

Uno slogan che si sente ripetere in questa (orribile) campagna elettorale, è relativo al fare. “Noi che siamo al governo facciamo” – così dicono, in contrapposizione a quelli che invece chiacchierano o criticano e basta. Poco importa qui quale delle forze in lizza utilizzi tale motto, che peraltro è un ferrovecchio. Nella mia militanza politica giovanile era un luogo comune questa faccenda del contrapporre il fare al parlare – come se il parlare non fosse un’azione e il fare a sua volta denso di linguaggio e di elementi simbolici. Ma si sa, la politica è sempre più il luogo del non-pensiero e dell’assurdo, una gara a chi è più decerebrato (e fatto in tutt’altro senso!).
Ma torniamo al termine “fare” e ai concetti ad esso collegati. Il filosofo austriaco Ludwig Wittgenstein apre il suo Tractatus logico-philosophicus con una vera e proprio ontologia del factum (anche se, a rigore, fare e fatti non sono poi così perfettamente sovrapponibili) – e scrive: “Il mondo è tutto ciò che accade”, “Il mondo è la totalità dei fatti, non delle cose”. Tutto ciò che esiste attiene ai fatti e però insieme al linguaggio; non c’è un fatto che non sia dicibile e un dire che non sia anche fattuale: il linguaggio da questo punto di vista è la “raffigurazione logica del mondo”, aderisce rigorosamente alla fattualità ed esaurisce in sé la sfera del pensiero.
Non volevo però avventurarmi lungo lo scivoloso terreno logico-epistemologico, ma solo limitarmi a “giocare” un poco con la parola in questione. Essa richiama anche il contraffare, sopraffare, strafare, rifare: in genere tutto ciò che è manipolazione della realtà, fino addirittura alla sua destrutturazione (dis-fare, rare-fare, lique-fare).
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