Filosofie della storia – 6. Il principio speranza di Bloch

1. Una filosofia della storia futura: quasi una contraddizione in termini.
La storia, il passato, la memoria, insieme alle condizioni materiali date, sono il complesso di elementi che pesa sulla vita degli umani, che sembra condizionarli, pre-determinarli, obbligarli su strade necessitate. Evocare quindi una filosofia della storia futura appare quantomai problematico, se si pensa alla forza di quei condizionamenti. Nello stesso tempo – basti pensare alla vita dei singoli – esiste pur sempre una controforza, una pulsione che spinge in direzione del nuovo, dell’inusitato, del non-ancora. Se c’è nell’individuo deve esserci anche in quell’individuo più in grande che è la collettività – fino probabilmente a spingersi all’intera umanità. Questa pulsione viene individuata dal filosofo tedesco Ernst Bloch nel principio speranza (Prinzip Hoffnung).
Principio, non solo affetto: Bloch pensa che la speranza non sia da restringere al campo sentimentale o soggettivo, ma che piuttosto costituisca una forza evolutiva presente a monte, ontologicamente, nell’essere, nella materia, nella vita stessa. Non solo: la speranza ha anche un significato cognitivo, è docta spes, una sorta di scienza utopica.

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Filosofia della leggerezza

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Colui che un giorno insegnerà il volo agli uomini,
avrà spostato tutte le pietre di confine;
esse tutte voleranno in aria per lui,
ed egli darà un nuovo nome alla terra, battezzandola
– “la leggera”.
(F. Nietzsche)

PRIMA PARTE – IL PENSIERO DELLA LEGGEREZZA

«Se volessi scegliere un simbolo augurale per l’affacciarsi al nuovo millennio, sceglierei questo: l’agile salto improvviso del poeta-filosofo che si solleva sulla pesantezza del mondo, dimostrando che la sua gravità contiene il segreto della leggerezza, mentre quella che molti credono essere la vitalità dei tempi, rumorosa, aggressiva, scalpitante e rombante, appartiene al regno della morte, come un cimitero d’automobili arrugginite».

Italo Calvino scrive queste parole durante l’estate del 1985, poco prima di morire – parole che si possono ritenere un lascito, un vero e proprio testamento culturale.
Si trovano nella prima delle sei Lezioni americane, quella dedicata alla “Leggerezza”, e ritengo possano ispirare il discorso che vorrei articolare a proposito del passaggio (o se si preferisce della dialettica) tra gravità e leggerezza. Calvino sembra qui alludere ad una visione millenarista, uno snodo epocale, augurandosi che la ruggine materiale e spirituale del Novecento venga abbandonata al suo destino, e auspicando un salto nella dimensione di una categoria – la leggerezza – che va meglio chiarita.

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Catalogo delle passioni: misericordia affetto triste?

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I filosofi tradizionalmente e nella stragrande maggioranza sono inclini ad essere poco misericordiosi e compassionevoli: basterebbe consultare un qualunque dizionario filosofico per rendersene conto, visto che difficilmente vi si troverebbero le voci “misericordia”, “pietà”, “compassione” e simili; al più tali affetti verrebbero citati sotto voci più ampie, quali virtù, etica, giustizia, passioni.
Occorre chiedersi donde vengono questa indifferenza, circospezione quando non manifesta sospettosità. Forse la celebre immagine della dolce lontananza dagli affanni con cui Lucrezio apre il libro II del De rerum natura ci offre qualche interessante spunto in proposito: il filosofo – nella forma più classica del saggio antico – preferisce non essere turbato dagli affetti tristi indotti dalle miserie umane; egli guarda anzi con piacevole sufficienza (e un poco di alterigia) gli umani «errare smarriti cercando qua e là il sentiero della vita», gareggiare, competere e «sforzarsi giorno e notte con straordinaria fatica di giungere a eccelsa opulenza e d’impadronirsi del potere». Sforzo inutile e vano per menti misere e cieche, che non capiscono che l’unica vera liberazione dalla miseria – l’unico vero atto di misericordia – è che l’anima viva e goda «d’un senso gioioso sgombra d’affanni e timori»: atarassia, imperturbabilità sono qui le parole d’ordine1.

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Settima parola: bene

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(Vista la vignetta dei Peanuts qui sopra, mi toccherà forse parlar male del bene…)

Nel termine latino bonum (aggettivo bonus) ci sono tutte le caratteristiche con le quali viene comunemente utilizzato il concetto di bene: dal summum bonum, all’essere retti e onesti, alla felicità, utilità, prosperità, ecc.
Senonché dire:
il Bene
-fare il bene (o meglio, buone azioni)
-io sto bene
sono espressioni molto differenti, che si riferiscono ad accezioni parecchio diverse della medesima parola.
Che alludono ad una diversa caratterizzazione del bene a seconda che esso venga inteso in termini oggettivi (il bene come idea-valore in sé) o in termini soggettivi, e dunque relativi a situazioni sociali e storiche determinate, o più semplicemente concernenti le relazioni intersoggettive (utilità, felicità sociale e individuale, ecc.).

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Umana natura onnilaterale

[Pubblico qui di seguito il mio contributo al saggio collettivo Corpo e rivoluzione: sulla filosofia di Luciano Parinetto, a cura di Manuele Bellini, edito da Mimesis nel 2012. Si tratta di una riflessione, a partire dall’opera e dal pensiero di Parinetto, sul concetto di natura umana in Marx, Spinoza, Rousseau e dintorni]

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Natura umana e Ganzheit nell’opera di Luciano Parinetto

“Non occorre tornare all’età dell’oro,
occorre diventare oro.
A cominciare dal proprio corpo”.
(Faust e Marx)

 

1. Prologo extravagante

“Progetto infinito”: questa la caratterizzazione che Parinetto dà dell’essere umano, in quella meditazione estrema e finale in versi, a proposito del “montaggio” che caratterizza il fenomeno morte, intitolata Extravagante. Sorella morte. Una vera e propria summa del suo pensiero intorno al concetto di natura umana, concetto-progetto quant’altri mai: “Noi siamo, che gli diamo un nostro senso / nel progetto perpetuo che noi siamo”.

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Verità minori

egon_schiele_003Già filosofi meno pretenziosi e umili come Lessing dichiaravano di accontentarsi di verità minori a fronte dell’Unica Verità Maggiore (e a Lessing mi ha fatto pensare l’apologo della compianta Franca Rame, narrato postumo dal suo compagno di una vita). L’Unica Verità Maggiore appare poi risibile, ma soprattutto inutile (come per sua natura non può non essere), accanto a verità minori – ma dovute e necessarie – quali quelle richieste da un corpo martoriato di un giovane concittadino che entra vivo ed esce morto dalle spire dello Stato. E la cui verità (sempre minore) esce ora di nuovo stritolata e negata dalla kafkiana Macchina della Giustizia.
Resta il fatto che l’immagine quantomai vera e vivida del volto tumefatto e devastato di Stefano Cucchi – che però non mi sono sentito di esporre – è lì ad interrogarci.

I peli del bene

Siccome si avvicina Natale, voglio essere cattivo. E così oggi mi dedicherò al dileggio di quello che Zagrebelsky definisce lessico della carità. Voglio, in sostanza, parlar male del bene.
C’è un aggettivo che qualifica alcune parole di questo lessico, proprio per metterne in dubbio e revocarne il disinteresse: peloso. Perché si dice di una carità o di un atto di generosità che sarebbero “pelosi”? Al di là dell’etimologia dubbia dell’espressione (e della pluralità dell’uso figurativo del termine pelo, spesso negativo), la pelosità di un comportamento sembra alludere al contrasto tra ciò che appare e ciò che è, o più precisamente alla presenza di aspetti che rompono il lindore e la purezza di una superficie, e all’imprevisto spuntare di elementi filiformi laddove non ce ne dovrebbero essere – come quando si dice avere il pelo sul cuore o sullo stomaco o, per contrasto, non avere peli sulla lingua.
Vorrei qui avvicinare la peluria del sospetto ad alcuni nomi (prima ancora dei relativi concetti), sovra- (o male-) utilizzati nella nostra epoca. Gustavo Zagrebelsky vi ragiona nel suo recente pamphlet Sulla lingua del tempo presente, con riferimento all’attuale scena politica italiana, dominata com’è noto dall’ideologia berlusconiana: oltre a “scendere in campo”, “contrattare”, “mantenuti”, “fare”, “tasche”, spiccano nell’elenco le parole amore e doni. Aggiungerei gli affini volontariato, bene, carità, buone azioni. Intendiamoci: sono nomi che alludono a idee e concetti con una storia ed uno spessore tali da risultare irriducibili ad una qualche definizione o semplificazione. Di ciascuno bisognerebbe quantomeno tracciare una genealogia. Ma forse il problema sta proprio qui: nello svuotamento di quei termini e nella loro esibizione (e sovraesposizione mediatica, dunque retorica e sofistica) finalizzata a tutt’altri scopi. Quasi una metabasi in altro genere, un uso improprio e fuori contesto.

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PAIDEIA VERSUS 133

Il filologo tedesco Werner Jaeger, nella sua monumentale opera dedicata alla Paideia greca, cita alcuni versi che a suo dire valgono a caratterizzare con precisione il significato dell’educazione e della formazione nella vita dei Greci, proprio sul finire della loro età aurea: “Il solo possesso che nessuno può rubare all’uomo è la paideia”, vale a dire la sua cultura spirituale; e ancora “La paideia è un porto per ogni mortale”. E’ il commediografo Menandro a scriverli, tra il IV e il III secolo a.C., quando l’epoca della polis è ormai un pallido ricordo.
Sono felice di tornare a citare Lessing, che, in continuità con l’ideale greco, scrive tra il 1777 e il 1780 una breve quanto straordinaria opera in 100 tappe dedicata alla Formazione dell’umanità, un vero e proprio manifesto utopico e illuministico inneggiante alla Vollendung, al tempo della pienezza da conquistare tanto per i singoli quanto per l’intera umanità.
Questi da sempre sono stati i miei modelli e punti di riferimenti, entrambi volti alla costruzione di un essere umano totale e onnilaterale, che sia cioè messo in grado di sviluppare in ogni direzione le proprie capacità – i propri “talenti” – e che soprattutto possa farlo motu proprio, secondo i principi dell’autodeterminazione e dello spirito critico.

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LIBERI ACCOSTAMENTI

Ho letto per caso in rete un post provocatorio di Dacia Valent dal titolo inequivocabile Italiani di merda, Italiani bastardi, pubblicato un paio di settimane fa sul suo blog Verbavalent. Non condivido per nulla il linguaggio di quel pezzo (troppo simile alla prosa di Oriana Fallaci per i miei gusti), non certo perché sia fiero di essere “italiano”, cosa di cui mi frega ben poco, ma perché ritengo che la semplificazione/riduzione anche quando è generata dalla rabbia e dall’indignazione fa il gioco dei nemici del conflitto e della giustizia sociale, dei guerrafondai e dei razzisti/xenofobi, dei suprematisti, degli etnocentrici e di tutti i delirii identitari inventati dagli umani. Tuttavia…

Ho già avuto modo di citare il grande pensatore illuminista tedesco Gotthold Ephraim Lessing e la sua posizione a proposito di eroismo e di buone azioni. Ma repetita juvant: nel primo dei suoi Colloqui per massoni, a proposito della neutralizzazione del bisogno di opere buone da intendersi come conquista razionale (“massonica”) e dunque vero progresso dell’umanità, Lessing allude ad azioni “che parlano da sole, starei quasi per dire, che urlano”. Ma, conclude, “le vere azioni dei massoni mirano a questo, a rendere superflue, per la massima parte, tutte quelle azioni che comunemente si usa definir buone”.

Ciascuno, ora, è libero di interpretare come vuole il mio libero accostamento di queste due modalità espressive, linguistiche e concettuali alla solitudine e all’ingiusto (stavo per dire inutile) eroismo di Roberto Saviano, cui va necessariamente tutta la mia solidarietà…