Polvere di stelle

(la traccia del mio intervento introduttivo ad una conferenza di astrofisica sull’Universo in espansione, ultimo di un ciclo di 3 incontri sulle visioni dell’universo nella storia umana)

Avevamo visto come già nella visione di Dante (tolemaica e geocentrica) l’uomo non fosse in realtà al centro, quanto piuttosto in fondo all’universo, nella zona più bassa e più infima. Egli è però chiamato ad innalzarsi ai cieli della divinità, all’empireo – tramite la fede e la ragione.
In epoca moderna il cosmo aristotelico-tolemaico si frantuma per allargarsi all’infinito: Giordano Bruno annuncia gli infiniti mondi nei quali noi siamo sperduti e nei quali non può esserci alcun centro (altrimenti che infinito sarebbe?).
L’infinito, però, deraglia nella visione kantiana: la mente umana si aggroviglia nelle sue contraddizioni (le cosiddette antinomie), per fermarsi ad una sola apparente (soggettiva) certezza: spazio e tempo (lo spazio e il tempo della scienza newtoniana e della geometria euclidea) sono le condizioni imprescindibili della nostra conoscenza della natura. Ogni cosa si muove all’interno di un tempo uniforme che scorre e di uno spazio fisso che ci contiene.
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Italodicea

Al di là dell’angoscia, della doverosa e fraterna solidarietà, dell’umana pietas – sempre più provo una strana ed estenuata forma di rassegnato fatalismo (e sempre meno il montare della rabbia di un tempo), quando mi trovo a considerare il contesto sociale, antropologico, culturale e politico nel quale si situano le italiche disgrazie.
Fin da bambino ho periodicamente assistito a catastrofi (spesso annunciate, come si suol dire), con spargimento di lacrime ed autoflagellazioni, ritornelli sulla mancata prevenzione e poi a seguire smemoratezza, canto del cigno, pietra tombale su tutti i buoni propositi. In attesa della successiva catastrofe. Siano dighe, terremoti (dal Belìce in poi), frane e alluvioni, lo scenario che si ripropone è sempre il medesimo. Gli argomenti e le lamentazioni pure.
Avremmo dovuto fare, prevedere, costruire meglio, mettere in sicurezza – faremo, costruiremo, investiremo. Ma la sensazione è che, gattopardescamente, nulla cambi mai.
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Terza parola: felicità

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“Ho riconosciuto la felicità dal rumore che faceva allontanandosi”
(Prévert)

Strana cosa la felicità, inafferrabile e sfuggente, ma soprattutto incerta com’è: eppure non c’è cosa che di più occupi la nostra anima e il nostro corpo se non la ricerca del piacere e, per suo tramite, di quello stato emotivo che definiamo, appunto, “felicità”: per certi versi potremmo dire che scopo principale del nostro agire è raggiungere, o avvicinarsi il più possibile, a quello stato di grazia. Parrebbe la cosa più ovvia e naturale, eppure…
Ma cerchiamo di dare uno sguardo (e di mettere un po’ di ordine) nella questione così come la filosofia l’ha considerata.

1. I filosofi come “medici” dell’anima?
In effetti Ippocrate, il primo grande medico greco, aveva stabilito un nesso tra psiche e corpo, vita mentale e vita sensibile, le quali avevano bisogno di un certo equilibrio, di un’armonia: equilibro tra umori interni del corpo e con il mondo esterno, il clima, ecc.
Col che si genera uno strano paradosso: nel momento in cui la filosofia viene intesa come “cura”, sembra quasi voler presumere una condizione di malattia ed infelicità originaria (“ontologica”, cioè costitutiva del nostro essere e legata alla natura umana in quanto tale).

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Leopardi progressivo

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Era il titolo di un saggio del filosofo e militante del Pci Cesare Luporini, scritto nell’immediato secondo dopoguerra e che ebbi la fortuna di leggere una trentina di anni fa, nel contesto di un esame universitario – contesto obbligato che non mi impedì di apprezzarlo, anzi di trovarla una delle letture più esaltanti dei miei vent’anni. Ovviamente, insieme alla lettura degli idilli, dei canti, delle operette morali e di qualche passo sparso dello Zibaldone. Oggi ripartirei da quest’ultimo e me lo leggerei integralmente – se solo potessi, qualche pagina ogni giorno.
Il saggio di Luporini mi è tornato alla mente qualche sera fa, nel corso della visione del film di Martone Il giovane favoloso. Non sto a dare giudizi articolati su di esso: indiscutibilmente bravo l’interprete, con qualche sbavatura ed eccesso la sceneggiatura – rimane il fatto che occorre avere parecchio fegato per cimentarsi in un film su Leopardi. Quel che però è assolutamente apprezzabile del lavoro di Martone è da una parte l’immagine vitale e proiettata nel futuro del poeta di Recanati che ne vien fuori, e dall’altra l’essere riuscito ad articolare in poco più di due ore la summa, gli snodi essenziali, il filo del progresso mentale, psicologico ed intellettuale di Leopardi – che non è certo cosa facile. Ed è forse questo il motivo per cui mi è tornato in mente quello scritto.
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La schizofrenia ontologica – Oltrepassare Severino 2

Leggendo il libro di ricordi di Emanuele Severino – che com’è giusto che sia mescola esistenza e filosofia, affetti e ragionamenti, biografia e ontologia – si ha tuttavia l’impressione di una schizofrenia di fondo. Uso il termine nel suo significato originario (“divisione della mente”), senza dunque alcuna connotazione psichiatrica, per sottolineare una vera e propria Trennung filosofica, una scissione che non è soltanto quella convenzionale tra l’io e il mondo, l’individuo e la società, la finitezza della mia mente e l’intero universo nel quale quella mente si sente sperduta, ma che attiene al discorso filosofico essenziale di Severino. Lo esemplifico con due metafore da lui utilizzate nel testo:
la prima allude all’altalenante condizione del sogno e della veglia nella quale ci troviamo immersi, un tema che da Eraclito a Calderon de la Barca ha una lunga tradizione, ma che in Severino pare caricarsi di una inaudita radicalità: il sogno (“la terra isolata dal destino”) essendo la nostra condizione fondamentale, da cui emerge la via della veglia (e dunque della verità), che solo in quanto porta alla luce il sapere che l’apparire di quell’apparire non è un sogno, può indicare il “destino”, cioè lo stare assolutamente incondizionato;
la seconda metafora, di ascendenza evangelica, è quella del campo dove crescono il loglio e il grano: lo spazio dell’uno o dell’altro delimita rispettivamente quel che è proprio dell'”esser uomo” (quell’uomo errante che è Emanuele Severino), e quel che invece è “testimonianza del destino”, un Io-destino infinitamente altro dall’io-Severino. Il merito che Severino pare attribuirsi è quello che nel “suo” campo (ma è “suo”? e che cos’è il campo? – è lui stesso a chiederselo) è via via andato crescendo il grano, confinando il loglio in spazi sempre più ristretti.

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Meditabondi animali

Approfittando dell’interessante dibattito generato da un post di qualche giorno fa, ho provato a riflettere sulla pratica della meditazione. Ed è subito sorto un problema: un conto è meditare, un altro è riflettere sulla meditazione (o, se è lecito dirlo, meditare sulla meditazione): il pensiero riflessivo tipico della filosofia occidentale (quel che riflette su ogni cosa, perché la mente è portata a pensare di essere una superficie-specchio, una facoltà in grado cioè di recepire e restituire qualsiasi oggetto, sé compresa), ha qualche problema ad affrontare quel che (almeno in parte) ne vorrebbe negare l’assoluta trasparenza ed evidenza. Lati oscuri, opachi, spigolosi o inintelligibili della realtà – la vita o l’esistenza nuda e cruda, che non si fanno certo ridurre all’ordine scientifico, logico, filosofico. La meditazione appare allora come una porta stretta che può essere aperta su questo territorio umbratile e misterioso.
Non intendo qui disquisire in modo approfondito sul significato del termine, o sulla sua fenomenologia – dato per inteso che si tratta di parola (e di concetto) piuttosto stratificato e irriducibile ad un unico significato. Se l’etimo ci rivela la comunanza con la cura (medèri, da una radice indoeuropea che mette insieme i significati di curare e di riflettere), l’esistenza di pratiche così diverse di meditazione (in Occidente come in Oriente – o, meglio, in quello spazio che l’Occidente definisce “Oriente”) induce a sospettare che possano essere raccolte sotto il medesimo nome.
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Atomi pensanti (e possibilmente denuclearizzati)

Atomi tormentati, su questo cumulo di fango,
che la morte inghiotte e con cui la sorte gioca
ma atomi pensanti.
(Voltaire)

Ho già più volte affrontato su questo blog il tema della teodicea (qui in particolare, anche se rovesciato in termini di antropodicea). E’ sempre bene ricordare, con le parole del Dialogo della natura e di un islandese di Leopardi, che la natura è del tutto indifferente alle nostre vicende, e se ne sbatte altamente di noi come di tutte le altre specie o dei singoli viventi. O meglio: ciò che noi chiamiamo “natura” non ha in sé nessun elemento soggettivo, nessuna volontà, nessun piano – così come noi un po’ presuntuosamente intendiamo questi concetti che le vorremmo attribuire, direttamente o indirettamente. Dio non c’è, e se anche ci fosse se ne sbatterebbe pure lui (perché mai dovrebbe appassionarsi ad un così minuscolo ed insignificante angolo, un banale puntino nell’economia dell’universo? – o della pluralità di universi, come vanno sostenendo alcuni cosmologi).
Quel che forse colpisce di più nelle immagini del muro nero d’acqua che ha spazzato via le città giapponesi di Onagawa o di Minamisanriku inghiottendo gran parte dei loro abitanti, delle case, degli oggetti – della medesima natura – è proprio quell’assoluta indifferenza, quel misto di terribile innocenza e cecità, quell’impersonale e necessario incedere degli eventi che non può non lasciare attoniti. E che però è il carattere più profondo – direi ontologico – della natura, del cosmo, dell’essere.
Dice Eraclito:
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Umana compagnia

(con le terribili eppur fraterne, pietose ed universalissime parole di Giacomo…)

Islandese. E mi risolvo a conchiudere che tu sei nemica scoperta degli uomini, e degli altri animali, e di tutte le opere tue; che ora c’insidii ora ci minacci ora ci assalti ora ci pungi ora ci percuoti ora ci laceri, e sempre o ci offendi o ci perseguiti; e che, per costume e per instituto, sei carnefice della tua propria famiglia, de’ tuoi figlioli e, per dir così, del tuo sangue e delle tue viscere. […]
Natura. Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra?

Immagine linguaggio figura

E questa siepe, che da tanta parte
Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude…

Ho letto con molto interesse il libro di Emilio Garroni – filosofo innovativo del campo estetico in Italia,  nonché scrittore e pittore – intitolato Immagine Linguaggio Figura, edito da Laterza nel 2005, poco prima della sua morte: un piccolo saggio suddiviso in brevi capitoli che, a dispetto dell’apparenza, è in realtà denso di questioni di grande rilievo, sia sul fronte conoscitivo, che su quello propriamente estetico; ed infine, anche se lasciate un po’ sullo sfondo, di ordine etico-politico. In verità, a partire dalla domanda cruciale a proposito dello statuto della percezione e di quel suo prodotto tipico che è l’immagine interna, la ricerca ha come orizzonte ben più ampio quello riguardante il nostro stesso statuto antropologico, la nostra modalità di stare al mondo e di costruirci un’idea totale del mondo.
Si potrebbe tranquillamente dire che il tentativo non dichiarato dell’autore sia quello di promuovere una vera e propria metafisica della percezione (nonostante l’espressione suoni quasi come un ossimoro), cioè una riconduzione della nostra facoltà linguistica (e dunque teoretica, astratta, metaoperativa, metaoggettuale, e quant’altro) alla sua ineludibile base percettiva. Senza per questo cedere a ingenui riduzionismi o a facili schemi causali – alternative estreme tra soggettivismo e oggettivismo, nominalismo e realismo, o antiche scissioni tra anima e corpo, spirito e materia, mente e cervello, e così via.
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Ludwig, Giacomo e le pene di Haiti

(Era mia intenzione intitolare questo post E’ come un giorno d’allegrezza pieno – utilizzando il celebre verso leopardiano. Poi c’è stato il terremoto di Haiti, e le parole, i pensieri, le intenzioni, come sempre, si sono curvati sotto il peso di un altro umore…)

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Ho avuto la fortuna di assistere agli inizi dell’anno all’esecuzione della Sesta sinfonia di Beethoven: una sorta di rito augurale e propiziatorio. Nota anche con il nome di Pastorale, era stata tra l’altro utilizzata in uno degli episodi del magnifico film di animazione musicale Fantasia (tra i più memorabili della Walt Disney, che non ha prodotto solo danni all’immaginario collettivo).
Quel che colpisce di questa straordinaria sinfonia è la serenità, la perfezione formale, la godibilità melodica. Il mondo che ci circonda – nella fattispecie la natura nella quale siamo immersi – viene rappresentato musicalmente attraverso i registri della bellezza e della soavità: sonorità idilliache, alquanto stridenti con altre cui Beethoven ci ha abituato (va registrato oltretutto che mentre lavorava alla sesta, in contemporanea componeva la quinta, e le due sinfonie vennero eseguite insieme per la prima volta nel 1808).
Tutto è così liscio e perfetto, ricolmo di bellezza e di gaudio, di dolcezza e di festosità; tutto, tranne quell’episodio di pochi minuti verso i tre quarti dell’esecuzione (il IV movimento), quando si scatena il temporale. Continua a leggere “Ludwig, Giacomo e le pene di Haiti”