
Prologo. Secondo il filosofo Emmanuel Levinas, “noi chiamiamo volto (visage) il modo in cui si presenta l’Altro”. Il volto, che vive biblicamente nel povero, nello straniero, nella vedova e nell’orfano, e che porta scritto in se stesso il comandamento “non uccidere”, ha un’esplicita valenza etica, anzi rappresenta la struttura di ogni eticità possibile. “Il volto mi chiede e mi ordina. La parola Io significa eccomi. Fare qualcosa per un altro. Donare. Essere spirito umano significa questo”. Il volto è anche la fragile esposizione all’altro che ne diventa in qualche modo responsabile, il consegnarsi, spesso inerme, alla sua pietas. E’ difficile guardare in faccia il nemico che si uccide, talvolta intollerabile.
Qualche giorno fa ho ricordato un episodio capitatomi al mio arrivo in Sicilia lo scorso 10 agosto. Lo avevo completamente rimosso per due lunghi mesi e poi, all’improvviso, attraverso una di quelle misteriose catene associative tramite cui talvolta la nostra memoria si attiva, mi è “tornato alla mente”. In realtà era catalogato da qualche parte, racchiuso in qualche sinapsi o neurone dormiente che poi si è improvvisamente rianimato. Ma veniamo all’episodio. Sto per prendere il treno che da Messina mi porterà al mio paese sui Nebrodi, e dopo l’aereo, l’autobus, la nave e il tram l’ennesimo trasbordo nella calura agostana sta cominciando a fiaccarmi. Sono però felice per il mio arrivo, per il mare, per il sole, per l’aria, i profumi. Ma non sto a farla lunga. Sulla banchina della stazione mi avvicina una donna straniera, dai tratti sembra asiatica, forse indiana o pachistana, sulla cinquantina, e mi chiede un’informazione sul treno. Io le rispondo, ma poi capisco che non le basta, che vuole qualcos’altro da me. In verità sono un po’ infastidito, avrei voluto godermi in perfetta solitudine il momento dell’approdo, dell’arrivo. Sono molto geloso quando celebro i miei riti. E forse c’è anche dell’altro che non sto a indagare, magari quella melma fastidiosa che ribolle nel nostro basso ventre quando si è avvicinati da un estraneo, per di più così tanto estraneo…
Alla fine lei capisce che non intendo molto starla a sentire e, pur seguendomi nello stesso vagone, si siede nell’altra fila di sedie. Ma dopo l’incrociarsi fugace di qualche sguardo, alla fine decido che la mia dorata solitudine protosicula può anche andare al diavolo, e a maggior ragione l’eventuale irrazionale e ancestrale diffidenza. La invito a sedersi di fronte a me e cominciamo a parlare. Poche parole, in verità, conosce pochissimo l’italiano. Ma al di là della storia frammentata che le mie orecchie ascoltano (la solita storia di sfruttamenti, profittatori, bastardi che promettono, illudono e nè mantengono né pagano, naturalmente italianissimi), sono il suo volto e i suoi gesti che mi colpiscono profondamente. Il suo sguardo impaurito e implorante, le mani insicure, quel fremere di tutto il corpo, le sue lacrime discrete. Stava andando, qualche stazione dopo la mia, a trovare un amico – un “paesano” – che forse avrebbe potuto lenire la sua sofferenza e la sua disperazione. O magari si sarebbe rivelato l’ennesimo bastardo profittatore. Ho realizzato che quella donna, quel volto erano disperatamente soli, persi nel nulla, e invocavano aiuto. Poi, rinfrancatasi un momento, su mia sollecitazione comincia a raccontarmi della sua famiglia in India, dei suoi figli più che ventenni, del villaggio, di quanto le manchino. Anche qui, poche frasi smozzicate, e i suoi occhi e la sua bocca che cercano di tendersi in un sorriso, senza molta convinzione. Poi mi preparo a scendere, è arrivata la mia stazione, la saluto con tutto il calore che mi è possibile per le circostanze augurandole buona fortuna.
Il volto di quella donna mi ha devastato in quell’attimo durato poco più di un’ora, per poi sparire per due mesi e infine riaffiorare misteriosamente dall’oblio. Ecco perché ho deciso, affinché non rischiasse di tornare per sempre nel nulla, di fissarlo nella scrittura. Poca cosa, certo. Poca cosa…
foto di FotoCollasso