Filosofie della storia – 6. Il principio speranza di Bloch

1. Una filosofia della storia futura: quasi una contraddizione in termini.
La storia, il passato, la memoria, insieme alle condizioni materiali date, sono il complesso di elementi che pesa sulla vita degli umani, che sembra condizionarli, pre-determinarli, obbligarli su strade necessitate. Evocare quindi una filosofia della storia futura appare quantomai problematico, se si pensa alla forza di quei condizionamenti. Nello stesso tempo – basti pensare alla vita dei singoli – esiste pur sempre una controforza, una pulsione che spinge in direzione del nuovo, dell’inusitato, del non-ancora. Se c’è nell’individuo deve esserci anche in quell’individuo più in grande che è la collettività – fino probabilmente a spingersi all’intera umanità. Questa pulsione viene individuata dal filosofo tedesco Ernst Bloch nel principio speranza (Prinzip Hoffnung).
Principio, non solo affetto: Bloch pensa che la speranza non sia da restringere al campo sentimentale o soggettivo, ma che piuttosto costituisca una forza evolutiva presente a monte, ontologicamente, nell’essere, nella materia, nella vita stessa. Non solo: la speranza ha anche un significato cognitivo, è docta spes, una sorta di scienza utopica.

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Non-democrazia

Non vedo un “pericolo fascista” in Italia, anzi il rischio è che si gridi “al lupo al lupo”, e non si veda il vero pericolo che si staglia all’orizzonte, che potremmo definire della non-democrazia.
Siamo ormai da anni in presenza di nuove forme politiche degli stati, non più classificabili come democratici o autoritari o liberali o autocratici, ma come sempre più svuotati di partecipazione popolare e riempiti di tecnocrazia, dirigismo ed ora, sempre più chiaramente, di militarismo.
Ormai nelle vecchie democrazie chi governa viene per lo più scelto e controllato da élites che hanno a disposizione grandi risorse e un’enorme influenza mediatica, e sempre più esigue minoranze di cittadini si limitano a ratificarne il potere (così funzionano le elezioni presidenziali americane, ma non solo).
Hans Jonas prevedeva che le grandi crisi ed emergenze che si stavano profilando all’orizzonte, avrebbero richiamato nuove forme di autoritarismo: basti pensare al periodo pandemico e ai suoi dispositivi, su tutti l’obbligo vaccinale e il green pass, come effettive forme di sospensione dei diritti individuali, in nome di un’emergenza collettiva. Una prima prova generale di quel che avverrà, presumibilmente, con le crisi ecosistemiche, climatiche ed energetiche.
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Epoché

Non è particolarmente originale questo trattatello antropologico-pandemico, scritto a tre mani da Aime, Favole, Remotti. Del resto il suo intento è divulgativo con una forte caratura etica, più un’esortazione che un’analisi puntuale, con molte citazioni e divagazioni – dalla letteratura etnologica a Greta Thunberg, da Latouche a Gosh, dalla Bibbia a Kopenawa.
Leggendolo un po’ di corsa mi sono chiesto se nei comitati scientifici anti-covid siano stati chiamati degli antropologi: credo che qualcosa da dire l’avrebbero anche loro.
I 3 autori si concentrano su 3 questioni essenziali:
1. La categoria di limite: tutte le culture hanno sempre avuto dei riti di “autosospensione”, siano essi autoimposti o indotti da traumi (persino Dio al settimo giorno si riposò).
2. Un’etnografia del confinamento: tutti i termini delle relazioni intraumane raggruppati sotto i concetti di esotico, frontiera, capro espiatorio, rito, prossemica, nel corso della pandemia sono slittati, quando non si sono rovesciati. “Straniero” ora sei anche tu che stai nella fortezza, non solo l’Altro che bussava alla tua porta.
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Bat Woman

La virologa cinese Shi Zhengli studia da oltre 15 anni i coronavirus. Nella grotta di Shitou (sud-ovest della Cina) lei e la sua squadra di cacciatori di patogeni hanno scoperto centinaia di coronavirus nei pipistrelli (specie-serbatoi dei virus), una vera e propria “biblioteca genetica naturale”: la maggior parte di quei virus è innocua, ma decine appartengono allo stesso gruppo della SARS. Se ne stimano comunque diverse migliaia, ancora da studiare.

Ora: «con l’aumento delle popolazioni umane che occupano sempre di più gli habitat degli animali selvatici, i cambiamenti senza precedenti nell’uso dei suoli, il trasporto in tutto il mondo di selvaggina e bestiame e dei relativi prodotti e il forte aumento dei viaggi nazionali e internazionali, lo scoppio di pandemie di nuove malattie è quasi una certezza matematica».

Shi Zhengli ci mette in guardia anche dalle malattie che colpiscono gli allevamenti di suini (come la SADS, che al 98% possiede la medesima sequenza genomica di un coronavirus): casi di zoonosi sono altamente probabili, tanto più che i sistemi immunitari umano e suino sono molto simili.

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(Onni)potenza medica

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Abbiamo un problema con la medicina. Che è poi il medesimo problema che abbiamo con la tecnica, ovvero un crescente delirio di onnipotenza (ed una corrispettiva sensazione di impotenza)
Non è qui in discussione che la medicina di tipo organicistico-positivistico abbia conseguito enormi successi. Per lo meno sul piano quantitativo (l’ambito qualitativo è un’altra faccenda): antibiotici e vaccini hanno condotto un’immensa guerra batteriologica dell’umanità contro il resto del mondo, mai vinta del tutto ma sicuramente efficace (non saremmo altrimenti sette miliardi, quasi otto). La chirurgia ha plasmato e riplasmato i corpi. Siamo ormai sulla soglia del corpo ibrido, biomeccanico.
Tuttavia, proprio questo indiscutibile successo ha finito per far montare la testa al potere medico (e farmaceutico): ospedalizzazione, medicalizzazione e farmacologizzazione integrale degli umani non bastano più, ora si entra anche nel territorio liminale di vita e morte.
Già in passato ho discusso di eutanasia, su questo stesso blog, a partire dalle riflessioni di Hans Jonas – che proprio del rapporto tra etica e medicina si è molto occupato. È un argomento su cui occorre essere molto cauti, ma avevo concluso (cosa di cui sono ancora convinto) che è di esclusiva pertinenza del soggetto vivente/morente decidere sui limiti della propria vita/morte: la sfera della sua autodeterminazione non può mai essere violata, e soprattutto non deve esserlo in nessun caso dal potere medico. I medici indagano, diagnosticano, curano – ma è il “malato” a dover decidere su di sé, e deve poterlo fare quando è in grado di intendere e di volere (espressione di volontà che, ovviamente, può presentare problemi, motivo per cui è necessaria più che mai una legge che regolamenti tali volontà, in forma di “testamento biologico” o altro).
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Settimo lunedì: speranza vs responsabilità

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Il principio responsabilità è il titolo di un libro pubblicato nel 1979 dal filosofo tedesco Hans Jonas, che richiama espressamente un’opera della metà del secolo scorso – Il principio speranza – del filosofo marxista Ernst Bloch. Da questo incrocio nasce il titolo dell’incontro di questa sera.
Prima di occuparci di questi due filosofi e delle opere citate, vorrei però richiamare l’attenzione sui motivi – essenzialmente affettivi ed emotivi – delle categorie evocate:

speranza / paura

(è Jonas stesso, come vedremo, a parlare di “euristica della paura” quale elemento essenziale dell’etica della responsabilità).

Ho trovato una eccellente definizione di questi due “affetti” in un filosofo che di passioni e di sentimenti umani si intende parecchio, e di cui già abbiamo parlato, Baruch Spinoza:

“La speranza (il timore) è una letizia (tristezza) incostante, nata dall’idea di una cosa, futura o passata, del cui evento in qualche modo dubitiamo” (Etica, parte III, Definizioni degli affetti, prop. XII-XIII)

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Bioepoca – seconda parte

Diamo ora uno sguardo alla scienza e alla tecnoscienza.
La rivoluzione scientifica in epoca moderna – attraverso la riappropriazione della natura da parte della sfera umana, sottratta alla precedente ipoteca teologica – costituisce l’avvio di un processo di teorie e di conoscenze che oggi possiamo definire apparato tecnoscientifico, e che si sostanzia in una precisa mentalità nei confronti del mondo naturale.
La scienza si presenta apparentemente in forma di sapere neutrale ed oggettivo, lontano da ogni connotazione valoriale (fatti, non giudizi): in una formula matematica o in una reazione chimica, oppure nella conoscenza relativa alle tecniche riproduttive dei coleotteri non c’è, né può esservi, nulla di rilevante sul piano etico. Questo non vuol dire che il sapere scientifico è l’unica forma di conoscenza data. Anche un quadro o una sinfonia ci dicono qualcosa della realtà; basti poi pensare alla poesia, e a quanto essa sia in grado di descrivere con precisione i sentimenti umani, magari meglio di quanto non facciano le neuroscienze (che si limitano spesso a tradurli in reazioni chimiche o in “luci” che si accendono nelle varie parti del cervello).
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Atomi pensanti (e possibilmente denuclearizzati)

Atomi tormentati, su questo cumulo di fango,
che la morte inghiotte e con cui la sorte gioca
ma atomi pensanti.
(Voltaire)

Ho già più volte affrontato su questo blog il tema della teodicea (qui in particolare, anche se rovesciato in termini di antropodicea). E’ sempre bene ricordare, con le parole del Dialogo della natura e di un islandese di Leopardi, che la natura è del tutto indifferente alle nostre vicende, e se ne sbatte altamente di noi come di tutte le altre specie o dei singoli viventi. O meglio: ciò che noi chiamiamo “natura” non ha in sé nessun elemento soggettivo, nessuna volontà, nessun piano – così come noi un po’ presuntuosamente intendiamo questi concetti che le vorremmo attribuire, direttamente o indirettamente. Dio non c’è, e se anche ci fosse se ne sbatterebbe pure lui (perché mai dovrebbe appassionarsi ad un così minuscolo ed insignificante angolo, un banale puntino nell’economia dell’universo? – o della pluralità di universi, come vanno sostenendo alcuni cosmologi).
Quel che forse colpisce di più nelle immagini del muro nero d’acqua che ha spazzato via le città giapponesi di Onagawa o di Minamisanriku inghiottendo gran parte dei loro abitanti, delle case, degli oggetti – della medesima natura – è proprio quell’assoluta indifferenza, quel misto di terribile innocenza e cecità, quell’impersonale e necessario incedere degli eventi che non può non lasciare attoniti. E che però è il carattere più profondo – direi ontologico – della natura, del cosmo, dell’essere.
Dice Eraclito:
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