi contiguità ed intercambiabilità, se non sovrapposizione tra guerra e politica: non solo e non tanto la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi – come pretendeva Clausewitz –  semmai le due realtà si tengono e sono consustanziali. La guerra è l’essenza del sistema globale, e che non sempre ciò risulti chiaro ed evidente fa parte del suo modo di essere e di funzionare: la pace non è la norma e la guerra non è l’eccezione, è vero piuttosto il contrario.
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JJR 2 – L’arcano della proprietà

Qualche giorno fa una ricca ministra del governo italiano in carica, rivendicava la propria ricchezza come “non peccaminosa”, e come qualcosa di cui non ci si debba vergognare. A parte l’interessante accostamento alla sfera del sacro, la suddetta ministra rimuoveva l’ovvietà (sepolta sotto anni di pesante restaurazione) di dover rendere conto delle cause e delle radici di quella ricchezza. Non tanto della sua propria – di cui m’interessa poco (e su cui i riccastri fanno di solito leva, per argomentare con la naturale passione umana dell’invidia) – ma, più in generale, della genesi e struttura della proprietà in quanto tale. Continuare a suonare la campana a morto del pensiero marxiano, che aveva messo il dito sulla piaga, non li esime  certo dal dover rispondere alla domanda essenziale: donde viene, qual è il senso storico, sociale ed antropologico della loro ricchezza? come si è originata ed accumulata? e che cosa se ne fanno?
Sono domande che, come appare evidente, esulano dalla sfera etica o morale. Non è con i sensi di colpa che si cambiano le cose, ma con il “movimento reale che abolisce lo stato di cose presente”. Togliere il velo dagli occhi di chi guarda e il velo dell’oblio dai rapporti sociali (cos’altro è la ricchezza se non questo?), è semmai il compito primario del pensiero critico.
Ascendendo di causa in causa, uno degli affluenti più importanti del fiume marxiano è proprio il pensiero politico-antropologico di Jean-Jacques Rousseau, in particolare quello del Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza fra gli uomini, la cui rilettura attenta consiglierei al ministro di cui sopra…

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Manifesto della vergogna

“La Vergogna è Tristezza accompagnata
dall’idea d’una nostra azione che
immaginiamo biasimata da altri”
(Baruch Spinoza)

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“Mi hanno tolto il gusto di essere
incazzato personalmente”
(Giorgio Gaber)

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Mi vergogno di abitare in un paese che non sa fare a meno di mandare al potere ometti ridicoli e grotteschi, mascellati o ceronati che siano.

Mi vergogno di abitare in un paese la cui legge elettorale viene definita ufficialmente “Porcellum”.

Mi vergogno di un paese dove il telespettacolo permanente di nani, ballerine, soubrettes, calciatori, ruffiani e cortigiani è diventato il nucleo centrale dell’opinione pubblica.

Mi vergogno di un paese in cui gli uomini di potere dicono cose irripetibili e irriferibili sulle donne e sulle loro parti anatomiche – senza che altri uomini e altre donne non se ne vergognino al punto da destituirli e cacciarli a pedate in una di quelle stesse parti anatomiche.

Mi vergogno di un paese che non ha più il senso comune e, soprattutto, il senso del comune.

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