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7 parole per 7 meditazioni – 4. Persona
Il concetto di persona ci svela fin dall’etimologia il problema riguardante le teorie dell’individualità: persona è, letteralmente, maschera (dal greco prosopon mediato forse dall’etrusco phersu), termine teatrale che allude alla duplicità, se non addirittura alla doppiezza, o comunque alla stratificazione e molteplicità di quella parte di noi stessi che denominiamo “io”. Pare che il primo filosofo ad utilizzare “persona” sia stato lo stoico Panezio, nel II secolo a.C.: interessante notare come gli stoici concepissero il ruolo dell’individuo in termini di “parte” (moira) nel destino del mondo – un po’ come la maschera svolge un ruolo nella scena teatrale.
Già tutti questi termini – io, me stesso, individuo (non-diviso, equivalente latino del greco a-tomos), persona, cui possiamo aggiungere soggetto, anima, coscienza – non sono affatto sovrapponibili, ciascuno di essi allude a significati o sfumature diverse; in ogni caso, quando parliamo di noi stessi, la prima cosa che salta agli occhi è proprio questa molteplicità : io sono io, ho un’identità (il nome è già una definizione di singolarità), ma se vado poi a vedere che cosa c’è in questo contenitore individuale – cosa c’è dietro la maschera-persona – scoprirò una varietà di elementi, spesso contraddittori. Io sono vasto, contengo moltitudini, dice Walt Whitman.
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Sapersi tenere su corde leggere
Proprio mentre mi accingo a scrivere un saggio che vorrei immodestamente intitolare Il principio-straniamento, o qualcosa del genere, una graziosissima fanciulla che sta per dare la maturità mi chiede aiuto a proposito della cosiddetta “tesina” che mi dice di voler fare sulla leggerezza. Magnifico argomento, penso io, anche se di primo acchito non so proprio che consigli darle (ma anche dopo averci pensato un po’, non son mica certo di averle dato indicazioni utili). L’idea originaria viene dalla prima delle Lezioni americane di Calvino – “leggerezza intesa quindi come lucido distacco dalla realtà per non venirne assorbiti inconsapevolmente, ma non rifiuto della realtà” – così mi scrive la cara maturanda, che incrocia anche il concetto di ironia, concetto quant’altri mai filosofico, per lo meno da Socrate in poi. Non dovrebbe essere difficile, quindi, trovare un filo, un discorso, un pensatore adatti all’uopo.
Eppure, da Kant in poi, non è che mi sia venuto in mente granché: anzi, diciamocela tutta, e cioè che la filosofia contemporanea è parecchio pesante, e che ‘sti filosofi la leggerezza (ben intesa, s’intende) manco sanno dove stia di casa.
Anche se… a pensarci bene… per un altro verso… forse addirittura l’intera filosofia contemporanea (senza voler scomodare Severino), potrebbe essere spiegata proprio con alcune delle espressioni utilizzate da Calvino commentatore di Lucrezio e apologeta del suo tentativo di alleggerire la gravità materiale: “dissoluzione della compattezza del mondo”, “polverizzazione della realtà”, “la poesia dell’invisibile, la poesia delle infinite potenzialità imprevedibili, cosi come la poesia del nulla”…
E di fatti, qualche filo qua e là – specie tra i filosofi irrazionalisti e spiritualisti, ovvero i distruttori della ragione, secondo l’epiteto lukacsiano – l’ho trovato, anche se non so cosa possa mai uscirne.
L’insostenibile gravità dell’esistere
Pochissimo s’è parlato in questo blog di Søren Kierkegaard. Solo fugaci citazioni, in 4 o 5 occasioni, nulla di più. Il 5 maggio scorso ricorreva tra l’altro, nel più assordante dei silenzi, il bicentenario della sua nascita.
Del resto il filosofo danese non è di sicuro nelle mie corde – ed anzi, ricordo che all’università, io e un mio compagno con il quale ho avuto il piacere di condividere anni di forsennata passione filosofica (e di grandi bevute), eravamo soliti sbeffeggiare il povero Søren, in particolare per quella sequela di titoli angosciosi e funesti – Timore e tremore, Briciole filosofiche, Il concetto dell’angoscia, La malattia mortale… – a nostro avviso ben poco filosofici, e comunque lontani dal nostro stile irruento e vitale (io poi ero all’epoca un temibile estremista hegeliano!).
[En passant, Briciole di filosofia fu, se non erro, il primo blog filosofico che incontrai sul web, subito dopo aver aperto La Botte. Quasi una nemesi].
L’eco della cinciallegra
(Da qualche tempo mi frulla per la testa l’associazione tra filosofia e teatro: la discussione filosofica come drammatizzazione teatrale; il dilemma circa la verità come gioco di ruolo e delle parti; l’illusione puramente rappresentata di giungere a una qualche verità – ovverosia, la sua messa in scena; l’uscita da teatro come un ritorno filisteo alla vita che mediamente arranca; ed infine la vita stessa, come la filosofia, che è sogno. Teatro nel teatro…)
Mi ritrovo a Bose, senza sapere chi e di che cosa si parlerà. Mi ci ha trascinato un amico, che c’era stato tempo fa, il quale ha evidentemente ritenuto che dovessi andarci almeno una volta.
Massimo Cacciari era l’ospite d’onore – il grand’attore della messa in scena – invitato a parlare del senso epocale del cristianesimo (e dunque della sua possibilità). Enzo Bianchi, il generoso padrone di casa (il regista, suppongo).
Delle due l’una
Gira e rigira, vengo tirato per i capelli (che non ho) nelle questioni teologiche (che pure non cerco). Da più parti mi giungono sollecitazioni in tal senso – dio, teismo, ateismo sono anch’esse (come quelle identitarie) questioni che bruciano. Personalmente credo di averle risolte una volta per tutte tre decenni or sono, al mio primo impatto (vitalissimo e imponente) con la filosofia, quando la questione del divino si pose alla mia mente sotto una nuova luce: delle due l’una, o la fede o la ragione. Che, da un punto di vista logico, è nota anche come disgiunzione: o…o.
Ma è bene chiarire – anche perché l’espressione “una volta per tutte” in filosofia non vale granché. Nel momento in cui, però, la ragione – cioè quell’organo del pensiero che è solo una parte di esso e, se vogliamo, una parte esigua dell’intero fenomeno mentale (entro cui ricomprendo anche l’elemento sentimentale e passionale) – quando la ragione, dicevo, comincia ad occuparsi di questioni come quella teologica (ma, vorrei dire, di qualunque questione), non vi è spazio per altre modalità conoscitive. Nostra signora ragione si comporta in maniera tirannica ed esclusiva.
Trinacriablog – 1. Ipocondriache vigilie
“Se noiosa ipocondria t’opprime…”
(G. Parini)
Se non ho commesso errori nella programmazione del buon vecchio WP, questo post dovrebbe comparire mentre sarò in volo per l’isola. Nelle prossime settimane, fino al mio ritorno alla base, avrei intenzione di pubblicare pensieri ed impressioni legati ai miei periodici ritorni “a casa”. Vecchi pensieri – se riemergeranno – e nuovi – se ce ne saranno. A metà, inevitabilmente, tra l’intimità biografica e la generalità filosofica. Chi quindi non gradisce lo stile diaristico (genesi del mezzo stesso sul quale sto scrivendo) salti pure a piè pari tutta questa parte e attenda, se vuole attendere, la metà di settembre.
Devo però preventivamente registrare un disagio che m’assale ormai ogniqualvolta torno laggiù. Sarà per l’acuirsi della sensibilità e della “tonalità emotiva” (rieccola!), sarà per una maggiore eccitabilità dovuta al sovraccarico di aspettative, o perché la “vacanza” è innanzitutto una disposizione (e una voragine che si va aprendo) dell’anima – fatto sta che la “scheggia nelle carni” dell’angosciatissimo danese s’infiamma sempre più spesso quando sono in procinto di partire. E così quest’anno si è presentata in forma di ipocondria. Già il “mio” omeopata di una stagione di molti anni fa mi disse senza peli sulla lingua che ero affetto da ipocondria. Chissà, magari aveva ragione. E allora una piccola ferita diventa un purulento anfratto che si fa incunabolo del tetano (so che il termine giusto è “incubazione”, ma l’assonanza è evidente, e cunabula sta per culla); ogni passo può essere foriero di una brutta caduta; e persino una pedalata nei boschi può diventare un incubo (di nuovo: da cubare, giacere, che quindi pesa sul dormiente).
E però quest’ultimo episodio ansiogeno ha ben poco a che fare con l’ipocondria…
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Il vuoto individuale: fenomenologia della noia
Vissi la mia prima esperienza chiara e distinta del sentimento della noia intorno ai 7-8 anni. Ben prima di aver letto Kierkegaard o Schopenhauer, Heidegger o Sartre, e senza che a quel flusso emotivo corrispondessero un nome o un oggetto definiti. Era un pomeriggio estivo, assolato, stavo solitario sul balcone della casa a ringhiera dove all’epoca vivevo, e ad un certo punto rimasi come paralizzato, mentre qualcosa di nuovo e di strano mi stava succedendo. Il normale flusso della vita si stava interrompendo, e io stavo lì schiacciato contro il muro della casa mentre tutto intorno a me affondava. Boccheggiai per qualche minuto, mentre il sole esplodeva sopra la mia testa. Poi sentii come una morsa chiudersi sul mio collo ad impedirmi di respirare – la sensazione fu proprio quella del soffocamento – e scendere giù e premere sullo stomaco; ma ciò che mi impressionò di più fu la forza con cui quel senso di nausea mi stava invadendo, il non poterlo respingere, il subirlo impotente. Era stato breve, e così come senza preannuncio si era presentato, altrettanto repentinamente e senza motivo se ne era andato. Fu una cosa che tenni per me – del resto come descrivere o raccontare a quell’età un’esperienza non riconducibile a un dolore fisico, a un fastidio, a una sensazione nota e tangibile? (en passant: ecco perché i bambini vengono così facilmente e spesso impunemente violati dagli orchi…).
Fu comunque un’esperienza sorgiva, ontologica, esistenziale inusitata a cui naturalmente non sapevo e non potevo dare oltre che un nome nemmeno un significato; solo a posteriori, e dopo molti altri fugaci passaggi, ho cominciato a capire di che cosa si trattava. E certo, solo in seguito al dispiegamento della ragione e all’autoanalisi ho potuto riconoscere in quell’episodio della mia infanzia i tratti della noia: si badi bene, sono certo di non avervi trasferito esperienze successive – era stato troppo forte e violento per non emergere con nettezza, rivelandosi come una delle sensazioni più forti che ricordi della mia infanzia, anzi a questo punto potrei dire della fine dell’infanzia. E’ stato semmai il contrario: tutte le esperienze posteriori sono rimaste marchiate dalla prima, e a quella iniziale dovevano essere ricondotte. Quel che non poteva esserci, com’è ovvio, era la razionalizzazione e la comprensione di qualcosa che, quando accade, ci si limita a vivere, e da cui si è totalmente afferrati.
Fin qui l’esperienza; vediamo ora la teoria (che serve proprio ad illuminare l’esperienza e da cui non può essere scissa); vediamo cosa dicono in proposito i nostri (non molti) filosofi che se ne sono occupati.
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Gli strati del dolore
Che cosa sia il dolore fisico è forse abbastanza chiaro. Si tratta, tutto sommato, di un fenomeno che concerne i corpi e il loro sistema recettivo e nervoso, e dunque facilmente individuabile e classificabile: ci troviamo di fronte a una scomposizione del corpo (che viene tagliato, spezzato, urtato, deformato, ecc.) o all’ingresso di un corpo estraneo. La sensazione dolorosa è quindi riconducibile, in ultima analisi, ad interazioni di corpi, o meglio a tipologie di relazione tra un corpo che patisce e subisce e uno che agisce e aggredisce.
Molto più problematica, invece, risulta la descrizione fenomenologica (tanto per usare un parolone filosofico) del dolore meta-fisico, cioè di quello spirituale, psicologico, mentale, o come si preferisce chiamarlo. Certo anche qui si tratta di una recisione, di un taglio, di una mancanza, di un venir meno (o di un non essere mai stato presente, come succede per la solitudine) dell’altro – amante, amico, parente, essere umano in genere – ma tale perdita può anche valere per animali, oggetti, situazioni, emozioni. Una sofferenza la cui intensità, durata e manifestazione è quanto di più variabile e molteplice ci sia, e che dubito si possa facilmente catalogare o descrivere o misurare come nel caso del dolore fisico (che pure varia da soggetto a soggetto, non a caso si parla di soglie e di sopportazione). La mescolanza dei due, poi, è qualcosa che rasenta l’insondabilità.
SCHEGGE NELLE CARNI: la mestizia dei filosofi e la fuga dalle bombe
Dopo averli rimuginati per una giornata, avevo scritto alcuni appunti ieri mattina, sul mio quadernetto arancione (non rinuncio certo alle mie abitudini pre-digitali), con l’idea di “postare” nel pomeriggio. Li riporto qui sotto nel loro iniziale e disordinato stato di bozze:
“Tanto per non abbandonare il filone psicoesistenziale dell’ultimo post, è apparso (si è affacciato) in questi giorni inspiegabilmente nella mia “tonalità emotiva”, un forte senso di disagio, una mestizia incausata… E il pensiero, di nuovo, non ha potuto evitare di correre alla “scheggia nelle carni” annotata da Kierkegaard nel suo Diario. Nicola Abbagnano la descrive come “una minaccia oscura e inafferrabile, ma paralizzante”. Mi verrebbe da descrivere così la situazione: una giornata perfetta, radiosa, l’azzurro di un cielo che evoca solo pensieri felici, la pienezza di un’esistenza… ricolma di affetti, di belle relazioni… – tutta questa poetica e meravigliosa costruzione (che talvolta si presenta per davvero) non basta mai a difenderci dall’angoscia che di punto in bianco ci afferra alla gola, specie nei momenti più inattesi. Una macchia indelebile sull’azzurro, una piega beffarda sul piano della supposta felicità, la spina nel cuore di Kierkegaard. Una scheggia che non può essere tolta, ma solo rimossa, messa tra parentesi. Che periodicamente torna a bruciare, anche solo per pochi minuti. E allora sai che c’è, è sempre lì. Devi solo stare attento a non fartene infettare. Partire per la Sicilia, come farò tra due giorni, sarà un provvisorio medicamento. La scheggia resterà muta per un po’. Ma io so che lei c’è. Laggiù, nascosta sotto la pelle. Lei c’è. Per sempre. La bastarda…”
Poi però, dopo aver riposto il quadernetto , accendo la radio, apro alcuni giornali e… mi vien solo da pensare che in questo momento i civili che fuggono sotto le bombe (georgiane, ossete o russe che siano) devono guardarsi da ben altre schegge conficcate nelle loro carni….