La mafia è una montagna di merda, il capitale pure

Giovanni Impastato è passato qualche sera fa da Rescaldina, fortemente voluto dall’amministrazione comunale che della legalità e della battaglia contro le infiltrazioni mafiose ha fatto una delle sue bandiere e priorità.
È stato generoso e rigoroso, di fronte ad una sala piena e attentissima. Indicherei nei seguenti quattro punti la sostanza della sua visione delle cose italiane, in relazione alla mafia e alla vicenda del fratello Peppino – eroe civile di questo paese:

1. La storia di Peppino Impastato va inquadrata all’interno della storia italiana, per lo meno a partire dagli anni ’40, in particolare dalla prima strage di stato, avvenuta a Portella della Ginestra il 1° maggio 1947: fu quello il primo atto di guerra (preferirei chiamarlo così, più che strategia della tensione) contro le battaglie sociali dei contadini che dal basso dei movimenti chiedevano terre, diritti, partecipazione concreta alla vita nazionale.
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Volontà generale

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Né malmostosi né osannanti – di fronte alla sovranità popolare (e non all’accozzaglia) che si esprime. Meglio pacati e riflessivi.
Questo, mi pare, il dato essenziale del voto referendario di ieri da cui ripartire: c’è stata una grande ed inaspettata partecipazione popolare che, al di là delle differenze dei motivi di ciascuna e ciascuno e delle inevitabili confluenze di umori e malumori, ha espresso una chiara volontà generale (Rousseau insegna!) di riappropriazione di sovranità.
È dunque quantomeno inopportuno che questo o quel partito, questo o quel leader s’intesti la vittoria: l’espressione popolare dice chiaramente che il problema, semmai, è proprio la loro incompetenza e pochezza, è proprio il deficit di rappresentanza. E che il tentativo di risolvere i problemi della crisi sociale e il governo della complessità non si fa con le scorciatoie a colpi di maggioranze o di persone al comando. Un tentativo riduzionistico che fu sconfitto nel 2006 e viene sconfitto nuovamente, in maniera secca, oggi. Il problema non è la costituzione, che ha un suo equilibrio e che certo non è intoccabile (ma nemmeno disponibile ad essere piegata alle esigenze contingenti) – il problema è la classe politica, non all’altezza del suo compito. E il problema, più ampio, è quello della disgregazione sociale generata dalla follia neoliberista, da tutti i governi fin qui succedutisi assecondata (e, dagli ultimi tre, senza un chiaro mandato popolare).
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Italodicea

Al di là dell’angoscia, della doverosa e fraterna solidarietà, dell’umana pietas – sempre più provo una strana ed estenuata forma di rassegnato fatalismo (e sempre meno il montare della rabbia di un tempo), quando mi trovo a considerare il contesto sociale, antropologico, culturale e politico nel quale si situano le italiche disgrazie.
Fin da bambino ho periodicamente assistito a catastrofi (spesso annunciate, come si suol dire), con spargimento di lacrime ed autoflagellazioni, ritornelli sulla mancata prevenzione e poi a seguire smemoratezza, canto del cigno, pietra tombale su tutti i buoni propositi. In attesa della successiva catastrofe. Siano dighe, terremoti (dal Belìce in poi), frane e alluvioni, lo scenario che si ripropone è sempre il medesimo. Gli argomenti e le lamentazioni pure.
Avremmo dovuto fare, prevedere, costruire meglio, mettere in sicurezza – faremo, costruiremo, investiremo. Ma la sensazione è che, gattopardescamente, nulla cambi mai.
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Signor giudice

da-facebook

Ieri sera Gherardo Colombo era qui a Rescaldina.
Sotto la formula simpatica e molto comunicativa della chiacchierata a tu per tu con le persone (che non gli ha certo impedito di rispondere, com’è nel suo stile, a muso duro), senza microfono e gironzolante per la sala – si è trattato in verità di un’impietosa lezione di socioantropologia dell’Italia contemporanea.
Ne ho ricavato un elenco di considerazioni (qualcuna presa pari pari, qualcuna reinterpretata, qualcuna indotta):
-finita Mani Pulite, continua Tangentopoli, ad libitum
-ostilità (da me stracondivisa) per ogni “penalismo” forcaiolo: le leggi più severe non servono, anzi sono funzionali al sistema (vedi grida manzoniane)
-ostilità (da me indotta) per quella oscenità del tutto inutile e controproducente che sono le carceri
-ostilità per l’eccesso di leggi, che sono più facili da aggirare
-regole chiare, ma soprattutto: bene comune (a lettere cubitali, come recita la Costituzione inapplicata)
-da cui: apologia delle tasse (lui non l’ha detta così, ma io sì: le tasse sono belle, dovute e sacrosante)
-in Italia non c’è uno stato, ma un sistema intrecciato di consorterie, familismo, mafia diffusa
-colpa nostra: i cittadini devono farsi sentire, informarsi, sapere, conoscere. Chi lo fa davvero?
-strano che in un paese così cattolico si rubi: ma il cattolicesimo italiano è sempre stato inquisitorio, ben poco misericordioso
-i peccati mortali son quelli degli altri, i nostri sono peccatucci veniali
-e di fatti è il paese per antonomasia dei pentiti: se ti confessi ti premio, se fai questo ti do in cambio quest’altro…
-nota sul potere: perché ci sono persone che ne vogliono accumulare così tanto? la risposta è in Elias Canetti: vogliono sopravvivere agli altri (possibilmente tutti) e non morire mai
-quando nel 1992-93, dopo i potenti, si cominciò a indagare sui comuni cittadini… fine dell’indignazione (e delle monetine) e ascesa di Silvio Berlusconi. Casualità?
-occorre un salto, una discontinuità. In verità, meglio sarebbe la morte di un sistema, e la rinascita di un altro dalle sue ceneri (in Italia non c’è mai stata una vera rivoluzione, nemmeno la Resistenza ci si è avvicinata)
-partire da sé, educazione, cittadinanza: ma la libertà è faticosa; essere sudditi è più comodo e più semplice, c’è qualcuno che ti dice sempre che cosa devi fare
-occorre scegliere tra le dande e una pericolosa responsabilità…

Un’Italia piccola piccola

Un’Italia mesta e rancorosa, livida, risentita.
Un’Italia manganellara, che bolla, ostracizza e proscrive.
Un’Italia che esala miasmi e contumelie velenose.
Un’Italia piccola piccola, mediocre, furbetta, lamentosa e irresponsabile.
Un’Italia becera, incolta, ignorante e che lo rivendica pure.
Un’Italia più pancia che cervello, dei forconi e delle forchette.
Un’Italia turpe, egoista, stronza.
Un’Italia smemorata e che però rimesta nel torbido.
Un’Italia perennemente fascia e machista,
che gira e rigira cerca e desidera sempre l’uomo forte.
Non so a voi, ma a me questa Italia spaventa.
(C’è poi l’altra Italia, lo so bene.
Ma ora come ora ho davanti agli occhi questa).

Titaniche metafore

Ahi serva Italia, di dolore ostello
nave sanza nocchiere in gran tempesta,
non donna di provincie, ma bordello!
(Purg., VI, 76-8)

È fin troppo facile (ed anche un po’ perfido) utilizzare la tragedia della nave Concordia per esercitarsi in metafore, che se da una parte potrebbero apparire tutt’altro che azzardate, finirebbero comunque per essere stucchevoli. Eppure quel che è accaduto l’altro giorno all’isola del Giglio – e che va accadendo in questi giorni nel dantesco “bordello” delle nostre città – costituisce uno straordinario analizzatore socio-antropologico.
Ne cito in modo sparso e disordinato – come del resto la realtà appare in sé – i principali fenomeni, lasciando che ciascuno stabilisca per proprio conto legami e nessi causali, ed eventuali sintesi.

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Manifesto della vergogna

“La Vergogna è Tristezza accompagnata
dall’idea d’una nostra azione che
immaginiamo biasimata da altri”
(Baruch Spinoza)

***

“Mi hanno tolto il gusto di essere
incazzato personalmente”
(Giorgio Gaber)

***

Mi vergogno di abitare in un paese che non sa fare a meno di mandare al potere ometti ridicoli e grotteschi, mascellati o ceronati che siano.

Mi vergogno di abitare in un paese la cui legge elettorale viene definita ufficialmente “Porcellum”.

Mi vergogno di un paese dove il telespettacolo permanente di nani, ballerine, soubrettes, calciatori, ruffiani e cortigiani è diventato il nucleo centrale dell’opinione pubblica.

Mi vergogno di un paese in cui gli uomini di potere dicono cose irripetibili e irriferibili sulle donne e sulle loro parti anatomiche – senza che altri uomini e altre donne non se ne vergognino al punto da destituirli e cacciarli a pedate in una di quelle stesse parti anatomiche.

Mi vergogno di un paese che non ha più il senso comune e, soprattutto, il senso del comune.

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