Seconda parola: lavoro

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Utilizzerò come filo conduttore per la serata alcuni testi piuttosto classici, anche se molto diversi tra di loro, non prima però di aver dato uno sguardo all’origine etimologica della parola lavoro, per la quale mi limito a riportare la relativa voce di wikipedia:

“Il termine lavoro riporta al latino labor con il significato di fatica. Sono noti i detti della letteratura classica “durar fatica” e “operar faticando“. Ancora oggi in alcuni dialetti si utilizzano i termini “faticare”, “andare a faticare”, per intendere “lavorare” e “andare a lavorare”. Altro termine di parlate italiane per “lavoro” è travaglio, dal latino tripalium (strumento di tortura), per esempio in siciliano “lavorare” si dice “travagghiari” e in piemontese “travajè ecc.”

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La cacciata dal paradiso terrestre

Cominciamo col più classico dei libri:

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Platone in miniera

Vero è che la filosofia arriva solo al far del crepuscolo, come la nottola di Minerva, ma prima che faccia notte, o che cali il sipario del tutto – o meglio, che il sipario tutto ricopra di fatuità – vorrei spendere due parole su quei 33 minatori cileni avventuratisi (per disgrazia o per incuria, non per scelta) nei meandri della mitologia platonica.
D’altra parte è forse troppo densa di simboli questa faccenda, per poter essere raccontata come si deve. Ma è un dovere etico farlo, anche perché il rischio è che venga davvero consumata (e ben presto defecata e smaltita) dai media e dalla logica della spettacolarizzazione – magari offrendo moneta sonante in cambio di brandelli di esperienza viva, corpi e sofferenza psichica (per una volta con lieto fine) da esibire in formato-fiction. Certo, Platone non avrebbe mai immaginato che il suo mito sarebbe diventato un evento di portata globale e che la sua riflessione eidetica, visiva, quasi cinematografica, sarebbe davvero andata in scena in mondovisione…
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Dis-facimenti

Uno slogan che si sente ripetere in questa (orribile) campagna elettorale, è relativo al fare. “Noi che siamo al governo facciamo” – così dicono, in contrapposizione a quelli che invece chiacchierano o criticano e basta. Poco importa qui quale delle forze in lizza utilizzi tale motto, che peraltro è un ferrovecchio. Nella mia militanza politica giovanile era un luogo comune questa faccenda del contrapporre il fare al parlare – come se il parlare non fosse un’azione e il fare a sua volta denso di linguaggio e di elementi simbolici. Ma si sa, la politica è sempre più il luogo del non-pensiero e dell’assurdo, una gara a chi è più decerebrato (e fatto in tutt’altro senso!).

Ma torniamo al termine “fare” e ai concetti ad esso collegati. Il filosofo austriaco Ludwig Wittgenstein apre il suo Tractatus logico-philosophicus con una vera e proprio ontologia del factum (anche se, a rigore, fare e fatti non sono poi così perfettamente sovrapponibili) – e scrive: “Il mondo è tutto ciò che accade”, “Il mondo è la totalità dei fatti, non delle cose”. Tutto ciò che esiste attiene ai fatti e però insieme al linguaggio; non c’è un fatto che non sia dicibile e un dire che non sia anche fattuale: il linguaggio da questo punto di vista è la “raffigurazione logica del mondo”, aderisce rigorosamente alla fattualità ed esaurisce in sé la sfera del pensiero.
Non volevo però avventurarmi lungo lo scivoloso terreno logico-epistemologico, ma solo limitarmi a “giocare” un poco con la parola in questione. Essa richiama anche il contraffare, sopraffare, strafare, rifare: in genere tutto ciò che è manipolazione della realtà, fino addirittura alla sua destrutturazione (dis-fare, rare-fare, lique-fare).
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