Gli/le insegnanti sanno bene come sia pressoché impossibile ottenere il silenzio a scuola. E ci si sono assuefatti, alzando tra l’altro loro stessi il volume della voce di quel tot di decibel in più, senza nemmeno rendersene conto.
Eppure l’altro giorno la mia quinta filosofica ha dato una straordinaria prova di crederci davvero, in quel minuto di silenzio e di concentrazione con cui son solito aprire gli incontri. Il rumore di fondo della scuola – che credo permanga persino durante le vacanze estive, da quanto è connaturato con le sue strutture – si è come dissolto: davvero non volava una mosca, e persino la mente di F. – il guastatore (figura che non manca mai) che finge di non partecipare e di farsi gli affari suoi – è rimasta impigliata in quel minuto di epoché.
Bene, ora possiamo cominciare.
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Libri che accendono la mente (o menti che accendono i libri?)
Sto usando scientemente una classe di bambini (una quinta elementare) per i miei esperimenti filosofici con quella fascia di età. Non che quelli del passato non fossero “esperimenti”, ma questo lo è un po’ di più perché è finalizzato alla stesura di alcune parti di un libro che sto scrivendo, dedicato alla filosofia con i bambini. La strategia è però un po’ diversa dal solito, perché sto filosofando con loro in maniera laterale, per cerchi concentrici, apparentemente episodica (o, per meglio dire, rapsodica). Il filo conduttore questa volta non è il filo di filosofia, ma il libro. La cosa, cioè, più antifilosofica che ci sia – se si deve dar retta a Platone, che però tra-scriveva abbondantemente i suoi Dialoghi socratici.
E siamo partiti, tra l’altro, dal concetto di libro, dalla sua idea, da quel che esso è come essenza. Questa opera di astrazione è stata compresa così bene che adesso maneggiano perfettamente la coppia astratto/concreto, universale/particolare.
Lo scopo? a parte quello utilitaristico che ho esposto sopra, dimostrando ancora una volta la filosoficità dei bambini? Boh, non lo so ancora di preciso, mi sto facendo guidare da loro – soprattutto dalla loro creatività linguistica, dalla spontaneità e dal vulcano di metafore che ogni volta ne vien fuori. Ora siamo alle “facce” dei libri…
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‘A casa nno timpuni
Era virdi ‘u timpuni
r’alivi, ficurigna,
rrunzi e colacugghiànnira,
truffazzi r’azzalora.
O ‘n ciancu una casuzza
attimpata…
La storia narra di una casa abbandonata sull’altura, nella campagna siciliana (o marchigiana?). Era diventata, questa casetta, riparo per gli animali. Un viavai di cani, poiane, fagiani, topi, buoi, ramarri, colombine, scarafaggi, ma anche di zecche, vermi, pidocchi, ragni e tarli – soprattutto tarli.
Vi giunse in ottobre un ragazzo di una tredicina di anni. Di lui non sappiamo quasi nulla. Non il suo nome, né da dove viene, né dove andrà. Di certo ha l’aria di un fuggitivo, di uno che si guarda intorno smarrito e che non sa bene che fare. Si decise quindi ad entrare in casa, ma subito dentro si rannicchiò coprendosi il volto con le mani. Si addormentò e un cane lo vegliò. Al mattino così com’era arrivato uscì e s’inoltrò silenzioso nel fitto degli ulivi.
L’indomani ritornò e, come già da tempo succedeva con gli animali, anche lui andò e tornò più volte, in un irrequieto viavai. Che cosa gli passa per la testa? Quali ansie, pensieri, paure, speranze? La storia non dice.
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