Zoon politikon – 2. Utopie

Partiamo, come sempre, dalle origini, dal costituirsi dei significati all’interno dello spazio originario della politica (e della “democrazia”) nel mondo greco.
È Platone il filosofo che, forse più di ogni altro, si è cimentato nell’opera di definire la “repubblica ideale”: una delle sue opere più celebri porta, non a caso, questo nome (La Repubblica, che in greco suona con Politeia, pressoché intraducibile, ma che è riconducibile alle concezioni che riguardano l’ordinamento politico, lo spirito della città e la partecipazione politica del cittadino – forse “comunità politica” può rendere l’idea).
Ed è proprio in quel contesto (che è però una summa del suo pensiero: teoria delle idee, teoria della conoscenza, estetica, ecc.) che troviamo una frase che senz’altro può ben ispirare il nostro lavoro di ricerca sulle origini dello spirito utopico:
«Comprendo, disse; ti riferisci a quello stato di cui abbiamo discorso ora, mentre lo fondavamo: uno stato che esiste solo a parole, perché non credo che esista in alcun luogo della terra. – Ma forse nel cielo, replicai, ne esiste un modello, per chi voglia vederlo e con questa visione fondare la propria personalità. Del resto non ha alcuna importanza che questo stato esista oggi o in futuro, in qualche luogo, perché l’uomo di cui parliamo svolgerà la sua attività politica solamente in questo, e in nessun altro». (Repubblica, IX, 592 a,b)
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Ripetere Lenin

«Oggi la sinistra si trova in una situazione straordinariamente simile a quella che diede vita al leninismo, e il suo compito è proprio quello di ripetere Lenin. Questo non implica un ritorno a Lenin. Ripetere Lenin significa accettare che “Lenin è morto”, che la sua particolare soluzione è fallita, persino in maniera atroce. Ripetere Lenin significa che occorre distinguere tra ciò che Lenin ha effettivamente fatto e il campo di possibilità che ha aperto, riconoscere la tensione tra le sue azioni e un’altra dimensione, ciò che “in Lenin era più dello stesso Lenin”. Ripetere Lenin vuol dire ripetere non ciò che Lenin ha fatto, bensì ciò che non è riuscito a fare, le sue occasioni mancate»

[S. Zizek, Lenin oggi]

Marxionne

marchionne-americano

Leggevo qualche giorno fa un articolo di Lucio Villari a proposito del Marx artista incompreso, dove lo storico rilevava ad un certo punto come le opere di Marx, su tutte Il Capitale, avessero in verità completamente mancato il bersaglio (non so come direbbero gli esperti di marketing editoriale oggi, parlerebbero forse di un errore di target): il filosofo e rivoluzionario tedesco finisce cioè per rivolgersi, suo malgrado, a coloro di cui veniva auspicata la dissoluzione – i quali, sottolinea Villari, fanno ovviamente orecchie da mercante. La prima edizione del primo libro del Capitale, uscita nel 1867, venne infatti accolta da un fragoroso silenzio – sia negli ambienti borghesi (gli unici che avrebbero potuto comprenderlo) sia in quelli proletari (per manifesta incapacità intellettuale).
È questa una vecchia storia, che la scuola di massa e la diffusione della cultura (facilitata oggi virtualmente dalla rete) non hanno ancora potuto risolvere: de te fabula narratur – proprio te di cui stiamo parlando sei l’ultimo a saperlo (quando va bene, perché spesso, invece, manco vieni a saperlo).

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Preme compatta schiaccia

Seguo da anni le evoluzioni intellettuali e musicali di Giovanni Lindo Ferretti, e le seguo anche e nonostante la sua recente svolta mistico-cattolica (addirittura vaticana). Non è poi così incoerente tale “evoluzione” (che ad un marxilluminista come me non può che apparire come un’involuzione), leggendo alcuni testi delle canzoni di epoche (è proprio il caso di dirlo) precedenti. Certo, lo spirito critico e la non accettazione dei miti del nostro (e di ogni tempo) non comporta il marciare necessariamente in una direzione – né tantomeno baciare l’anello papale.
Tabula rasa elettrificata è stata una delle tappe esaltanti del cammino artistico (e spirituale) di Lindo, all’epoca nel progetto CSI, dopo quello punkettone CCCP e prima dei più eterei PGR. E il testo della canzone che apre l’album – Unità di produzione – con il suo ritmico, meccanico ed allucinato martellare, non smonta soltanto l’antico sogno tecnobolscevico (il comunismo coincidente con l’elettrificazione, secondo il vangelo di Lenin), ma più in generale il mito del progresso, la macchinizzazione del pianeta e della vita, l’ideologia produttivistica (che ha fatto strage a destra come a sinistra), il dominio totalitario della specie umana su tutte le altre specie – cioè quel premere compattare schiacciare delirante che vuole radere al suolo tutto, e ridurre ogni cosa ad una imbelle sterile igienica unità di produzione

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IL MATERIALE E IL SIMBOLICO (produci, desidera, consuma, arricchisciti, odia – tanto poi crepi lo stesso…)

Ho assistito qualche sera fa ad una conferenza tenuta da Renato Curcio, sul tema dell’azienda totale, con una particolare attenzione allo sfruttamento nella grande distribuzione e alla condizione del lavoro migrante.
Non era la prima volta che ascoltavo i resoconti della sua recente attività di ricerca, interessante soprattutto perché fatta sul campo, partendo dalla voce dei soggetti implicati – in questo caso i lavoratori e i migranti. Il titolo dell’incontro era piuttosto evocativo, visto che si parlava di dannati del lavoro, con un riferimento esplicito a Frantz Fanon e alla sua radicale critica anticoloniale.
Mentre stavo ad ascoltare, molto lateralmente e senza intervenire nel dibattito, mi venivano in mente alcune suggestioni su quanto sta accadendo in questo paese, esplicitato anche dalla recente tornata elettorale. Avevo soprattutto un bisogno impellente di riflettere a freddo.

La prima riflessione che ho cercato di mettere a fuoco riguardava l’intreccio tra base materiale e livello simbolico del disagio che ha riguardato la condotta elettorale di buona parte dei cittadini italiani: l’effettivo impoverimento di determinati strati sociali (con, però, il parallelo arricchimento di altri strati, per quanto più piccoli, fenomeno questo messo in ombra), e l’impressione abnorme di paura e insicurezza (a tal proposito credo che la vera campagna elettorale l’abbiano fatta per due anni i mass-media). Il materiale e il simbolico, appunto.

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