Il grillo che c’è in me

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“Del resto non è difficile a vedersi come la nostra sia un’età di gestazione e di trapasso a una nuova era; lo spirito ha rotto i ponti col mondo del suo esserci e rappresentare, durato fino ad oggi; esso sta per calare tutto ciò nel passato e versa in un travagliato periodo di trasformazione. Invero lo spirito non si trova mai in condizione di quiete, preso com’è in un movimento sempre progressivo. Ma a quel modo che nella creatura, dopo lungo placido nutrimento, il primo respiro, – in un salto qualitativo, – interrompe quel lento processo di solo accrescimento quantitativo, e il bambino è nato; così, lo spirito che si forma matura lento e placido verso la sua nuova figura e dissolve brano a brano l’edificio del suo mondo precedente; lo sgretolamento che sta cominciando è avvertibile solo per sintomi sporadici: la fatuità e la noia che invadono ciò che ancor sussiste, l’indeterminato presentimento di un ignoto, sono segni forieri di un qualche cosa di diverso che è in marcia. Questo lento sbocconcellarsi che non alterava il profilo dell’intiero, viene interrotto dall’apparizione che, come un lampo, d’un colpo, mette innanzi la piena struttura del nuovo mondo”.

Potrebbe sembrare strano che per ragionare su quel che sta avvenendo in Italia a ridosso delle ultime burrascose elezioni politiche, si debba addirittura scomodare Hegel. Eppure non è casuale, dato che proprio della razionalità politica si tratta. Il celebre brano che ho trascritto sopra, tratto dalla Fenomenologia dello spirito, schizza per sommi capi quel che succede quando un mondo, un’istituzione od anche una costellazione di significati crollano, e ancora non se ne sono presentati altri con chiarezza all’orizzonte. Hegel rappresenta con linguaggio ed efficacia straordinari il senso di vertigine, di incertezza, persino di sacro terrore che accompagna tali processi.
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Livor verde

Dai diamanti non nasce niente
dal letame nascono i fior

Il leghismo è programmaticamente quanto di più lontano e avverso alla mia mentalità, al mio essere sociale, politico ed antropologico. Sia nei suoi connotati ideologici: razzismo, familismo, machismo, etnocentrismo, conservatorismo; sia nei suoi tratti psicosociali: fobia, rancore, livore, cieco e bieco egoismo, piccineria piccolo-borghese; sia nelle sue manifestazioni politiche: contiguità con le peggiori destre italiane ed europee, costruzione di figure abominevoli di nazisindaci (veri e propri borgomastri in camicia brunoverde), alleanza strategica con il berlusconismo; sia per gli aspetti folclorici e la sua sbandierata incultura: le barbe verdi, i raduni e i riti, le ampolle, le corna, la barbarie da incubo (più che sognante), l’invenzione di piccole patrie inesistenti. Insomma: non c’è una sola cosa che abbia a che fare con il leghismo che non mi provochi forti conati di vomito, sia fisico che spirituale.
Detto questo, cercherò di mettere tra parentesi i miei conati (l’effetto sulla pancia dovuto al loro costitutivo ragionare con la pancia), e proverò a schizzare qualche riflessione generale sulla questione settentrionale che la Lega ha utilizzato come volano per la sua ascesa, e su cui rischia – sperabilmente presto – di rompersi le luccicanti corna barbariche.

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Il volto dei rom

“Ceausescu pur con tutti i suoi difetti, ne ha fatti fuori tanti, solo che l’hanno ucciso prima che completasse l’opera”, “Napalm. Tanto Napalm”, “Riapriamo i Lager”, “Io non solo li ammazzerei ma mi assicurerei che fossero davvero morti ste bestie”, “Frustate a tutti i rom e poi al rogo”…

…queste sono alcune delle perle comparse in questi giorni sulla pagina facebook di un assessore leghista della provincia milanese, scritte da alcuni sostenitori (presumibilmente leghisti anch’essi, o comunque nazisti o nazileghisti) di uno dei tanti sgomberi di campi rom della zona. L’assessore prende le distanze ma non cancella, anzi lamenta il fatto che le opposizioni prendano le parti solo di alcuni (cioè dei rom) e non di tutta la cittadinanza. Lo sgombero riguardava 13 persone (tra cui 5 bambini!), giudicati pericolosissimi, senz’altro brutti, sporchi e cattivi, in grado di minare la sicurezza e la tranquillità di 28005 bravi ed onesti cittadini (se non ho fatto male i calcoli si tratta dello 0.04%). Ma naturalmente non si tratta solo di numeri.
Il porrajmos (in lingua romanì “devastazione”, “grande divoramento”, che è poi l’equivalente dell’ebraica shoah) è ben lungi dall’essere terminato.  Continua, tra l’altro, nei non-luoghi delle periferie urbane e delle aree dismesse, tra le desolate intercapedini delle zone industriali, in mezzo alla triste boscaglia residua, a carico di quel residuato umano ricoperto di stracci e carabattole – poveri e ultimi in massimo grado – che nessuno vuole tra i piedi, e di cui nessuno, soprattutto, vuole guardare il volto. Perché altrimenti scoprirebbe la più banale delle verità.

Il partito delle fobie

La mia amica filosofa Nicoletta Podimani, impegnata da anni sul fronte delle battaglie sociali, antimilitariste, antirazziste, libertarie, femministe, per i diritti LGBT – insomma, per tutto ciò che potrebbe rendere migliore e più vivibile questo derelitto paese – ha scritto di recente un contributo per un opuscolo distribuito durante la festa antileghista che si è tenuta a Brenta lo scorso 3 luglio. Ho pensato di pubblicarlo sul blog per almeno due motivi:  il primo è che rispecchia esattamente quel che penso sul tema del leghismo, delle ossessioni identitarie, delle fobie, del razzismo (del tutto in linea con quanto espresso da anni su questo blog); ma soprattutto perché mi è piaciuto il taglio con cui Nicoletta lo ha scritto, insieme biografico (che attinge al vissuto e all’esperienza diretta) ed antropologico, oltre che teorico-politico. Cito solo due aspetti dello scritto che trovo molto interessanti: la “scalata nella gerarchia etnico-sociale” e il presunto “riscatto” da parte dei “terroni”; la contiguità ideologico-culturale del leghismo con il nazifascismo e l’integralismo cattolico. Sono certo che potrà interessare anche i lettori della Botte…

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Ho trascorso l’infanzia e l’adolescenza in un paesello della Brianza. Erano gli anni Sessanta-Settanta, caratterizzati dall’immigrazione dal Sud. Mio padre, in realtà, era arrivato a Milano anni prima, durante la guerra, spedito dalla Sicilia a fare il servizio militare al Nord. Lì ha conosciuto mia madre.
Il mio cognome diceva chiaramente le origini paterne e per i parenti da parte materna nonché per coloro che, come unica lingua, conoscevano e parlavano il dialetto brianzolo, io ero “la figlia di un terrone” o, addirittura, “la mezzo sangue terrona”. La prova “scientifica” del mio “mezzo sangue” era, per tutti costoro, la mia profonda e viscerale ribellione contro ogni forma di disciplina. Perfino mia madre ne era convinta.
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