Se questa è una macchina

(ho avuto l’onore e il piacere di introdurre questa serata su Primo Levi, nella biblioteca nella quale lavoro; quella che segue è la traccia del mio intervento)

Se Primo Levi è noto soprattutto per la sua opera di testimone sopravvissuto alla Shoah, nell’arco che va da Se questo è un uomo e La tregua fino al saggio-testamento I sommersi e i salvati (uno dei più importanti studi sulla natura umana del ‘900), vi è anche, “nel mezzo”, un Levi scrittore, soprattutto di racconti, forse meno noto ma altrettanto degno di interesse. Ci riferiamo in particolare alle due raccolte “fantascientifiche” Storie naturali e Vizio di forma.

Le Storie naturali vennero pubblicate nel 1966 con lo pseudonimo Damiano Malabaila, su consiglio dell’editore per questioni di opportunità legate al Levi testimone (La tregua era stata pubblicata solo pochi anni prima, nel 1963).
Levi dichiara a tal proposito di sentirsi un centauro, un anfibio: lo scrittore-testimone dei campi e il chimico della fabbrica, ma anche lo scrittore di cose (apparentemente) diversissime tra di loro. Queste due raccolte sono infatti classificabili come racconti di fantascienza, per quanto non parlino di alieni, astronavi, ufo o viaggi spaziali, e dovevano risultare piuttosto strani, se non stonati, agli occhi del lettore del Levi di Auschwitz.
Il titolo è la citazione di una citazione: Rabelais che cita la Storia naturale di Plinio, evidentemente con intento ironico, dato che le storie narrate sono le meno naturali possibili, anche se il linguaggio scelto da Levi vorrebbe essere quello della neutralità e della relazione scientifica.
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Benedetto Haruf

(questa è l’ultima foto che ho fatto con mio padre, lo scorso febbraio, tre mesi prima che ci lasciasse; è stata una benedizione vederlo sorridere ancora, anche se sarebbe stata una delle ultime volte; leggendo questo romanzo di Kent Haruf, inevitabilmente fin dalle prime righe ho pensato a lui; l’autore, qui, parla anche di lui, di me, di noi, e di mia madre e dei quasi sessant’anni accanto all’uomo della sua vita; parla a me, alla mia anima affranta e a tutte le anime: anche per questo, siano benedette per sempre le sue parole)

Una benedizione è questa Trilogia della pianura che ci è stata donata in sorte – con quest’ultimo romanzo in particolare, che tratta fondamentalmente del tema della morte, e che è stato pubblicato da Kent Haruf poco prima della sua, di morte.
Per chi non lo avesse mai letto, c’è solo da premettere che nelle sue storie non succede nulla di eclatante, tutto si svolge in maniera piana, semplice, quasi sussurrata, intima, con l’asciuttezza tipica di un McCarthy, in quella scena-mondo che è Holt, il paese immaginario (ma specchio di luoghi in cui l’autore ha vissuto) che sta dalle parti di Denver, in Colorado. Dicevo: non succede nulla, per dire che invece succede tutto.
Lo schema narrativo si ripete identico in tutti i romanzi di Haruf: due, tre storie che si intrecciano o alternano, e che ci narrano vite semplici – o meglio, apparentemente semplici – in un contesto sociale e antropologico che è l’eterna provincia americana, l’America profonda e rurale, e in un contesto naturale che ci dovrebbe ricordare quanto può essere dura la terra, e quanto ostili gli elementi.
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La vita (dis)continua

Se c’è un’espressione che detesto è la vita continua.
Ti è successo questo, ti è successo quest’altro – ma la vita continua.
Ti è morto un genitore, un figlio/a, un amico/a, un compagno/a (valgono anche gli animali) – eppure la vita continua. Ci sarà sempre qualcuno che userà questa espressione trita, banale e stupidamente tautologica – volta forse a nascondere da una parte l’imbarazzo e l’incapacità di dire cose sensate di fronte ai lutti o alle tragedie, e dall’altra il sospetto che sempre alligna nella mente di chi la dice che quella vita che si vuole così continua e lineare sia in realtà un abisso di orrori.
Una vita come tanteA Little Life nell’edizione americana originale – romanzo della scrittrice di origini hawaiane Hanya Yanagihara, sembra quasi voler rispondere, e ci mette oltre mille pagine per farlo, alla banalità di quell’espressione – perché la vita non continua.
A dispetto della sua mole fluviale, potremmo ridurre l’intreccio narrativo a due semplici e però essenziali domande: la prima – che cos’è il male? – è inscritta nel destino toccato in sorte a Jude, l’infelice protagonista (ma chi è felice?), ovvero il male come indebolimento dell’altro, diminuzione sistematica della sua potenza vitale – quasi a dimostrare che nella vita di ogni umano c’è sempre un genio maligno che ha la funzione di inoculargli sottopelle un siero, con la precisa funzione anti-spinoziana di indurgli passioni tristi e inibirgli passioni liete. Progettare l’infelicità dell’altro – come ebbe a suggerire il filosofo amico dei lupi Mark Rowlands.
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Criogenesi mentale

zerokAvevo preso in mano lo scorso novembre con la dovuta reverenza Zero K, l’ultimo romanzo di Don DeLillo, ne avevo letto ammiratissimo l’incipit, Tutti vogliono possedere la fine del mondo – già folgorante di suo – e, cosciente del fatto che trattava di temi bioepocali, che su questo blog trovano spazio da un decennio, ovvero dall’intero tempo della sua vita, ho proceduto masticando il libro piano, con la dovuta cautela, senza divorarlo come si fa con un libro di genere (sempre se ti prende). Ho quindi annotato qua e là qualche frase, mi sono gustato stile e scrittura, com’è ovvio che sia visto che si tratta di DeLillo, e ho trovato di grande interesse almeno due o tre temi (quello del rapporto padre/figlio con il connesso nodo dell’identità e poi quello della corrispondenza tra i nomi e le maschere-persone – molto più del tema cruciale della morte e della sua eventuale non accettazione), ho ammirato la capacità straniante provocata nel lettore condotto lungo i corridoi di Convergence (questo santuario scientifico dell’immortalità sperduto nelle montagne del Kazakistan), ho man mano pensato che tutto questo meritava una lunga riflessione e magari un articolo per il blog nonché una bella discussione con gli amici.
Dopo di che, terminata la lettura, ho preso il libro e l’ho appoggiato sul tavolino che sta tra il divano e la poltrona di lettura, e lì è rimasto, immobile, come in uno stato di sospensione e di congelamento, in mezzo ad altri libri, ma sempre bene in vista, sospeso pure nell’azoto liquido della mia mente.
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Poesia non poesia

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«I vari scrittori, italiani e non, i quali hanno strillato che Dylan non fa parte della letteratura, dovrebbero chiedersi prima di tutto se ne fanno parte loro, perché pubblicare un libro, o anche molti libri, significa essere dei lavoranti della scrittura, il che va bene, ma non significa per forza far parte di ciò che la letteratura decide di essere giorno per giorno. Vale ancora di più per la poesia. Che per ammontare a qualcosa deve uscire dalla pagina, deve acquisire una voce» (Alessandro Carrera)

«Nel mondo della merce, dello spettacolo e del pensiero unico… chi perde più tempo a leggere, e a leggere versi? … C’era proprio bisogno di correre in soccorso delle star? Sarebbe bastato aprire altre sezioni del Nobel, e  nel frattempo lasciare sopravvivere quella parola fragile, “diversamente musicale”, che vive unicamente sulla pagina» (Valerio Magrelli)

Al di là delle polemiche sterili, della faciloneria delle sparate social e di qualche mal di pancia “di categoria”, il Nobel a Bob Dylan, e la straordinaria contingenza della sua assegnazione nel medesimo giorno della morte di un altro premiato controverso quale fu a suo tempo Dario Fo – è interessantissimo proprio per quanto concerne lo statuto della poesia e della letteratura, che cosa esse siano (o siano diventate, vista la loro ovvia cangiante storicità), quale funzione sociale rivestono, quale il loro significato.
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The Giver: i doni avvelenati della perfezione

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The Giver non è soltanto un piccolo romanzo distopico (uno dei tanti, per un genere che pare “tirare” parecchio, specie nelle trasposizioni cinematografiche), ma ha dei tratti propriamente disfilosofici (anfibolici, ovvero paradossali) parecchio interessanti. Mi spiego.
Premessa: nulla di originalissimo, ovviamente, anche perché il filone distopico ha ormai una lunga e robusta tradizione, però qui l’autrice (Lois Lowry, che lo aveva scritto ormai vent’anni fa) immagina e concepisce con semplicità – e forse con qualche elemento di novità – una alternativa secca tra perfezione e imperfezione (un po’ come avverrà nel film huxleyano Gattaca, tra validi e non validi). E lo fa con un linguaggio piano e a tratti fiabesco – tant’è che il libro viene originariamente incasellato nel genere “fantascienza per ragazzi”, confine che finisce per stargli stretto.
Il mondo sociale che si pensa di avere edificato ha tutte le caratteristiche della razionalità (più pratica che teorica), dell’uniformità, della precisione linguistica (evocata molto suggestivamente da un padre lontano delle distopie, qual è Swift), del controllo-prosciugamento delle passioni (antico sogno stoico), del controllo del pianeta, dell’eugenetica, e così via.
Non si nasce e non si muore a caso, e a maggior ragione si vive organici, coesi ed organizzati.
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È, dunque, la violenza!

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Ho letto di recente Il caso Eddy Belleguele, che pare abbia spopolato in Francia. Qualche tempo fa avevo letto, di John Williams, Nulla, solo la notte. Un accostamento improprio, data la lontananza geografica, culturale, tematica, stilistica. Eppure: sarà che ultimamente vedo e percepisco straniamenti ovunque, trovo che entrambi questi brevi romanzi – oltre al contenuto della violenza che li lega – siano caratterizzati proprio dalla loro forma straniante.
Nel caso dello scrittore americano, in maniera praticamente dichiarata ed oltranzista (come del resto era già avvenuto in Stoner): il sogno con cui il racconto di Williams si apre, è una lenta messa a fuoco del fenomeno straniante per eccellenza, un riconoscimento solo a posteriori che la figura al centro della scena non è un altro, ma io – eppure è come se fosse un altro, e “io” e “altro” si equivalgono proprio in questa fuoriuscita e deflagrazione del senso. Irrelatezza e separatezza – “guardandola, fu assalito di nuovo dalla coscienza dell’evidente ed essenziale separatezza di tutte le persone” – sono la cifra esistenziale dominante, in tutto quel che accade al giovane Maxley in una qualsiasi giornata californiana, dall’alba a notte inoltrata (i termini temporali della narrazione, che sono però i termini di una vita insensata ed irrelata).
Ma è il giovane scrittore francese Èdouard Louis Continua a leggere “È, dunque, la violenza!”

La sostanza di Stoner

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L’ho letto quasi d’un fiato, come non mi capitava da tempo. Non ricordo chi me l’ha consigliato (se una persona in carne ed ossa, una qualche citazione fortuita e collaterale o semplicemente il mio lavoro di bibliotecario), ma sono davvero contento di averlo letto. È probabile che abbia sbirciato una frase della postfazione di Peter Cameron, scrittore che stimo e di cui ho letto con molto interesse Un giorno questo dolore ti sarà utile – quando dice: «la verità è che si possono scrivere dei pessimi romanzi su delle vite emozionanti e che la vita più silenziosa, se esaminata con affetto, compassione e grande cura, può fruttare una straordinaria messe letteraria».
E in effetti è questo il primo aspetto notevole del romanzo di John Williams, che è forse ciò che più eleva e nobilita la letteratura e la scrittura: lo sguardo compassionevole e la sintonia affettiva con il destino degli umani (e non solo, poiché anche di animali, vegetali, pietre, oggetti ed altro si può scrivere in tal modo) – che è davvero un “prendersi cura” (l’inviare “ambasciate d’affetto”, di cui parlava Vitaliano Brancati nel Bell’Antonio).
Vi è poi la straordinaria capacità di rappresentare “una vita” nei suoi snodi essenziali, sia interni che esterni (ammesso che tale distinzione possa essere fatta): Stoner – il nome del protagonista del romanzo, da cui prende il titolo – è totalmente dentro il suo tempo (ma, come vedremo tra poco, ne è al contempo totalmente fuori).
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La storia è sogno

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Nel leggere l’ultimo romanzo di Giuseppe Lupo, si ha la netta sensazione di stare in bilico tra la storia e il sogno – e di fatti l’autore scrive nella nota finale: «I fatti narrati in questo romanzo sono figli dell’immaginazione e della verità, sia pure camuffata di finzione. Più che nella menzogna della letteratura, credo nell’utopia o nel sogno della storia».
Di storia ce n’è molta ne I viaggiatori di nuvole: siamo alla fine del XV secolo, nel corso di un passaggio cruciale della storia europea: la nascita dell’epoca moderna annunciata dalla rivoluzione della stampa e dai viaggi oltreoceano (oltre che, ahimé, dalle nuove tecnologie militari). E proprio il viaggio, la scrittura, la guerra  sono tre elementi portanti della narrazione.
Il viaggio è evocato fin nel titolo (e l’autore ce ne ha svelato la genesi, durante l’interessante presentazione tenutasi lo scorso sabato 7 dicembre nella biblioteca di Rescaldina) e del resto la trama del romanzo proprio ad un viaggio è “riducibile”: il protagonista, Zosimo Aleppo, un giovane apprendista stampatore di Venezia di origini ebraiche, viaggerà per un anno alla ricerca di alcune misteriose pergamene, che il suo padrone vuole far stampare, con la promessa (o il miraggio) di un veloce arricchimento. La dritta viene da un certo Lionardo di passaggio a Milano in quegli anni. Ma non è certo il denaro la molla essenziale degli eventi che andranno accadendo.
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Psicosofie estive – 4. L’ombra della verditudine

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È dai tempi in cui lessi con furore ed avidità Cormac McCarthy che non provavo, leggendo un romanzo, quel che ho provato con La lucina di Antonio Moresco. Commozione ed un’immensa, consapevole, e quasi cosmica, tristezza. So che il mio Spinoza non approverebbe, e nemmeno un bel po’ di filosofi portati a pensare che tutto sommato tutto-ciò-che-è è ben fatto e ben disposto.
Ma quando cammino immerso nella verditudine, colpito dai raggi del sole e inebriato dal ronzare della vita attorno a me, non posso non pensare che proprio il cuore pulsante di quella vita è fatta di orrore, non solo di bellezza.
E allora mi domando, con Moresco:
«Perché c’è tutto questo sottobosco cattivo… che cerca di avviluppare e di cancellare e di soffocare gli alberi più grandi? Perché tutta questa misera e disperata ferocia che sfigura ogni cosa? Perché tutto questo brulicare di corpi che cercano di prosciugare gli altri corpi suggendoli con le loro mille e mille scatenate radici e le loro piccole, forsennate ventose, per dirottarne su di sé la potenza chimica, per creare nuovi fronti vegetali in grado di annientare tutto, di massacrare tutto? Dove posso andare per non vedere più questo scempio, questa irreparabile e cieca torsione che hanno chiamato vita?».
E questo è solo il fronte vegetale, che a noi di solito appare più mite e gentile… figuriamoci il fronte animale o quello umano.

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